martedì 8 ottobre 2013

Il patriota varesino Giulio Bossi

Assistette Ugo Foscolo nella sua ultima malattia.

Ulteriori ricerche potranno accertare se il patriota varesino Giulio Bossi sia stato anche cospiratore e mazziniano. Infatti all’epoca della fioritura della Carboneria italiana egli era a Londra; e in quella della maggiore affermazione della “Giovine Italia” si trovava nel Messico. In verità, appartenne all’esiguo gruppo di lombardi che, alla caduta del Regno d’Italia del Beauarnhais hanno lasciato l’Italia e si sono recati in esilio perché non si adattavano al nuovo regime reazionario instaurato dall’Austria.
Il Bossi se ne andò anche perché, dati i suoi sentimenti, comprendeva che in Lombardia non vi era possibilità di esercitare con successo una professione liberale. Altri si trovarono nelle sue stesse condizioni.
Egli è comunemente chiamato varesino (e persino nato a Varese) perché discendeva dal nobile ramo dei Bossi di Azzate. Era patrizio milanese con diritto di chiamarsi don (e non conte, titolo che onestamente e sdegnosamente asserisce in una sua lettera di non competergli).
Effettivamente era nato a Como nel 1793. Non era parente del cospiratore del 1821, marchese Benigno Bossi, (da non confondersi coll’omonimo incisore di Porto Ceresio vissuto un secolo prima), ma suo coetaneo perché il marchese, che vide la luce lui pure a Como, era nato nel 1888 e don Giulio cinque anni dopo.
Col marchese (la cui sorella Virginia andata sposa ad un Cadorna di Pallanza fu madre di Carlo, illustre uomo di Stato, e di Raffaele, il generale della breccia di Porta Pia) don Giulio dovette trovarsi a Milano al tramonto del regno d’Italia, perché prestava servizio nei cavalleggeri, mentre Benigno comandò la guardia al Palazzo del Senato (oggi sede dell’Archivio di Stato) quando vi fecero irruzione i federati italici del Confalonieri.
Fuori del palazzo molti prezzolati cercavano il troppo zelante e intrepido ministro Prina.
Lo rintracciarono nell’odierno Palazzo Marino e gli fecero fare la orrenda fine divenuta proverbiale.
L’infelice ministro non poté giovarsi della vana difesa del Foscolo, che gli era amico, accorso a Milano da Bellosguardo a sostenere come ufficiale dell’esercito lombardo il Regno d’Italia.
E’ da presumersi che don Giulio, che aveva studiato a Como nel Collegio Gallio e che a Como e nella villa di Vergiate si era trovato spesso a pranzo col poeta, ospite del conte Giovio parente del Bossi stesso, lo abbia allora riveduto a gli abbia stretto la mano, dopo la sua lunga assenza di Bellosguardo.
Non era più, infatti, il collegiato del Gallio, bensì un giovanotto che studiava legge a Pavia. Ma non si laureò a Pavia; si addottorò, invece, in giurisprudenza a Bologna.

