BARBARA TIBILETTI MUORE CADENDO DALLA CASCINA
Barbara Tibiletti figlia di Andrea di Vegonno e moglie di Battista Sommaruga di Erbamolle è morta per disgrazia cadendo da una cascina senza avere avuto i santi sacramenti, come annota il parroco di Azzate Carlo Fumagalli sul registro dei defunti il 23 giugno 1670.
giovedì 29 maggio 2014
MELCHIORRE
SANGIOVANNI ANNEGATO NEL LAGO
Melchiorre Sangiovanni figlio di Antonio è una nostra
conoscenza poiché il 22 settembre 1657 in occasione del giuramento di fedeltà
al feudatario di Azzate Giacomo Maria Alfieri non aveva potuto esternare la sua
promessa poiché era lontano a fare la guerra.
Tornò alla ribalta delle cronache azzatesi il 25 settembre
1668 quando per disgrazia annegò nel lago e, come annota il parroco di Azzate
Carlo Fumagalli nel registro dei defunti, fu sepolto senza aver ricevuto i
santi sacramenti.
mercoledì 28 maggio 2014
FRANCESCA BALLABENE MORTA PER MEZZO DI UN LUPO
Scorrendo il registro dei defunti della Parrocchia di Azzate
siamo incorsi in questa notizia che ci sembra abbastanza curiosa. Il parroco di
Azzate sotto la data del 13 agosto 1655 annota la morte avvenuta per mezzo di
un lupo di Francesca, vedova di Andrea Ballabene di Vegonno che era deceduto
l’8 gennaio dell’anno prima.
La vedova rimasta probabilmente sola (non ci risulta che la
coppia abbia avuto figli) si era avventurata nel bosco per raccogliere qualcosa
di sua utilità ed era incappata in un affamato lupo che le si era avventato
addosso con tutta la sua ferocia, riducendola in fin di vita.
A volte le storie di lupi che attaccano l’uomo sembrano
scaturire più dalla fantasia dei grandi per incutere timore nei giovani, ma
questo è un caso vero e documentato ed è abbastanza verosimile se si pensa che
la poveraccia abitava a Vegonno e dunque in una zona in cui i boschi erano
molto estesi.
lunedì 26 maggio 2014
COLLI CARLO - PRETE
Don Carlo Colli fu un patriota di spicco durante le Guerre di Indipendenza, ed è un vanto per noi che egli sia stato Cappellano di Sant'Eugenio in Tornavento dal 1864 al 1882. "Patriota e scrittore" lo chiama anche il compianto Gian Domenico Oltrona Visconti, che lo ricorda nella sua Storia di Lonate del 1969, riassumendo notizie raccolte da Leopoldo Giampaolo e Mario Bertolone. Qui riprendo l'argomento avvalendomi anche di altre fonti, in particolare di alcune precisazioni recenti di Alberto Ambrosoli e Diego Dalla Gasperina.
Carlo Teodoro nato ad Azzate il 26 febbraio 1823 da Pasquale Colli e Marianna Limido, sposati ad Azzate il 4 aprile 1815, ordinato sacerdote nel 1846, don Carlo Colli ebbe come primo incarico quello di coadiuvare il parroco di Schianno, paesetto vicino a Morazzone, cittadina che due anni dopo fu teatro del noto combattimento tra Garibaldi e gli austriaci: nell'agosto del 1848 Garibaldi, che anche dopo l'armistizio Salasco combatteva con la sua legione di volontari lombardi, penetrò da Luino nel Varesotto e, tormentando il nemico in punti diversi del territorio con la tecnica sfibrante e disorientante della guerriglia con spostamenti continui, si fermò il giorno 26 nel paese di Morazzone, collocato su un'altura che presumibilmente riteneva più facilmente difendibile. Di sorpresa, all'ora di cena, il generale austriaco Simboschen attaccò il paese. Appena avvertito, Garibaldi ordinò una reazione furiosa dei suoi, che, sparando dagli androni, dalle finestre, dai tetti delle case, riuscirono a scacciare dal villaggio gli austriaci. Questi dall'esterno spararono cannonate sull'abitato, incendiando alcune case. Ad essi presto si unirono, richiamati dagli spari, altri reparti austriaci che erano dislocati nel circondario. Rinviarono il combattimento al mattino seguente. Nella notte i garibaldini ebbero il modo di disperdersi, sfuggendo in silenzio all'accerchiamento, guidati dal parroco di Morazzone, don Bernardino Sala, che essi pensarono bene di portare con sé perché li conducesse in salvo per sentieri che lui doveva conoscere bene. I garibaldini lo rilasceranno a Capolago, sul confine della Svizzera, ormai lontani dalla portata dei fucili austriaci.
Che cosa fece in quell'occasione don Colli, che risiedeva non a Morazzone ma, come già detto, nel vicino paese di Schianno? "Giovane vigoroso, prete di caldi sensi patriottici", sono parole dello storico varesino Bertolone, "accorse sul luogo della battaglia a rincuorare gli spaventati terrazzani, a dare opera di soccorso ai feriti, ai morenti." Poi, undici anni dopo, mise per iscritto i ricordi del '48, che dapprima tenne presso di sé e poi affidò al museo patrio di Varese. Ecco così giustificati gli attributi di patriota e di scrittore.
Don Colli lasciò Schianno nel 1864 e venne a Tornavento, perché gli era stata affidata la chiesa di Sant'Eugenio, che allora, come sappiamo, dipendeva dalla parrocchiale di Lonate Pozzolo. A Tornavento gli spettava il titolo di cappellano o, più propriamente, quello di vicecurato, titolo in vigore dall'anno 1797.
Tornavento, con i cascinali annessi, allora contava 250 abitanti (e Lonate 2550) contro i 550 di Schianno. Era ancora comune autonomo ed aveva per sindaco Ippolito Parravicino; ma pochi anni dopo, nel 1869, così come Sant'Antonino, sarà aggregato a Lonate come frazione. La chiesa di Sant'Eugenio era stata ricostruita intorno al 1845, fornita di sagrestia, di due altari laterali, del campanile.
Negli anni 1870-76, quando era presente e attivo il Colli, Tornavento ebbe il cimitero fuori dell'abitato e il battistero in chiesa. Prima i suoi morti venivano sepolti a Lonate, i suoi neonati venivano battezzati a Lonate. Nulla sappiamo della probabile collaborazione di don Colli con il suddetto Ippolito Parravicino, il quale, grande proprietario terriero e intelligente imprenditore, ha fatto molto per la frazione, essendo sindaco di Lonate dal 1875 al 1877, indi membro del consiglio provinciale di Milano, impegnato negli anni seguenti per la elevazione di Sant'Eugenio a chiesa parrocchiale autonoma (traguardo che sarà raggiunto soltanto nel 1902).
Don Colli rimase a Tornavento fino al 1882. Trasferito alla chiesa-santuario delta Madonna in Campagna a Gallarate, vi rimase fino al 1897: vi promosse importanti restauri, fabbricò la casa per il sagrestano, raccolse in un breve manoscritto le vicende storiche delta chiesa.
Celebrando nel 1896 il suo 50° di Messa, donò alla chiesa, che ancora lo conserva in sagrestia, uno splendido triangolo di seta per le esposizioni eucaristiche, triangolo ricamato in oro e argento, con al centro un "occhio" circondato da una corona di nubi chiare, con motivi geometrici e spirali tutt'intorno, con spighe di frumento e grappoli d'uva in ciascuno degli angoli.
Don Colli morì ottantenne a Milano nell'anno 1903 e, per suo volere, venne sepolto nel cimitero di Tornavento, in mezzo al suo "gregge" che più aveva amato, come scrisse Andrea Mastalli, suo biografo e successore nella chiesa alla periferia di Gallarate. I suoi resti mortali riposano oggi in uno dei loculi per il clero costruiti cinquant'anni fa in fondo al cimitero, a sinistra della cappella Parravicino; il loculo, munito di nome e di ritratto, è visibile nella foto qui sotto.
(Estratto da “La nona campana” Aprile 2010).
Don Carlo Colli fu un patriota di spicco durante le Guerre di Indipendenza, ed è un vanto per noi che egli sia stato Cappellano di Sant'Eugenio in Tornavento dal 1864 al 1882. "Patriota e scrittore" lo chiama anche il compianto Gian Domenico Oltrona Visconti, che lo ricorda nella sua Storia di Lonate del 1969, riassumendo notizie raccolte da Leopoldo Giampaolo e Mario Bertolone. Qui riprendo l'argomento avvalendomi anche di altre fonti, in particolare di alcune precisazioni recenti di Alberto Ambrosoli e Diego Dalla Gasperina.
