domenica 29 marzo 2015

LETTERA DI GIOVANNI FINARDI AL CONTE GIACINTO BENAGLIO


Ante 1897 (?)

Ho parlato a lungo in questi giorni col Conte Giacinto Benaglio ripetendogli le penose espressioni riportate dal colloquio avuto con lei sulle presenti angosce economiche e morali e sulla stremata salute in conseguenza di tali angosce della povera Contessa Ines. Giacinto ha ricevuto bene la mia iniziativa, ma mi ha alla sua volta esposte le dolorose circostanze dell'altro lato della delicata situazione facendomi notare i grossi sacrifici che ebbe, e deve tuttavia sopportare in causa del fratello egli solo della famiglia affatto sproporzionati a suoi mezzi  personali sui quali mi fece dichiarazioni confidenziali, concludendo che egli trovasi attualmente in condizioni per le quali egli non potrebbe fare di più.
Pare che il fratello sia ora pressoché interamente a suo carico, stette lungamente alla Benaglia, ove la casa era aperta per lui anche nel tempo in cui Giacinto fissato era colla famiglia in Engadina. Se le sorelle se lo tengono un poco sanno anche sbarazzarsene subito od almeno presto con la comoda dei loro mariti. Ora si trova a Genova, senza occupazione, in apparenza per cercare impiego che non trova mai, dopo essere nel modo che la Contessa ben sa coperto e lasciato con un vuoto di cassa l'impiego di rappresentante la società Fondiaria che gli era stato procurato e che poteva essere per lui una buona e decorosa risorsa. Il conte Giacinto ci pare affatto sfiduciato di vederlo a mettersi a qualsiasi lavoro utile almeno per sé e su questo punto essenziale purtroppo non valgono le illusioni per ora certamente.
non che pensare alla moglie da lui spogliata senza vergogna neppure è disposto di pensare per sé.
In questo doloroso stato di cose Giacinto mi ha lasciato intendere ch'egli credeva che come il pensiero ed il carico del Conte Luigi rimangono a lui la Contessa Ines rimanesse appoggiata alla sua famiglia, ossia al fratello ch'egli riteneva l'avesse di fatto con sé e colla madre naturalmente quando non fosse col fratello e così potesse essere in seguito.
Ho creduto di fare esposizione al Conte Giacinto dell'isolamento in cui sembrava si tenesse da lei e dalla stessa Contessa Ines e in generale dalla parentela materna, isolamento che togliendo occasione alle franche spiegazioni cercava facilmente l'impressione di tensione di rapporti fra le due famiglie che pure devono avere certamente il comune intento di provvedere nel miglior modo possibile alle necessità create dagli errori e dalla colpevole sventatezza del Conte Luigi.
Io l'ho portato a rimettersi in opportuna a riformare i rapporti che mi sembravano doverosi da buon nipote quale egli si conserva e a rimettersi in opportuna e rispettosa comunicazione con lei ed egli ma ha promesso di farlo di buon grado.
Cioè ha promesso di scrivere quanto prima. ed occorrendo, quando le sia accetta la visita di venire da lei appunto per quelle spiegazioni più intime e confidenziali che io credo siano non solo convenienti ed opportune ma necessarie.
Io sono del resto sempre a sua disposizione, non oso aggiungerle e non mancherò di venire a visitarla quando posso essere certo di non creare disturbo non oso aggiungere di poter esserle utile.
Ho chiesto conto a Giacinto del concordati dei creditori, pel quale la Contessa Ines ha rilasciato la dichiarazione allo scopo di impedire la dichiarazione del fallimento formale.
Mi ha risposto che il concordato: effetto venale e faticosamente concluso ha dato ai creditori il 3 per cento! Veda Contessa a qual punto fossero giunte le cose e qual minimo profitto avrebbe potuto ritrovare la moglie pur conservando e facendo valere le sue ragioni creditrici. Anche qui ha mobili, se ci sono ancora, sono sotto sequestro giudiziario per denari ritirati dal Conte Luigi.
Devotissimo
                     Giovanni Finardi

Era sempre rimasto solo, così, da tanti anni, dopo il giovanile dolore, cagionategli dal tradimento d'una giovane che gli era fidanzata e che l'aveva lasciato per un altro più ricco di lui. Spaurito da quella prova non aveva più pensato al matrimonio e per un breve spazio d'anni aveva avuto per sola reazione il capo alle frascherie. Non vi trovò l'oblio, ma una forza di sprezzo della donna in genere che determinò in lui il potere arcano dell'indifferenza. Si fermò a tempo e alla scienza che gli dava il pane dedicò se stesso con una salda passione abbastanza forte per eliminare attorno a lui le non nobili influenze alle quali avrebbe soggiaciuto forse in altre circostanze. Proseguiva a studiare, esperimentava principi luminosi di medicina. A un raro buon senso pratico sulla sua crassa clientela e una specie di bonarietà segreta di vero umanitarismo, una compassione traspariva a volte attraverso forma sicura autoritaria e di onde ha tanto d'uopo il medico condotto per costringere il contadino ad adottare realmente il consiglio chiesto. Era buono ai bimbi soprattutto e solerte presso tutti i suoi malati che curava assiduamente considerandoli nei loro mali, come prove ed esperienza largite alla sua profondità d'indagini scientifiche. Egli aveva una immensa ed ingenua curiosità dell'animo, che non sapeva come estrinsecare. Con una sicurezza di non poter contare nell'intesa e nella gratitudine dei suoi rustici clienti, aveva la vocazione di generarle come un abile meccanico ama a riattivare i congegni d'una pendola rotta, che gli capita a caso tra i piedi.
Nelle epidemie, ed esse parevano essersi data l'intesa di non toccarlo, si distingueva per uno zelo veramente meraviglioso.
Aveva lottato in gioventù contro una inclinazione al vino che gli dava una ebbrezza leggera, poi se n'era guarito volontariamente, come s'era guarito dei facili amori, non perché temesse che nuocesse a lui al suo ferreo temperamento, ma sebbene per una gelosa religione delle attitudini alla medicina, un pudore di perderle, o di prostituirle ciecamente, di incontrare un caso, un momento in cui al letto dell'ammalato, egli non fosse sicuro, padrone di se stesso, come della persona che gli era affidata dal male.

Era caritatevole, con delle brusche e rosse parole di scetticismo, porgeva ai suoi ammalati buona parte delle medicine che ordinava lui, mentre sbraitava contro il costume e la continua richiesta della famosa lattata che i contadini adorano hanno per panacea d'ogni male. ed è sempre la preferita dei rimedi. Faceva il dover suo esattamente, senz'arte alcuna di accaparrarsi il plauso e l'attenzione e il paese s'era abituato a lui e gli pareva roba sua quell'uomo semplice e ardito, agiva e non discuteva, e aveva la lingua pronta a una certa forma vibrata, fosse uno dei terrazzani. Eran tanti anni ch'era lì. Era venuto per aver vinto il concorso e la gente rideva, pensava poco bene di quel medichino ventitreenne, magro, esile, pallido. 

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