A LONDRA.
Bel 1816, per le ragioni sopraddette, il Bossi va a Londra e qui ritrova il Foscolo giuntovi nello stesso anno, dopo il breve periodo di esilio in Svizzera, nei Grigioni e a Zurigo.
A Zurigo, il poeta aveva trovato un altro Bossi di nostra conoscenza: Luigi, fratello del pittore e letterato bustese Giuseppe, così disprezzato dal Foscolo (anche per ragioni di gelosia perché lui pure era amico della”bella infedele” Antonietta Fagnani Arese).
Il Bossi, riparatosi in Svizzera in seguito a un grave dissesto finanziario (e ne parla pure il pittore nelle sue “Memorie”) era in cattive acque e viveva sotto il falso nome di Paoliniano Bellinzaghi. Il Foscolo il 6 luglio 1816 ne informava Gaspare Porta (fratello del poeta Carlo), il banchiere cui chiedeva i zecchini necessari per vivere. Il Bossi, che era nella stessa pensione del Foscolo, non aveva voluto farsi riconoscere; e questi rispettò il suo incognito. Il bustese era stato ammalato ed era ridotto male in tutti i sensi. La sua famiglia, i figli cioè e la moglie Annetta, vennero allora soccorsi generosamente da Carlo Porta, amicissimo del pittore che in una sua poesia gli aveva offerto il modello della “Ninetta del verzée”, il quale pittore anche lui in quel tempo ammalato, poteva solamente preoccuparsi della mala sorte di Luigi[1].
Che faceva don Giulio a Londra? Come il Foscolo impartiva lezioni di lingua e di letteratura italiana. Anzi il Poeta, in un suo studio letterario scrivendo sotto il nome e nelle mutate spoglie di Giulio Bossi afferma di aver già insegnato belle lettere a Varese:”White engaged in teaching belles lettres at a Lyceum of Varese in Italy”. (Ma deve intendersi forse Como, perché non è probabile che verso il 1815 vi fosse un liceo a Varese).
Allora in Inghilterra la concorrenza in questo campo era forte. Vi era, infatti, dispersa in varie città, una schiera di insegnanti di italiano. Erano gli esuli dei moti napoletano del 1820 e piemontese del 1821, che spesso si azzannavano fra loro. (La fame è cattiva consigliera!).
Parecchi di essi, sfuggiti miracolosamente al carcere piemontese, sbarcarono in Spagna dove i fautori della costituzione erano insorti contro il Re; vi avevano combattuto, erano stati feriti; erano caduti sul campo: erano morti di colera; si erano rifugiati in Francia dove vennero arrestati. Alcuni di essi accorsero a combattere per la libertà dei sudamericani pure insorti contro la Spagna. Qualcuno in situazione disperata si era ucciso; qualche altro era impazzito. (Ne parla nelle sue “Memorie” uno di questi esuli, l’aronese Carlo Beolchi).
I più fortunati furono coloro che avevano potuto raggiungere l’Inghilterra. Ma anche questi superstiti di quella che il Foscolo chiamò la tragicommedia carbonara di Napoli conducevano una vita grama.
Il Bossi spinto anche dalla nostalgia della patria, come dice il Foscolo in una lettera in cui lo raccomanda al Pellico, nel 1819 abbandona l’Inghilterra e ritorna in Italia. Ma è nuovamente a Londra nel 1825, dove ritrova il Poeta che aveva lasciato in floride “condizioni” in uno stato di penoso dissesto: si faceva chiamare U.E. Emeryt, il nome della madre di Floriana.
Quando nel 1819 il Bossi lasciava Londra il Poeta gli aveva dato un esemplare dell’Ortis dell’edizione londinese del 1817 con la dedica di suo pugno: “A Giulio Bossi U. Foscolo” 19 novembre 1819. “Sic licet felix ubicunque mavis et memor nostri”. Hor.
Questa copia il Bossi mostrerà più tardi a Lugano a Filippo de Boni che nel 1850 curò l’edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis facendola precedere da un suo discorso[2].
Ritornato a Londra, come si è detto, il Bossi fu di nuovo intimo di Foscolo, del quale divenne copista, segretario (gli riscuoteva anche i modesti crediti); ma soprattutto soccorritore e consolatore durante la sua ultima malattia.
Con lui aveva curato una  Antologia critica di poesie italiane, che subì varie peripezie.
In questo periodo di vita londinese troviamo il Bossi in rapporti direttamente o per il tramite del Poeta con alti nomi della cultura inglese, ad esempio con lo storico Roscoe, e coll’esule emiliano Antonio Panizzi, che diverrà direttore del British Museum.