Carlo Teodoro nato ad Azzate il 26 febbraio 1823 da Pasquale Colli e Marianna Limido, sposati ad Azzate il 4 aprile 1815, ordinato sacerdote nel 1846, don Carlo Colli ebbe come primo incarico quello di coadiuvare il parroco di Schianno, paesetto vicino a Morazzone, cittadina che due anni dopo fu teatro del noto combattimento tra Garibaldi e gli austriaci: nell'agosto del 1848 Garibaldi, che anche dopo l'armistizio Salasco combatteva con la sua legione di volontari lombardi, penetrò da Luino nel Varesotto e, tormentando il nemico in punti diversi del territorio con la tecnica sfibrante e disorientante della guerriglia con spostamenti continui, si fermò il giorno 26 nel paese di Morazzone, collocato su un'altura che presumibilmente riteneva più facilmente difendibile. Di sorpresa, all'ora di cena, il generale austriaco Simboschen attaccò il paese. Appena avvertito, Garibaldi ordinò una reazione furiosa dei suoi, che, sparando dagli androni, dalle finestre, dai tetti delle case, riuscirono a scacciare dal villaggio gli austriaci. Questi dall'esterno spararono cannonate sull'abitato, incendiando alcune case. Ad essi presto si unirono, richiamati dagli spari, altri reparti austriaci che erano dislocati nel circondario. Rinviarono il combattimento al mattino seguente. Nella notte i garibaldini ebbero il modo di disperdersi, sfuggendo in silenzio all'accerchiamento, guidati dal parroco di Morazzone, don Bernardino Sala, che essi pensarono bene di portare con sé perché li conducesse in salvo per sentieri che lui doveva conoscere bene. I garibaldini lo rilasceranno a Capolago, sul confine della Svizzera, ormai lontani dalla portata dei fucili austriaci.
Che cosa fece in quell'occasione don Colli, che risiedeva non a Morazzone ma, come già detto, nel vicino paese di Schianno? "Giovane vigoroso, prete di caldi sensi patriottici", sono parole dello storico varesino Bertolone, "accorse sul luogo della battaglia a rincuorare gli spaventati terrazzani, a dare opera di soccorso ai feriti, ai morenti." Poi, undici anni dopo, mise per iscritto i ricordi del '48, che dapprima tenne presso di sé e poi affidò al museo patrio di Varese. Ecco così giustificati gli attributi di patriota e di scrittore.
Don Colli lasciò Schianno nel 1864 e venne a Tornavento, perché gli era stata affidata la chiesa di Sant'Eugenio, che allora, come sappiamo, dipendeva dalla parrocchiale di Lonate Pozzolo. A Tornavento gli spettava il titolo di cappellano o, più propriamente, quello di vicecurato, titolo in vigore dall'anno 1797.
Tornavento, con i cascinali annessi, allora contava 250 abitanti (e Lonate 2550) contro i 550 di Schianno. Era ancora comune autonomo ed aveva per sindaco Ippolito Parravicino; ma pochi anni dopo, nel 1869, così come Sant'Antonino, sarà aggregato a Lonate come frazione. La chiesa di Sant'Eugenio era stata ricostruita intorno al 1845, fornita di sagrestia, di due altari laterali, del campanile.
Negli anni 1870-76, quando era presente e attivo il Colli, Tornavento ebbe il cimitero fuori dell'abitato e il battistero in chiesa. Prima i suoi morti venivano sepolti a Lonate, i suoi neonati venivano battezzati a Lonate. Nulla sappiamo della probabile collaborazione di don Colli con il suddetto Ippolito Parravicino, il quale, grande proprietario terriero e intelligente imprenditore, ha fatto molto per la frazione, essendo sindaco di Lonate dal 1875 al 1877, indi membro del consiglio provinciale di Milano, impegnato negli anni seguenti per la elevazione di Sant'Eugenio a chiesa parrocchiale autonoma (traguardo che sarà raggiunto soltanto nel 1902).
Don Colli rimase a Tornavento fino al 1882. Trasferito alla chiesa-santuario delta Madonna in Campagna a Gallarate, vi rimase fino al 1897: vi promosse importanti restauri, fabbricò la casa per il sagrestano, raccolse in un breve manoscritto le vicende storiche delta chiesa.
Celebrando nel 1896 il suo 50° di Messa, donò alla chiesa, che ancora lo conserva in sagrestia, uno splendido triangolo di seta per le esposizioni eucaristiche, triangolo ricamato in oro e argento, con al centro un "occhio" circondato da una corona di nubi chiare, con motivi geometrici e spirali tutt'intorno, con spighe di frumento e grappoli d'uva in ciascuno degli angoli.
Don Colli morì ottantenne a Milano nell'anno 1903 e, per suo volere, venne sepolto nel cimitero di Tornavento, in mezzo al suo "gregge" che più aveva amato, come scrisse Andrea Mastalli, suo biografo e successore nella chiesa alla periferia di Gallarate. I suoi resti mortali riposano oggi in uno dei loculi per il clero costruiti cinquant'anni fa in fondo al cimitero, a sinistra della cappella Parravicino; il loculo, munito di nome e di ritratto, è visibile nella foto qui sotto.
Sac. Carlo Colli
Originario di Azzate, dove nacque il 13.2.1823, dopo aver
frequentato le scuole elementari a Varese, il Colli entrò in seminario e fu
ordinato sacerdote nel 1846. Fu quindi inviato dalla Curia milanese a Schianno,
per aiutare nella cura d'anime il vecchio parroco del paese, don Melchiorre
Rossi, caduto malato.
Da questo osservatorio il Colli fu testimone oculare e
partecipe al famoso combattimento che Garibaldi ingaggiò contro il tenente
maresciallo D'Aspre. Animato "da caldi sensi patriottici", come
scrisse del giovane prete Luigi Bossi, nella presentazione del manoscritto, nel
momento più accanito del combattimento, rincuorò gli spaventati terrazzani
fuggitivi, portò il suo soccorso ai feriti e ai morenti.
Il racconto della battaglia e delle vicende collaterali è
stato minuziosamente descritto dal sac. Carlo Colli in un manoscritto di poche
pagine, conservato presso l'Archivio di Stato di Varese nel Fondo Museo[1].
(EGIDIO GIANAZZA, Profilo storico di Gazzada Schianno,
Comune di Gazzada Schianno, 1993, pag. 430).
[1] Diego Dalla Gasperina, che
l’ha visionato, mi informa che attualmente è presso l’Archivio Storico del
Comune di Varese (dott. Piero Mondini).
sabato 24 maggio 2014
BOSSI ANTONIO NOTAIO
Nob. Pietro Bossi f. conte D. Francesco f. conte D. Claudio
Luigi e D. Maria
Teresa dei conti Locatelli.
Teresa dei conti Locatelli.
n. Como 13.12.1791
Sp. Giuditta Colombo.
|
|
|--- nob. cav.
dott. Antonio Bossi
Notaio in
Varese e cittadino benemerito. (1855)[1].
Sp. Cherubina
Sacconaghi
n. 1838 +
1913
Rimasta vedova, ad onorare la memoria del
perduto consorte, che fu anche
presidente della Congregazione di Carità, donava alla stessa lire 5.000 perché
le rendite venissero erogate a scopo di beneficenza e particolarmente per i
bisogni dell’Ospedale.
presidente della Congregazione di Carità, donava alla stessa lire 5.000 perché
le rendite venissero erogate a scopo di beneficenza e particolarmente per i
bisogni dell’Ospedale.
Offriva poi
anche il ritratto del compianto marito, opera del pittore Giuseppe
Colombo, esprimendo il desiderio che venisse sempre compreso nell’annuale
esposizione dei quadri dei benefattori del Nosocomio[2].
Colombo, esprimendo il desiderio che venisse sempre compreso nell’annuale
esposizione dei quadri dei benefattori del Nosocomio[2].
|
|
|---
Giuditta Bossi +
n.
1870 + 1875
Il notaio
Antonio Bossi, accomodato nel suo elegante studio, si distingue per i lunghi
baffi che nella foggia richiamano l'usanza austriaca.
Il pittore, all'esigenza di esprimere fedelmente l'identità fisionomica del personaggio, coniuga una raffigurazione molto zelante del fondo, descritto con tonalità opache e immerse nella penombra.
Caratterizzato da un tono estremamente controllato, riscontrabile soprattutto nella definizione dei riferimenti ambientali, l'inedito dipinto costituisce uno degli esempi più significativi per indagare la poco nota figura del pittore Giuseppe Colombo per il quale il Borri si premura di tramandarci soltanto la provenienza "da Canzo".
Eseguito a ridosso della morte del nobile notaio Antonio Bossi, il dipinto in esame richiama da vicino, sia per le dimensioni che per l'impostazione iconografica e la qualità esecutiva, il ritratto di Carlo Filippetti firmato dal Colombo sempre per il nosocomio cittadino, a pochi anni di distanza. Come per quest'ultimo, così anche per il ritratto del notaio Bossi è riscontrabile lo scarto formale e compositivo rispetto all'effige commemorativa in onore del Cavaliere Baratelli, pure firmata dal Colombo per l'Ospedale di Varese. Mentre in quest'ultima opera, più matura e di ridotto formato, il sapiente chiaroscuro modella i volumi invece che delinearli, nell'opera presa in considerazione in queste righe, invece, tornano la precisione descrittiva degli oggetti d'interno e l'interpretazione calligrafica dei tratti del volto del benefattore.
Il Bagaini ricorda che nel 1887 Cherubina Sacconaghi, varesina e moglie del dottor Antonio Bossi di Azzate, rimasta vedova, donò cinquemila lire alla Congregazione di Carità di cui il consorte fu eletto presidente nel 1861.
La vedova esprimeva, inoltre, il desiderio che il ritratto donato del defunto marito - che dunque pervenne nella quadreria dell'Ospedale nel 1887 - fosse sempre compreso nell'annuale esposizione dei quadri dei benefattori del nosocomio.
Presso il cimitero di Giubiano, infine, è custodito un ritratto del Bossi scolpito da Donato Barcaglia che riproduce le similari fattezze del nobile notaio.
Il pittore, all'esigenza di esprimere fedelmente l'identità fisionomica del personaggio, coniuga una raffigurazione molto zelante del fondo, descritto con tonalità opache e immerse nella penombra.
Caratterizzato da un tono estremamente controllato, riscontrabile soprattutto nella definizione dei riferimenti ambientali, l'inedito dipinto costituisce uno degli esempi più significativi per indagare la poco nota figura del pittore Giuseppe Colombo per il quale il Borri si premura di tramandarci soltanto la provenienza "da Canzo".
Eseguito a ridosso della morte del nobile notaio Antonio Bossi, il dipinto in esame richiama da vicino, sia per le dimensioni che per l'impostazione iconografica e la qualità esecutiva, il ritratto di Carlo Filippetti firmato dal Colombo sempre per il nosocomio cittadino, a pochi anni di distanza. Come per quest'ultimo, così anche per il ritratto del notaio Bossi è riscontrabile lo scarto formale e compositivo rispetto all'effige commemorativa in onore del Cavaliere Baratelli, pure firmata dal Colombo per l'Ospedale di Varese. Mentre in quest'ultima opera, più matura e di ridotto formato, il sapiente chiaroscuro modella i volumi invece che delinearli, nell'opera presa in considerazione in queste righe, invece, tornano la precisione descrittiva degli oggetti d'interno e l'interpretazione calligrafica dei tratti del volto del benefattore.
Il Bagaini ricorda che nel 1887 Cherubina Sacconaghi, varesina e moglie del dottor Antonio Bossi di Azzate, rimasta vedova, donò cinquemila lire alla Congregazione di Carità di cui il consorte fu eletto presidente nel 1861.
La vedova esprimeva, inoltre, il desiderio che il ritratto donato del defunto marito - che dunque pervenne nella quadreria dell'Ospedale nel 1887 - fosse sempre compreso nell'annuale esposizione dei quadri dei benefattori del nosocomio.
Presso il cimitero di Giubiano, infine, è custodito un ritratto del Bossi scolpito da Donato Barcaglia che riproduce le similari fattezze del nobile notaio.
Ritratto del nob. cav. dott. Antonio Bossi
eseguito nel 1886 dal pittore Giuseppe Colombo.
SANTA EUROSIA
Onorata come protettrice dei frutti della terra e invocata
contro le tempeste e i tuoni, Eurosia di Jaca (Spagna) fu, secondo la
tradizione, protagonista di una vicenda oscura che si concluse nell'anno 714
con la sua uccisione in una caverna nella regione dei Pirenei, poco lontano da
Bayonne. Le più antiche testimonianze del suo culto non risalgono comunque a
prima del XVI secolo; dalla Spagna la devozione fu portata in Italia
soprattutto dai soldati e conobbe una notevole diffusione nello Stato di
Milano, dominato dagli spagnoli. Fra XVII e inizi del XVIII secolo nelle
diocesi di Milano, Como, Cremona, Pavia e Novara le vennero intitolati molti
altari e oratori, si diffuse il culto per le sue reliquie e le furono dedicate
molte opere d'arte, soprattutto dipinti illustranti appunto il martirio.
(Qualche notizia sulla figura e sul culto di Sant'Eurosia si ricava da F.
CARAFFA, Eurosia di Jaca, in Bibliotheca Sanctorum, V, Roma 1964, col.
240-241).
Azzate - Oratorio di San Rocco - Santa Eurosia.
venerdì 28 febbraio 2014
Lucia di Azzate - la strega impiccata nel 1588
Nel mese di febbraio 2014 si è costituito su Facebook un
gruppo denominato “Sei di Azzate se ….” che ha dato modo agli iscritti di
scambiare le loro opinioni sui fatti e sui personaggi del loro paese.
Ad un certo punto l’argomento è caduto sulla cosiddetta
strega Lucia di Azzate che nel 1588 fu impiccata a Varese e questo avvenimento
fu commentato secondo le conoscenze che ognuno possedeva. La povera disgraziata
venne accostata in un primo momento al personaggio romanzesco di Baitella e
soltanto dopo diverse interpretazioni
passate in rete si giunse finalmente ad individuare il personaggio che
venne effettivamente trattato nella Cronaca di Varese, un antico manoscritto
riproposto da Gio. Antonio Adamollo e aggiornato nel 1747 da Luigi Grossi.
Per una corretta interpretazione del personaggio abbiamo
dovuto attingere dagli scritti di diversi autori che presentiamo integralmente
qui di seguito e chiudiamo l’argomento con una accorata lettera scritta dalla
stessa Lucia che esce dalla fantasiosa penna di Andrea Della Bella.
APPUNTI SULLA PENA
CAPITALE A VARESE FRA CINQUE E SEICENTO
Uno spaccato di
storia criminale e giudiziaria in piena dominazione spagnola da cui affiora la
disparità che, anche nell’amministrazione della giustizia, caratterizzava il
rapporto tra centro e periferia del Ducato, e attraverso il quale scopriamo,
per una serie di reati ritenuti gravi, forme di supplizio incredibilmente
crudeli, in cui l’esemplarità della pena avrebbe dovuto agire da deterrente.
di
Giuseppe Vottari
In un torno d’anni violento e inquieto per l’ordine pubblico
quale certamente fu il passaggio fra XVI e XVII secolo, e non solo per l’area
lombarda ma più in generale per tutta quella mediterranea, il ricorso alla
morte come pena ebbe “larga applicazione repressiva e generalizzata”. Come è
stato acutamente evidenziato: “All’ondata di dilagante criminalità che, con
ferimenti, omicidi, assalti, minacce, litigi, conflittualità permanenti
pressoché quotidiane mise a dura prova le autorità – specialmente a cavallo fra
‘500 e ‘600 – si rispose rimuovendo totalmente le cause sociali di tale
situazione,con un aggravamento generalizzato delle pene, nell’intento di
incutere timore, per prevenire i crimini”. La logica che sottendeva a questa
politica, comune nelle società europee d’antico regime, era basata sul
“principio dell’esemplarità della pena come deterrente”. Esistono buoni studi
sull’applicazione delle pena di morte a Milano in età spagnola e tra i più
significativi si segnala quello di Giovanni Liva da cui abbiamo tratto le
precedenti citazioni.
Intendiamo qui abbozzare un tentativo di confronto sul
ricorso alla pena di morte fra la realtà milanese e quella varesina nel periodo
1571-1630, fra centro e periferia del dominio spagnolo strategicamente più
importante in Italia, alla ricerca di eventuali peculiarità degne di nota
nell’amministrazione delle giustizia del borgo prealpino.
E vale la pena di segnalare subito che Varese era uno dei
tanti luoghi periferici o di frontiera dello stato di Milano in cui l’esercizio
della giustizia, nei decenni considerati, era tutt’altro che agevole o privo di
rischi. A questo riguardo, in una supplica del 1574 scritta dai varesini a
Milano, si può leggere: “l’ufficio della Podesteria del borgo di Varese, et sua
giurisdizione, è di tanta importanza che in nessun ufficio del Stato,
riservando la città, si agitano tante cause criminali et anco civili” e per
questo si raccomandava che l’ufficio fosse affidato a un dottore (podestà)
“sufficientemente versato et pratico” piuttosto che a un “dottore giovine et
novizio, et che habbi esercito officio”. La metafora che accompagna e illustra
la richiesta varesina merita di essere ripresa per intero: “ Li ucelli quando
incominciano a volare debbono fare i suoi voli corti, et poi di mano in mano,
con la pratica et esercitatatione dilungarsi”.
Non sappiamo se la supplica del 1574 ottenne qualche
risultato, quel che sappiamo per certo è che anche nei decenni successivi l’ufficio
podestarile di Varese dovette far fronte a centinaia di cause criminali, alcune
delle quali lo riguardarono molto da vicino. Nel 1628, per esempio, il podestà
del borgo, l’autorità locale che amministrava la giustizia ed era in continuo
contatto con gli uffici giudiziari e criminali di Milano, fu bersagliato di un
assalto a colpi d’archibugio nella pubblica via e uno degli ufficiali che lo
scortavano ne rimase ferito: Solo uno dei quattro assalitori armati fu
catturato, gli altri riuscirono a scappare. Ecco spiegato perché si richiedeva
a Milano podestà esperti, pratici e di polso fermo!
In età moderna sia i reati contro le persone che quelli
contro la proprietà o lo Stato (e in quest’ultima categoria rientravano quelli
contro la religione) se giudicati ‘gravi’ potevano portare a una sentenza di
condanna alla pena capitale.
Per i reati meno gravi invece erano previste pene che
spaziavano dalla multa pecuniaria alla punizione corporale – che in guerra era
eseguita pubblicamente e consisteva nella somministrazione di 'tratti di corda' (riservati anche agli insolenti alle multe) – dalla ‘galera’ sulle navi come
ciurma o rematori al bando dallo Stato, per finire con la confisca, temporanea
o definitiva, dei beni mobili e immobili del condannato.