IN MESSICO.
Intorno agli ultimi suoi rapporti col Foscolo ci limitiamo, poiché il discorso diverrebbe lungo, a far conoscere una sua lettera poco nota diretta all’esule bresciano Camillo Ugoni[3]:
Londra, 11 settembre 1826. “Parto lunedì per il Messico: La mia partenza è segnata da un avvenimento funestassimo al mio cuore e a tutti i buoni italiani e alla gloria letteraria del nostro paese. Ugo Foscolo non è più. Spirò ieri sera alle ore 8 e 30, dopo tre giorni di penosissima agonia: nessuna debolezza cambiò negli ultimi suoi momenti il suo forte sentire e i suoi decisi principi. Gli prodigai tutte le cure dell’amicizia, dolente che le mie circostanze incatenassero la mia volontà. Vi do questa nuova nella lusinga che preveniate ogni altra penna nei cenni biografici di questo nostro grande uomo in fatto di lettere, affinché il pubblico non comincia dall’averne una inesatta relazione”.
Pare che il Bossi non sia intervenuto ai funerali modestissimi del Poeta cui furono presenti quattro o cinque persone. Stava per partire il piroscafo per il Messico e non poté dare all’amico l’ultimo saluto.
E nel Messico rimase dieci anni con altri suoi due fratelli addetto a una miniera: ma non fece fortuna.
Nel 1836 ritornò in Italia, partecipò a Milano alle vicende del 1848 con qualche incarico da parte del Governo.
Al ritorno degli Austriaci fu nella turba dei migliaia di compromessi, di paurosi, di esaltati (che volevano impiccare il “vile Carignano”) i quali cercarono salvezza nel Canton Ticino. Qui fu in relazione con democratici quali Carlo Cattaneo, de Boni ed altri e ritrovò un compagno di infanzia, col quale aveva pranzato insieme al Foscolo in casa Giovio: il poeta bergamasco Ottavio Tasca che nel rifugio svizzero infervorava i fuggiaschi colle sue liriche patriottiche.
Nel 1850 don Giulio Bossi doveva essere ritornato per la terza volta in Inghilterra perché chiedeva al Cattaneo una copia dell’Archivio triennale da offrire all’illustre economista inglese Riccardo Cobden. Rientrò in Italia dopo il 1859 e rappresentò al Parlamento di Torino per la VII legislatura il collegio di Varese e di Cuvio. I suoi concittadini lo preferirono all’Adamoli e a Nino Bixio, che erano raccomandati da Garibaldi. Fu deputato per quella sola legislatura[4].
Il Bossi era ormai sulla settantina. Visse sino al 1880 e morì a Milano dove venne commemorato dal pavese Luigi Beretta, che esaltò le sue virtù e la sua vita dedicata ai supremi ideali della Patria e della cultura. Il Bossi possedeva molte lettere e carte relative ai suoi rapporti col Foscolo: ma parecchi autografi donò agli ammiratori del Poeta, di cui conobbe come pochi suoi contemporanei la grandezza e le miserie.
                                               Rodolfo Rogora

(Estratto da La Prealpina del 27 novembre 1970).

Piazza Carducci - Immutata nella sua pianta nel corso del tempo. A Mezzogiorno sorgeva la chiesa di Sant'Antonino appartenente al convento omonimo voluto da San Carlo, a Settentrione la chiesa dedicata a tutti i Santi, parte del Collegio dei gesuiti che nel Settecento ivi sorgeva. L'edificio on fondo, al centro, fu la casa dei nobili Comolli. Vi ebbe sede, dal 1817, il "Casino", luogo di ritrovo dei maggiorenti del borgo e di patrrioti. Per questo era sorvegliato dalla Polizia austriaca e fu chiuso più volte