Il carcere non era un luogo di detenzione in cui scontare
una condanna, le prigioni in genere ospitavano criminali colti sul fatto o
sospetti in attesa di sentenza, oppure soldati nemici da riscattare o scambiare
con altri prigionieri di guerra. E non sempre erano fortilizi di massima
sicurezza: nel settembre 1575 dal carcere di Varese evasero sei detenuti in una
sola volta mentre nel novembre 1625 ne scapparono tre.
A fronte di un numero di condanne a morte, l’istituto della
grazia era applicato abbastanza largamente tramite gride di impunità,
remissioni o liberazioni anche per i reati più gravi, e di esso beneficiavano
in special modo gli abbienti e i nobili. A Varese, per esempio, lettere di
grazia ratificata dal Senato milanese ‘liberarono’ condannati a morte per
omicidio nel 1574, 1579, 1591 e 1629. Va segnalato che il periodo intercorso
fra la condanna a morte e la grazia che l’annullava spaziava, nei quattro casi
considerati, da un minimo di due a un massimi di tredici anni. Ma è bene non
dimenticare che se i tempi per ottenere la grazia potevano rivelarsi
estremamente lunghi, quelli della giustizia ordinaria, nel caso non si avessero
la possibilità o i mezzi per affidarsi a un legale e opporsi alla sentenza
capitale, rischiavano invece di essere spietatamente rapidi. Così “Cristoforo
Ponticello cognominato il Maghella”, ladro e bandito, condannato a morte
insieme a tre suoi complici dal podestà di Varese l’8 agosto 1592, il 24 dello
stesso mese fu con loro”appiccato” sulla pubblica piazza del borgo.
Per quanto ora accennato, occupandoci della pena capitale
non faremo riferimento alle condanne inflitte dalle corti giudiziarie, condanne
che in gran parte erano in contumacia (delle 19 condanne a morte emesse dal
podestà di Varese nel 1628, 18 erano tali), quanto alle sentenze effettivamente
eseguite. E’ inoltre opportuno segnalare che non esistono serie di dati
complete e inoppugnabili in proposito e anche quelli da noi proposti mirano
solo a consentire un confronto omogeneo fra le due realtà prescelte.
A questo punto qualche numero è indispensabile per avviare
il discorso. Per Milano, fra il 1571 e il 1630, Liva ha trovato tracce
documentarie di 826 sentenze di morte effettivamente eseguite. A Varese, nello
stesso periodo, seconda la Cronaca di
Varese di Adamollo e Grossi, ne furono portate a termine 32.
Nel sessantennio preso in esame Milano contava una
popolazione stimabile in 100.000 abitanti mentre quella di Varese e delle sue
castellanze si attestava intorno alle 5000 unità. A fronte di una popolazione
venti volte maggiore di quella del borgo prealpino, la capitale dello Stato di
Milano fu teatro, a cavallo fra XVI e XVII secolo, di un numero di esecuzioni
capitali ventisei volte superiore. La media milanese si attestava intorno alle
quattordici esecuzioni l’anno, quella varesina era prossima a una ogni due
anni. Dal punto di vista meramente quantitativo quindi, il dato varesino non
pare essere particolarmente significativo rispetto a quello milanese. Restano
però da verificare le motivazioni delle condanne capitali per operare un
confronto casistica fra i reati puniti con la morte al centro e alla periferia
dello Stato di Milano.
Accanto all’omicidio, i delitti ricorrenti nelle motivazioni
delle sentenze di morte milanesi del periodo considerato erano: furto, falsificazione
e spendita di monete false, ‘sfroso’ di generi alimentari o manufatti,
prevaricazione ai danni di comunità, eresia, stregoneria, maleficio,
infanticidio, bigamia, sodomia, incesto, esercizio del sacerdozio senza essere
prete, ribellione e assassinio di strada. Le coeve sentenze varesine ricalcano
su scala minore quelle milanesi, ma allo stesso tempo pongono in evidenza, per
l’incidenza sul totale delle condanne a morte, un particolare reato sugli
altri, quello dell’assassinio di strada. Nel borgo prealpino infatti delle 32
sentenze di morte eseguite nel frangente 1571-1630, a fronte di 4 per omicidio
e di 6 per furto, ben 16 riguardano aggressori e/o assassini di strada.
Secondo Liva l’assassinio di strada era “il reato di coloro
che – prevalentemente in bande armate – praticavano assalti e rapine ai danni
di mercanti o viaggiatori, che percorrevano le principali vie di comunicazione.
Fenomeno criminale di origine prettamente rurale, questo delitto era allora
ritenuto fra i più gravi, ed era punito con notevole severità, ma non come
reato associativo – banda armata -, configurazione quest’ultima che nelle
società di antico regime non venne mai prefigurata”. Per intendere in cosa
consistesse la ‘severità’ cui accenna Liva, conviene rifarsi alle parole di un
altro storico, Mario Bendiscioli, circa modalità e finalità della morte come
pena, evento che come noto, durante tutta l’età moderna, fu uno degli
‘spettacoli’ pubblici a più alto richiamo di folla. Scrive Bendiscioli: “Anche
le esecuzioni capitali erano accompagnate da crudezze, per così dire accessorie:
la forma più mite, riservata ai nobili, era la decapitazione sul pubblico
palco; quella più spietata era l’abbruciamento dal vivo del condannato, pena
solita di eretici, sodomiti, falsari, previe mutilazioni, e lo squartamento
mediante cavalli, coll’issamento macabro dei ‘quarti’ di membra nei luoghi dove
i malandrini di strada, ai quali questa pena era riservata, avevano compiuto le
loro gesta. Evidente, nella qualità e misura di queste pene nonché nella
raffinata crudeltà della esecuzione, l’intento dell’esemplarità, di incutere
terrore, il terrore delle conseguenze della violazione delle norme”, intento,
conclude lo studioso, non raggiunto proprio per l’enormità della pena, come gli
stessi governatori avrebbero constatato più avanti.
L’assassinio di strada apparteneva quindi al ristretto
novero dei reati considerati ‘atroci’ dall’autorità giudiziaria, reati da
punire con la massima severità, togliendo la vita al reo in modo spietato e
spettacolarmente macabro al contempo. A conferma della crudezze riservate agli
assassini di strada si possono leggere i dati su Milano del periodo 1591-1610
proposti da Liva. In questo ventennio furono eseguite 316 condanne a morte di
cui 107, pari al 34%, con esacerbazioni. Furto, omicidio e assassinio di strada
risultano i reati per cui più spesso furono applicate le esacerbazioni o
crudezze. Delle 24 condanne a morte per assassinio di strada eseguite a Milano
fra il 1591 e il 1610 ben 17, ossia il 71%, comportarono esacerbazioni, la più
comune delle quali, come visto, era lo ‘squartamento mediante cavalli’.
A Varese le esacerbazioni non erano nella norma e in genere
gli aggressori o assassini di strada venivano o semplicemente impiccati o
‘appiccati’ sulla pubblica piazza come gli altri condannati a morte. Delle 32
esecuzioni capitali prese in esame solo quattro furono eseguite tramite
decapitazione. Di queste, due coinvolsero donne: nel 1579 Marta di Albiolo, in
quanto ritenuta strega, e nel 1621 Margherita Baroffio di Vedano, rea di
omicidio. Raramente a Varese i condannati a morte venivano ‘tirati a corda di
cavallo’, ossia ‘trascinati’ sulla strada nel percorso dal carcere al patibolo.
Subirono questo trattamento nel 1579 il vercellese Gerolamo Gozio e nel 1615 il
‘benestante’ varesino Camillo Martignoni che aveva ucciso, con la complicità
del fratello, la sua giovane serva e amante dopo aver scoperto che era incinta
del fidanzato. La Cronaca di Varese
registra però anche alcuni casi di crudezze post-mortem: alla fine del gennaio
del 1583 “fu appiccato e poi decapitato Gio Pietro Marocco omicida” e
nell’aprile 1591 “Gio Batta Gatto di Venegono, aggressore di strada,
omicidiario, ecc. fu appiccato in Varese avanti il palazzo di giustizia poi
squartato, ed i suoi quarti esposti per più ore alla pubblica vista”. Nel
luglio 1597 invece “Franco Barbato di Venegono Inferiore, aggressore ed omicida
fu appiccato indi decapitato, e la spesa fu ripartita come al solito”.
A proposito delle spese per le esecuzioni capitali, più
volte la Cronaca specifica che venivano “ripartite sulle terre della pieve in
proporzione del sale che a quelle dallo Stato si somministra cadaun anno”. Le
cifre ‘ripartite’ sono specificate solo in alcuni casi. Nel 1588, per esempio, l’impiccagione di Lucia di Azzate per
opera del boia di Lugano, alla cui opera spesso si ricorreva a Varese, costò 35
ducati; nel 1591 per l’impiccagione e lo squartamento dell’assassino di strada,
cui prima abbiamo accennato, si spesero invece ben 310 ducati. E nel 1619 per
la fustigazione pubblica di un truffatore di Bosto, quindi per una semplice
punizione corporale, non si spesero meno di lire 70, somma con cui a Varese a
inizio Seicento era possibile affittare per un anno una casa con cucina e
bottega a pianterreno affacciate sulla corte, alcune camere da letto al primo
piano e sopra questo il solaio e il sottotetto. Nel 1621 infine, l’impiccagione
simultanea di un uomo e di una donna “rei d’omicidio proditorio” comportò un
esborso di lire 525. Con tale importo, al mercato settimanale di Varese del
lunedì in quegli anni un compratore scaltro poteva acquistare ‘a credito’, con
pagamento dilazionato e rateizzato, un cavallo, una vacca, una coppia di buoi e
almeno dieci brente di vino (circa 750 litri). Ovvero quanto bastava a far felice
un contadino e la sua famiglia per un’annata e più!
Pare comunque di capire che, una volta ripartite fra le
ventisei comunità pievane, le spese sostenute a Varese fra Cinque e Seicento
per le esecuzioni capitali fossero tali da incidere troppo negativamente sui
bilanci delle stesse.
L’assistenza spirituale e materiale ai condannati a morte
era invece appannaggio della confraternita di Santa Marta, attiva nel borgo sin
dall’inizio del XV secolo. L’istituzione “contava fra i suoi ascritti persone
cospicue, possedeva entrate proprie, nonché la cappella di S. Marta entro la
basilica di S. Vittore, alla cui fabbrica essa presiedeva”. Per volere di Carlo
Borromeo nel 1574 la confraternita varesina fu ‘aggregata’ a quella di San
Giovanni Decollato in Roma, mentre nel 1694 strinse sodalizio con quella di San
Giovanni Decollato alle Case Rotte, detta dei Bianchi, di Milano. Fino alla
soppressione Giuseppina del 1786 la confraternita “nominava ogni anno i propri
officiali, faceva vendite e investiture, accettava legati, soprintendeva alla
gran processione del venerdì santo, denominata dell’Entierro, e assisteva i
condannati a morte in quel territorio, accompagnandoli al patibolo”.
Ma torniamo ora all’assassinio di strada. Si è in precedenza
accennato al fatto che questo reato era fenomeno tipicamente rurale e veniva
spesso commesso da bande armate. A Milano, nel 1585, ci fu l’esecuzione
collettiva di un gruppo di sei assassini di strada; a Varese nel 1592 cinque
assassini di strada vennero giustiziati insieme e nel 1629 la stessa sorte
toccò ad Angelo Bianchi e ai quattro ‘compagni’ della sua banda. Un quinto
componente, catturato in seguito, fu impiccato un mese dopo.
Glia aggressori e/o assassini di strada attivi nel Varesotto
agivano però anche in coppia (come i due svizzeri giustiziati nel 1628) o da
soli. E’ comunque seguendo le gesta compiute tra il 1562 e il 1563 da una banda
di criminali di strada che possiamo provare a rispondere a due quesiti rimasti
fino ad ora accantonati: chi erano gli aggressori di strada? Chi le loro
vittime?
Il capobanda era un comasco, Gio Pietro Perlascono, già
luogotenente del commissario di Como, poi disertore e fuggiasco quindi, insieme
a doversi complici, autore di ruberie e delitti lungo le strade del Varesotto.
Una volta catturato con l’intera sua banda, nel 1563, il Perlascono fu oggetto
di una contesa giurisdizionale fra Varese e Como. Il podestà di Varese voleva
giustiziare la banda Perlascono al completo nella sua giurisdizione “a fine
ancora di spaventare simili sclerali, che nel avvenire non habbino ardire” di
tormentare il Varesotto e i suoi abitanti. Il podestà di Como invece voleva il
trasferimento del Perlascono nella città natale per giudicarlo dei reati lì
compiuti, anteriori a quelli varesini.
Il governatore dello Stato, chiamato a decidere sulla controversia, appoggiò la
posizione comasca. Così l’ex pubblico ufficiale Perlascono non fu giudicato per
i suoi reati commessi nel Varesotto. Questi ultimi includevano l’aver rubato
del formaggio a delle povere donne; il furto di 3 ducati a dei poveri
“strepazochi”; quello di tre “sciopi da Ruota” provenienti dalla Germania a un
servitore di don Fabio Visconti, cui erano destinati, con ferimento alla testa
del servitore; la rapina di 13 reali a un mercante varesino; l’aver finto di
avere una patente sopra lo ‘sfroso’ del sale effettuando controlli e sequestri
arbitrari.
Generi alimentari armi e denaro costituivano il bottino
della banda Perlascono i cui assalti, più che organizzati o mirati, sembrano
guidati da una cieca e disperata violenza pronta a travolgere tutto, comprese
donne, poveracci e servi. Difficile immaginare sostanziali differenze in queste
gesta criminali se a capobanda, al posto di un ex funzionario pubblico come il
Perlascomo, c’era un soldato disertore o un contadino esasperato e incanaglito
dalla vita. Tra le vittime ricorrenti degli aggressori e/o assassini di strada
spiccavano i mercanti.
Nel passaggio tra Cinque e Seicento, malgrado il netto
declino della fiera dei cavalli di Varese e del traffico mercantile
internazionale ad essa legato, il mercato settimanale del lunedì continuava a
essere meta di mercanti di grano, vino e bovini che concludevano transazioni
con Svizzeri e abitanti delle pievi limitrofe al borgo. Attivo era anche il
comparto tessile: pellicciai, vellutai, mercanti di capi serici e soprattutto
di ‘drappi lana’ varesini erano impiegati a vendere i loro prodotti in tutto il
circondario. Le strade del Varesotto, in definitiva, erano trafficate anche in
quei decenni: prodotti della terra, capi di bestiame, manufatti tessili e
denari vi transitavano con regolarità, esposti agli assalti degli assassini di
strada. Come potevano difendersi i mercanti?
Nel 1582 Giorgio Porcata, mercante varesino che conduceva
‘traffici’ non meglio specificati in Germania, in Piemonte, a Bergamo e
intratteneva rapporti commerciali con l’Ospedale Maggiore di Milano, chiese
tramite il podestà di Varese di potersi muovere con una scorta armata a
protezione di merci e denari. Il podestà appoggiò per iscritto la richiesta e la
inoltrò a Milano, testimoniò la correttezza e l’onestà del Porcara, il suo
essere dedito agli affari, nonché le minacce subite dal mercante sia da
concorrenti invidiosi del suo successo che da banditi. La richiesta di
autorizzazione non ottenne risposta.
Qualche tempo dopo però il Porcara spedì una nuova
invocazione a Milano per ottenere licenza di poter armare a sue spese una
scorta. Non ebbe soddisfazione neppure questa volta e ottenne invece solo una
laconica risposta indiretta, affidata al retro della sua missiva: “Non conviene
per ora”. I Mercanti, in genere, non potevano quindi fronteggiare i loro
assalitori armi alla mano. La fuga e l’affidarsi alla sorte erano possibilmente
la loro difesa più efficace.
Come già segnalato attraverso le citazioni di Liva e
Bendiscioli, l’autorità giudiziale del tempo non era interessata a indagare le
cause sociali della criminalità, né tanto meno a prevenirla o scoraggiarla con
mezzi diversi dalla politica dell’esemplarità della pena come deterrente e
monito al delinquere. Questa condotta informava anche i rapporti
centro-periferia. Come dimostra il caso Porcara, se la periferia appoggiava o
proponeva soluzioni diverse dalla linea ufficiale (contraria alla concessione
dell’uso delle armi ai privati) le sue istanze non venivano recepite.
L’amministrazione periferica della giustizia non aveva alcuna reale autonomia
decisionale e la sua sostanziale inefficienza, determinata dalla cronica
mancanza di uomini e di mezzi, è testimoniata dall’enorme numero di condanne a
morte in contumacia nei confronti di latitanti, che tali restavano, in cui
esauriva gran parte del suo operato.
Per concludere, possiamo osservare che, fra XVI e XVII
secolo, la giustizia alla periferia dello Stato di Milano quando funzionava, e
Varese pare essere un esempio significativo, riusciva a punire almeno parte di
quei ‘reati atroci’ che più perturbavano l’ordine pubblico, tra cui appunto
spiccava l’assassinio di strada,. Lo faceva con quell’esemplarità cieca e senza
ritorno di cui la pena di mote era paradigma.
BAITELLA
Dal tranquillo mondo agreste di un Azzate ottocentesco si
stacca la figura di Baitella “la più animosa, intollerante e caparbia
abitatrice” del piccolo borgo più di duecento anni or sono.
Sul suo destino incombe, come una spada di Damocle, la
sinistra predizione di una zingara: “Mia bella fanciulla, vedo scorrere vicino
a te sangue e delitti; la tua terra natia ti ricusa un asilo, e tu sei colpita
d’esecrazione e d’obbrobrio”.
Dotata dalla natura di una straordinaria bellezza e di un
cuore ardente, Baitella è condannata dal proprio temperamento a una vita di
sventure e di demenza. La predizione della zingara si avvera parola per parola,
e alla fine Baitella, vittima della propria natura impulsiva e delle proprie
funeste illusioni, aspramente condannata da un mondo sordo e ostile, appare
degna di pietà, di quella pietà che i suoi compaesani le hanno negato fino in
ultimo.