Il ritorno degli austriaci riporta tranquillità amministrativa, ma creò una pesante atmosfera politica che sfocerà in sorde ribellioni e nelle Cinque Giornate di Milano. Il 14 giugno 1816, come già dissi, per accontentare i Varesini che volevano un ruolo più elevato per il loro centro, il Borgo viene elevato dall’imperatore Francesco II al rango di città.
Si affacciano alla ribalta politica i Carbonari e poi gli affiliati alla Giovane Italia. Le idee mazziniane fanno presa sul nobile Giulio Bossi, su Cesare Paravicini e su altri il cui nome si perse.
Zona di confine, vide entrare dalla Svizzera manifesti e opuscoli di propaganda. Giunta la notizia dell’insurrezione milanese, i Varesini con alla testa Cesare Paravicini cercarono di far prigioniero il grosso presidio austriaco, ma dovettero accontentarsi di arrestare alcuni reparti in transito. Poi accorsero in difesa di Milano.
Il Borgo, dopo la rioccupazione di Milano da parte degli Austriaci, vide transitare la legione di Garibaldi che si portava in Piemonte e la vide ritornare ribelle dopo il ripudio dell’armistizio di Salasco, proveniente da Luino dove aveva battuto i reparti del maggiore austriaco Mollinary.
Garibaldi si comportò da guerriero: a Varese arresto gli austriacanti più facoltosi e impose loro una taglia. Li rilasciò accontentandosi di una somma offertagli dalla comunità per far fronte alle spese della Legione. Nel Varesotto diede prova, per la prima volta in Italia, del suo intuito, della sua bravura, della sua audacia e del suo coraggio.
Assalito da ben sei Divisioni Austriache al comando del maresciallo D’Aspre che si proponeva di rinserrarlo in una morsa, riuscì a sfuggire coi suoi uomini alla cattura. I Varesini che più si distinsero nelle vicende del 1848-49, oltre al citato Paravicini, furono Emilio ed Enrico Dandolo, Emilio Morosini (Varesino d’elezione) e Francesco Daverio, le cui vicende sono note.
Il periodo che intercorse fra il 1849 e il 1859 fu un periodo di meditazione e di preparazione: dalle idee mazziniane si passò gradatamente alle idee più realistiche di Cavour.
Non pochi esponenti varesini (Domenico Adamoli, Giulio Carcano, Ezechiele Zanzi, il citato Paravicini, ecc.) entrarono in contrasto con uomini politici piemontesi.
Ecco ora il fatidico 1859.
Alla notizia che in Piemonte si erano aperti arruolamenti di volontari, diversi Varesini aiutati da un Comitato clandestino che forniva viveri, vestiti e denari, varcarono confine e raggiunsero Torino. Alcuni si arruolarono nell’esercito piemontese, altri nei cacciatori delle Alpi affidati al generale Garibaldi.
La voce che il Generale con la sua Legione, s’apprestava a raggiungere il Lago Maggiore, giunsero presto a Varese e vi porta grande euforia.
Quando si seppe che arditamente aveva occupato Sesto Calende, Varese insorse.
Alla notizia che Garibaldi, lasciato Sesto, stava per raggiungere la città, molti cittadini, formarono corteo, malgrado un forte acquazzone, illuminando la strada con torce perché era scesa la notte gli mossero incontro. Furono giorni d’intensa gioia; Varese visse la sua più grande pagina storica. Si strinse compatta attorno al Condottiero da essere poi chiamata la città garibaldina.
Il 26 maggio, sul finire del mattino, ecco affacciarsi alle porte della città, proveniente da Como, il Feldmaresciallo austriaco Urban con una divisione di soldati. Vuole battere Garibaldi e punire Varese.
I Cacciatori delle Alpi lo attendono sulla via comasca alle porte di Biumo Inferiore.
Scontro breve: gli Austriaci assaliti violentemente dai Cacciatori delle Alpi s ritirano precipitosamente.
Varese subì il fio del suo entusiasmo quando Urban la rioccupò pochi giorni dopo essendo ritornato sui suoi passi con ben quattro divisioni.
Le fu imposta una taglia di cinque milioni di lire e poiché era nell’impossibilità di poterla pagare per la fuga degli abitanti, subì due bombardamenti che per fortuna fecero più fracasso che danno. Più gravi le conseguenze di un parziale saccheggio compiuto dai soldati. Ancora si vedono sul campanile della città i segni dei colpi sparati dai cannoni posti sulle pendici di Giubiano e di Bosto. La partecipazione alla campagna dell’Italia meridionale, seguita l’anno dopo, fu notevole: cinque Varesini partirono volontari con i Milla, 160 nelle spedizioni successive.
                                                                                                               Leopoldo Giampaolo

(Estratto da: Varese sintesi storica 1977).




[1] Cfr. R. Barbiera, Carlo Porta e la sua Milano, Firenze, 1921.
[2] U. Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, Capolago, Tipografia Elvetica, in -16 di pagg. 260. Cfr. R. Caddeo, le edizioni di Capolago, Milano 1934.
[3] Pubblicata da C. Cantù in: Prallelipomeni di U. Foscolo, in “Archivio storico lombardo”, III, 95.
[4] Cfr. L. Gianpaolo, Le elezioni politiche di Varese fino alla prima guerra mondiale.

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