Una storia vera, umana, rimasta viva per lungo tempo nella
memoria del popolo e ricostruita dalla penna di Cristoforo Orrigoni.
La prima edizione di Baitella
è del 1857. La Pro Azzate, cui sta a cuore non solo il patrimonio naturale e
artistico locale, ma anche quello delle tradizioni popolari, è andata a
rispolverarla e la presenta ora in veste moderna, augurandosi di fare cosa
gradita a tutti i concittadini e di suscitare in loro interesse per iniziative
di questo genere.
CRISTOFO ORRIGONI
Della illustre famiglia degli Orrigoni di Milano, fu
bisnonno della vivente (1964) n.d. Valentina
Ferrario e del compianto dottor Adolfo Ferrario. Uomo di
mondo, dotato di una spiccata
sensibilità e corredato di una discreta cultura, viaggiò
moltissimo per l’Europa, e sposò la danese
Dorotea Ludd. Coltivò con un certo amore le lettere e,
costretto per ragioni di salute a passare
alcun tempo nella sua villa di Azzate (Villa
Bossi-Alemagna-Ferrario in Via Volta), raccogliendo presso i contadini notizie
locali, nel silenzio della solitudine del paesello trasse ispirazione per
scrivere il racconto Baitella, nonché
varie poesie, in lingua e in dialetto milanese, parecchie delle quali sono
andate perdute. Delle sue esperienze di viaggio, delle sue osservazioni sulla
vita, ci resta una raccolta di saggi inediti, del 1859, intitolata Ricordi, scene ed arcani della vita sociale.
(Estratto dai risguardi di Baitella e alcune poesie di Cristoforo Orrigoni, Edizioni Pro Loco
Azzate, 1964).
Anna Marcaccioli Castiglioni, Streghe e roghi nel ducato di
Milano. Prefazione di Fabio
Minazzi. Milano,Thélema, 2000.
di Elena
UrgnaniLe platee cinematografiche quest'anno si sono commosse di fronte al bel film di Paolo Benvenuti Gostanza da Libbiano, storia patetica di una povera donna, un'anziana contadina con conoscenze di erboristeria, accusata dall'Inquisizione di essere una strega e torturata senza pietà, fino a confessare ciò che non ha mai commesso pur di porre un limite alle sue sofferenze. La sua ammissione risulta tuttavia così incredibile, che l'inquisitore stesso dubita del risultato e decide di rimandarla libera, pur con la proibizione di esercitare la sua arte, e di continuare a risiedere nel villaggio.
Il film narra in effetti una della rare storie "a lieto fine" di questo tragico capitolo nella storia europea che fu la caccia alle streghe, un fenomeno che risulta difficile valutare, anche per la deliberata distruzione delle fonti storiche primarie. Così come altrove infatti, il grande archivio dell'Inquisizione dello Stato di Milano, un tempo conservato presso Santa Maria delle Grazie, fu consapevolmente dato alle fiamme, nel giugno 1788. Soltanto sporadicamente riaffiorano talvolta dagli archivi privati fascicoli che per un'imperscrutabile coincidenza di eventi erano stati "dimenticati" fuori dall'archivio. E' appunto il caso di questo fascicolo del Processus strigiarum, concernente la vicenda delle "streghe" di Venegono Superiore, interessante proprio per la "banale quotidianità" dei fatti che racconta, in questo caso infatti l'inquisizione non colpisce figure eminenti o intellettuali dissenzienti, ma donne e uomini del popolo, persone comuni. Come nota giustamente Minazzi nella sua prefazione, "questi scritti documentano analiticamente una prassi inquisitoriale che costituiva norma consuetudinaria in una società repressiva e intollerante, ma non ancora ristrutturata in senso decisamente controriformista".
Il 1520, anno in cui si svolge il processo, anticipa di alcuni decenni l'inquisizione moderna, quella che a partire da Sisto V diverrà la "Congregazione della Santa Inquisizione dell'eretica gravità", che avrebbe ristrutturato la tradizionale inquisizione medievale in nuove strutture centralizzate, più funzionali alla lotta contro l'eresia. In queste pagine è invece possibile riconoscere e ricostruire il funzionamento di un organismo di controllo sociale, politico e religioso che ha contraddistinto, nei secoli, la vita dei contadini cattolici in terra lombarda.
Il processo inquisitoriale si delinea dunque nei suoi elementi fondamentali: l'inversione dell'onere della prova, l'idea che l'accusato non abbia il diritto di essere giudicato dai propri pari, la segregazione e la tortura psicologica e fisica quale prassi procedurale, un iter giudiziario che non consente la difesa, poiché chiunque osasse difendere un sospetto sarebbe divenuto a sua volta sospettato.
Il libro si configura quindi come una sorta di resistenza attiva al revisionismo, dilagante in questo settore, che pretenderebbe di presentare un'improbabile inquisizione "dal volto umano", molto clemente e sempre evangelicamente indulgente, quando non addirittura baluardo a difesa della discrezionalità del potere civile. La pervasività di questa "nuova" vulgata edulcorata è del tutto visibile e scoperta nelle opere di contenuto didattico, destinate alle scuole, come il volumetto di Marina Montesano Le streghe (Firenze, Giunti, 1996).
Un'altra inquietante tesi viene avanzata nell'introduzione: quella di un perdurare nel nostro sistema giudiziario di alcuni meccanismi tipici del processo inquisitoriale, laddove per esempio il tribunale italiano ha reintrodotto nella sua prassi istituzionale il ruolo e la figura del "pentito", "una classica figura inquisitoriale, del tutto legata ad un ambito morale e personale che, in tal modo, contamina e stravolge l'intero iter giuridico del processo.
Quanto al libro vero e proprio, di esso vorrei notare innanzitutto l'estrema leggibilità, un pregio non da poco in questo genere di studi scientifici, resa possibile dall'agile organizzazione dei capitoli, brevi e sintetici, che inquadrano gli avvenimenti e sono premessi alla vera e propria ripubblicazione degli atti del processo: "Storia di quanto accadde a Venegono Superiore nel 1520", "Inquisitori e autorità ecclesiastiche e civili", etc. Alla accurata descrizione del fascicolo si accompagnano poi alcune schede monografiche, una per ogni protagonista di questo processo, che si chiude con la condanna a morte tramite il fuoco di sette donne, di cui sei vive e una morta. L'unico uomo accusato, figlio e fratello di una di loro, riceve una pena più mite: l'esilio. Per ognuna ed ognuno dei protagonisti vengono descritti lo stato sociale, le accuse e il comportamento tenuto durante il processo. In genere dagli interrogatori si evince che le donne si sono autoaccusate di tutto: principalmente di aver ucciso bambini, ragazzi, buoi, porci, e di averlo fatto "toccando" la vittima, ma vi sono anche altri crimini di cui si riconoscono colpevoli, essenzialmente crimini a sfondo sessuale, come essersi accoppiate a diavoli, a demoni e di avere partecipato ai sabba. In genere le donne dichiarano di essersi lasciate convincere dalla promessa di un uomo che da quel momento in avanti le avrebbe fatte "stare bene".
La prima chiamata a confessare era stata Margherita Fornasari, accusata con la figlia Caterina di essere strega ed eretica da un certo Giacomo da Seregno, da poco messo al rogo in quel di Monza per eresia e stregoneria. Da questo episodio era partita l'inchiesta che aveva portato l'inquisizione ad interessarsi di Venegono, una frazione piccola e marginale.
Margherita confessa subito tutto quanto le viene addebitato, con l'unica accortezza di non coinvolgere nessun'altra donna, né alcun altro uomo, ma il verbale del suo interrogatorio si chiude con la minaccia dell'Inquisitore, che le dà tempo ventiquattrore per pensare e confessare tutto, altrimenti minaccia di torturarla. Dai verbali degli altri interrogatori risulta che Margherita, da un certo punto in avanti, è morta. Come e perché non lo sappiamo, anche se è facile ipotizzare che sia morta sotto tortura. Dagli interrogatori veniamo anche a sapere che le "streghe" si servivano di un certo unguento, sempre lo stesso, che serviva sia per uccidere che per volare, e l'autrice dello studio si domanda come questo potesse accadere: "o le donne erano a conoscenza di antidoti che neutralizzavano il veleno contenuto nell'unguento e lasciavano agire solo la droga, oppure, come è più facile credersi, esse non uccidevano nessuno se non con la fantasia deformata dalle droghe che assorbivano attraverso le secrezioni vaginali.
Non sfugge all'attenzione dell'autrice come sia i sabba che gli incontri carnali con il diavolo fossero delle proiezioni evidenti di desideri che la realtà quotidiana della vita di queste contadine negava e reprimeva. E' questa un'osservazione che è già stata avanzata per altri processi alle streghe, ricorre ad esempio anche nel caso di Gostanza da Libbiano. Durante l'interrogatorio di Caterina Fornasari ad esempio traspare un bisogno di tenerezza e di dolcezza che è a suo modo toccante: richiesta dall'inquisitore se provasse piacere durante il coito con il demonio, e se tale piacere fosse simile a quello provato con suo marito, aveva risposto: "No, nell'atto vero e proprio provavo meno piacere di quanto ne provassi con mio marito, perché il membro di Martino non era né duro né rigido, come è quello di un vero corpo, e quando era nella vulva risultava freddo, mentre nei preliminari, negli abbracci, nei baci, nelle tenerezze e carezze d'ogni tipo, Martino mi procurava maggior piacere, perché lui mi dava l'illusione di prediligermi sinceramente e profondamente". Martino è il nome del diavolo seduttore che compare in tutto il processo, anche se a volte invece dichiara di chiamarsi Angelino.
Il sabba, che si svolgeva di norma una volta alla settimana, di solito il giovedì, era qualcosa che oggi - scrive l'autrice - sembrerebbe una scampagnata notturna, con finale in crescendo: "dopo aver mangiato, come esse ci raccontano, pane, carne di pollo e di maiale, e uova - che cocevano dentro caldaie durante la notte in mezzo alle radure - e aver bevuto del vino, il tutto portato da casa, esse ballavano e saltavano con i loro amanti, non trascurando di copulare". Però nei processi non troviamo traccia degli uomini che prendevano parte al sabba, nota la studiosa. Del resto, anche gli inquisitori erano convinti che fossero demoni, e pertanto sarebbe stato impossibile condannarli e sottoporli a un processo. "Non risulta che a qualcuno fosse mai venuto in mente che non di demoni si trattasse, bensì di uomini in carne ed ossa i quali altro non facevano se non spassarsela beatamente con delle donne pienamente convinte che fossero dei demoni" scrive la Marcaccioli Castiglioni, e si chiede "se mai uomo abbia avuto una copertura migliore di questa per sfuggire alle proprie responsabilità".
Perché le donne confessavano crimini che non avevano commesso? Certo per paura della tortura, e perché l'Inquisitore era prodigo di promesse di perdono e misericordia, qualora l'accusata avesse mostrato pentimento, confessando i suoi crimini. Nel Malleus Maleficarum vi sono istruzioni precise, anche se crude e ciniche, riguardo a queste promesse di perdono. I due autori, Heinrich Institor e Jakob Sprenger, a loro volta famosi inquisitori del secolo XV, si premurano di avvertire gli altri inquisitori che si può promettere perdono e clemenza, per carpire una confessione. Basta che, una volta ottenuta, l'inquisitore vincolato da questa promessa abbandoni il processo e al suo posto subentri un altro inquisitore, che non ne è vincolato. Così accade anche in questo processo, dove ad un certo punto a frate Battista da Pavia subentra l'inquisitore Michele d'Aragona.
E' degna di nota in questo contesto una donna, Elisabetta Oleari, che si proclama innocente dall'inizio alla fine, resistendo alle torture più tremende, le vengono perfino praticati esorcismi, lei sopporta fino allo svenimento ogni genere di tortura, ma non confessa. Forse sperava di riuscire a cavarsela in questo modo, ma anche questo fu inutile, perché in ogni caso la colpevolezza di Elisabetta era già ampiamente provata, secondo gli inquisitori, dalle testimonianze delle altre donne. Andrà rilevata per finire la ricchezza e la varietà del percorso iconografico che arricchisce questo saggio, che include disegni di Albrecht Dürer e di Leonardo, di Goya e di pittori contemporanei, oltre alle fotografie dei luoghi citati nel corso del processo.
Vorrei concludere con una proposta provocatoria: alcuni passi degli atti del processo (in latino con testo a fronte) si prestano bene, secondo me, ad essere usati come versioni ad uso scolastico. Se si riuscisse a portare nelle aule un po' della complessità e della problematicità che emerge da questo genere di documentazione, forse anche la didattica del latino potrebbe ritrovare un nuovo senso.
RIEVOCAZIONE DEL PROCESSO ALLE STREGHE DI
VENEGONO SUPERIORE
Con la bolla di Papa Giovanni XXII Super illius specula (Avignone, 1326) la magia cessa di essere una
superstizione da tollerare e perdonare e diventa un fenomeno sociale che deve essere contrastato -un morbo pestilenziale da
debellare- in quanto minaccia
per la Chiesa. La lotta contro la stregoneria é affidata all’Inquisizione,
un’istituzione ecclesiastica creata nella seconda metà del XII° sec. per
indagare e punire, mediante un apposito tribunale, i sostenitori di teorie
considerate contrarie all’ortodossia cattolica. Questo controllo si abbatterà
con sempre maggiore brutalità sulla povera gente.
Il mito della strega nasce fin dagli albori
del mondo. Nel medioevo, per convinzione o ignoranza, molte donne erano ancora
legate alle vecchie credenze precristiane; il mito della strega resiste tra il
popolo, così, le pratiche magiche relative alle antiche tradizioni pagane
continuano a prosperare. Se il termine italiano strega deriva dal latino strix, un uccello notturno che
si credeva di cattivo auspicio perché ritenuto nutrirsi di sangue e carne
umana, la parola inglesewitch deriva
invece da wicce che significa saggia, ed infatti, nella
cultura pagana le streghe sono prevalentemente sciamane e consigliere (in
Irlanda si diceva che se le streghe ballavano il Sabbah su un campo questo
avrebbe avuto buon raccolto, in Italia che le messi sarebbero bruciate o
marcite).
Anno 1484: Papa Innocenzo VIII dà ampi
poteri ai frati Heinrich Kramer e Jakob Sprenger di svolgere incontrastati la
loro opera di inquisitori; i due frati domenicani codificheranno le tecniche
per la caccia alle streghe nel manuale intitolato Malleus Maleficarum (Il Martello delle Streghe): secondo gli autori, ci sono
più streghe che stregoni: le
donne sono più inclini a farsi irretire dal demonio perché deboli,
psichicamente fragili, chiacchierone, vendicative e cadono presto nei dubbi
sulla fede, la loro concupiscenza carnale è insaziabile per cui si uniscono ai
demoni per soddisfare la loro libidine.
Il processo inquisitorio si basa sui
pettegolezzi pubblici, sufficienti a condurre una persona al processo,
nonostante le accuse siano spesso perpetrate per invidia; l’avvocato manca,
perché una difesa efficace da parte del difensore è prova del fatto che egli
stesso è “stregato” e dovrà pertanto essere a sua volta processato. La tortura
è la normale tecnica di interrogatorio (si attenderà il XIX° sec. per vederla
abolita in Europa, grazie al pensiero di Cesare Beccaria). La confessione viene
estorta con la promessa di salvezza e, una volta ottenuta, considerata comunque
prova di colpevolezza: “confessano
solo per evitare la pena di morte”. Anche il processo alle streghe di Venegono
viene celebrato con le regole del Malleus
Maleficarum, fino al totale annientamento
psicofisico delle sue vittime.
I verbali del processo, che si apre il 20
marzo 1520 nel castello del conte Fioramonte Castiglioni, per fatti accaduti a
partire dal 1513, scoperti dalla ricercatrice Anna Marcaccioli Castiglioni,
sono stati tradotti e pubblicati nel suo libro Streghe e roghi nel
Ducato di Milano. Processi per stregoneria a Venegono Superiore nel 1520
(Thélema Edizioni, Milano, 2000).
La rievocazione del processo ci riporta all’epoca
dell’inquisizione, cinquecento anni indietro nel tempo, a nomi e luoghi, alcuni
dimenticati, altri invece che ancora oggi risuonano comuni: la chiesa di Santa
Maria, la Silva Rupta dietro l’oratorio, il prato del Cattaneo, la sorgente del
Fontanile, la Valle del Pascolo a est del castello, la Colombara attuale villa
Caproni. Le imputate ci parlano di donne, famiglie e uomini di Venegono
Superiore ed Inferiore, Vedano e Castiglione Olona, Monello, Binago, Appiano e
Seregno, dove questa storia ha avuto inizio.
PERSONAGGI E INTERPRETI
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Elisabetta Oleari (condannata al rogo)
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MARIA LETIZIA FASOLA
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Margherita Fornasari (condannata al rogo)
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SARA MAGLIOCCA
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Caterina Fornasari (condannata al rogo)
|
CARLA BERNARDINI
|
Antonina del Cilla (condannata al rogo)
|
HILARY BASSO
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Maddalena del Merlo (condannata al rogo)
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ELISABETTA MILANI
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Majnetta “Codera” (condannata al rogo)
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LISA IZZO
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Giovannina Vanoni (condannata al rogo)
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VERONICA MALETTA
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Caterina d’Appiano
(ostetrica)
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LALLA PIVATO
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Tommasina (sospettata)
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ELISA BAGAGIOLO
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Battista da Pavia (primo inquisitore)
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NINO GORIO
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Michele d’Aragona (secondo inquisitore)
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PAOLO GUFFANTI
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Badono Fornasari
(condannato all’esilio)
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PAOLO DELFINO
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Fioramonte Castiglioni (signore del castello)
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ENZO PANZERI
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Aguzzino
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GABRIELE CASTIGLIONI
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Testimoni
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MARIO MASPERO e SERGIO SPERONI
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Giacomo da Seregno (delatore)
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STEFANO
MEDAGLIA
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LA STREGA
LUCIA DI AZZATE di Andrea Della Bella
Vorrei vedere voi. Vorrei vedere le vostre facce, come
sarebbero i vostri occhi. I miei erano stralunati dalle torture e spalancati
dall’orrore. Nonostante le bastonate mi abbiano devastato volto e
lineamenti e le palpebre, sfinite,
lottavano per rimanere aperte. Non sentivo più dolore su questo mio corpo
scavato da percosse inenarrabili, venduto alla morte e, dicono loro, alla
salvezza dell’anima, per soli 30 denari.
Ma la mia è una storia vecchia, antica. Di quelle che
non trovi sui libri di storia, ma che ha contribuito a rendere buio quel
capitolo di vita su questa terra chiamato Inquisizione. Eppure ricordo la mia
carne viva, scavata con arnesi che nemmeno un maiale al macello ha avuto la
sfortuna di veder usati sul suo grasso corpo da immolare alle tavole di qualche
nobil signore o prete crapulone. Ferri e uncini conficcati nella mia anima per
cercare quel che non ho mai fatto, per carpire una verità che non c’era né
dentro di me e tanto meno fuori di me.
Ma è bene che mi presento, perché di anni ne sono
passati talmente tanti, che sarebbe meglio dire secoli. Anche se vedo che la
mia fama aleggia di nuovo in tutta la Valbossa e su quel “diabolico” strumento
che ai miei tempi nemmeno si poteva immaginare e che oggi chiamate rete,
internet, facebook.
Mi presento, dicevo. Sono Lucia di Azzate, la strega.
O meglio quella piccola donna che hanno accusato di essere adusa alla
stregoneria. Nel 1588 hanno comprato il mio corpo per 30 ducati, infilati nella
tasca di un boia venuto da Lugano e che nemmeno di uno sguardo ha degnato
questa donna condannata al patibolo, nell’ultimo istante in cui la mia vita di sofferenza
è stata liberata. Quello “stac” secco, della corda stretta attorno al mio
collo, prima molle e poi tesa dal peso delle mie membra ormai sfibrate me lo
son portato via con me. E non l’ho più dimenticato e nemmeno potuto raccontare.
Mi son portato via il brivido, l’ultimo, che ha attraversato il mio corpo
quando sotto i miei piedi non ho più trovato appoggio.
Ero bella, o almeno così pensavo, e non solo io. Ma
non confondetemi con la Baitella. Sapete come siamo fatte noi donne: siamo
permalose con chi non apprezza la nostra femminilità, figuriamoci con chi ci
confonde con un’altra. Io sono Lucia, una delle tante donne arse vive o
impiccate e ancor prima torturate nel nome di una fede che in realtà non
vorrebbe violenza. L’unica donna, a memoria d’uomo, in tutta la Valbossa a
pagare con la vita l’ostinata credenza di uomini che in me vedevano
l’incarnazione e l’adorazione del male. Sulla terra mi hanno già giudicata e
processata e ora son tornata, con questo scritto, non per giustificare la mia
innocenza, ma per rimettere un po’ a posto le cose almeno a livello storico. Di
falsità non ne ho mai raccontate. So che qualcuna invece, seppur innocente, ha
dovuto raccontare delle balle per farsi credere e aver salva la vita. Ad altre
la menzogna non è bastata. Tutte però abbiamo subito angherie incredibili, come
è incredibile che gli uomini spesso credono più alle menzogne che a un cuore
che supplica pietà. A voi che leggete queste mie ultime memorie non chiedo di
scavare di nuovo nella mia storia, di riportare a galla ciò che la piena del
tempo che scorre s’è portato via lasciando solo qualche vana traccia. Vi chiedo
però di non confondermi con chi non sono. L’hanno già fatto altri strappandomi
in maniera irreparabile gioia, anima e cuore. Voi risparmiatemelo.
Lucia di Azzate
venerdì 21 febbraio 2014
sabato 1 febbraio 2014
I Bossi di Azzate e il ramo di Bodio
Il ramo della famiglia Bossi di Bodio appartiene alla casata
più titolata e famosa di Azzate. Quest’ultima risulta già ascritta nell’elenco
delle nobili famiglie milanesi contenuto nella Matricola di Ottone Visconti (1377), nella quale, accanto ai Bossii domus domini Jacobi vengono
citati anche i Bossii de Aciate.
L’origine del nome si fa risalire a tempi assai antichi: lo
storico Donato Bossi nella sua Cronica
della seconda metà del Quattrocento, lo affranca alla mitologia egizia, da cui
deriva l’insegna araldica della famiglia costituita da un bue bianco su fondo
rosso. I Bossi discenderebbero poi dai Bessi, popoli della Bulgaria sconfinati
in Mesia, territorio che assunse grazie a loro il nome di Bosnia. (Valutazioni dedotte
dai geografi Sebastiano Meniste, Antonio Bonfisio e Domenico Negri).
Di certo, furono invece vescovi di Milano Benigno Bossi
(465-472), le cui ceneri sono conservate in una cassetta di piombo sotto
l’altare maggiore della Basilica di S. Simpliciano di Milano, ed Ansperto Bossi
(868-881), fondatore della Chiesa di S. Satiro, mentre Maffeo Bossi, intimo
dell’imperatore Lotario III di Sassonia, fu nominato nel 1128 vicario generale
della Lombardia e governatore di Lodi. La famiglia ottenne anche favori
dall’imperatore Federico Barbarossa, accrescendo il prestigio ed il potere
tanto che nel 1489, allorché il duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, volle
concedere il feudo di Azzate e delle terre vicine a Gaspare Visconti, i nobili
Bossi insorsero rifiutando di prestare giuramento di fedeltà dovuto al
feudatario. La decisione ducale, infatti, era apparsa insolita ai Bossi “perché dicte terre sono piene de cittadini
et zentilhomini, massime la terra de Aza’, dove sono più di cinquanta case de
cittadini et nobili tutti de Bossi”. Secondo costoro i territori non
avrebbero potuto essere concessi in feudo essendo sottoposti alla tutela e al
controllo del Maggior Magistrato e quindi se il duca avesse voluto
contraccambiarli coi servigi ottenuti dal Visconti, “il compiacea de altri lochi, dove ne possa havere più guadagno et
obedientia, et lassare stare dicti nobili et abitatori in suo grado”.
La richiesta fu accordata tanto che la concessione feudale
escludeva proprio la valle de Bozo,
comprendente i territori di Gazzada, Buguggiate, Azzate, Brunello, Daverio,
Crosio, Galliate e Bodio. Nel 1538 la Valle
de Bozo, o val Bodia e più tardi Val Bossa, fu assegnata in feudo al
senatore giureconsulto di Milano Egidio Bossi (risulta ritratto in una tela
conservata nella Chiesa Parrocchiale di Azzate, dipinta nel 1542 da Callisto
Piazza: Egidio ebbe due figli: Marco Antonio, ambasciatore milanese presso i
Cantoni Svizzeri, e Francesco, vescovo di Novara), uno degli autori delle Novae Constitutiones, volute
dall’imperatore Carlo V.
Nella Val Bossa è dunque documentata la presenza stanziale
della casata che, dalla fine del Quattrocento, si è suddivisa in vari rami,
ciascuno contraddistinto da varie residenze. Nel 1496, infatti, alcuni membri
dei Bossi abitanti ad Azzate e Bodio, insieme ad alcuni componenti della
famiglia Daverio, nominarono loro procuratori i signori Giorgio Rusca,
Cristoforo Bossi, Giavan Pietro Bossi, cancelliere ducale, ed i fratelli
Bertolini e Francesco Pagani per richiedere al Magistrato Straordinario di Milano
il diritto esclusivo di pesca sul lago della Val Bodia detto di Gavirate.
Certamente alla metà del Cinquecento risiedeva a Bodio
Bernardo, capostipite del ramo della famiglia Bossi proprietaria delle ville
ora Gadola Beltrami e Corso.
La ricostruzione genealogica dei Bossi di Bodio è il
risultato di una ricerca condotta originariamente forse da Don Cesare Ossola,
parroco di Bodio. Le ricerche successive sono state continuate da Giancarlo
Vettore e, ultimamente da Andrea Frigo, in occasione della pubblicazione di
“Bodio Lomnago, Storia di una comunità tra lago e colli, Nicolini Editore,
2004”.
Da Bernardo discende Giovan Angelo, sposato con Marta
Daverio, che fece testamento nel 1581.
Del figlio Galeazzo nulla è noto; ebbe un figlio Ulisse che,
sposatosi con Elisabetta Ghiringhelli, morì dopo il 1621. Costui ebbe cinque
figli, il primogenito Giovan Angelo (1593-1630) sposò Marta Daverio Cerrani da
cui ebbe ben sette figli.
Gli discese Ulisse, nato nel 1638 e morto dopo il 1711, che
sposò Anna Mara Daverio Pandolci, dalla quale ebbe cinque figli maschi.
Il primogenito Giovan Angelo, nacque nel 1677, morì nel 1760
e sposò Francesca Bossi fu Gerolamo. Da costei ebbe tre figli: Giovan Battista,
Gerolamo (sacerdote) e Giuseppe.
Da Giovan Battista (1724-1784), sposato con Isabella Sessa,
discese u ramo dei Bossi estintosi alla fine dell’ottocento, mentre dal
primogenito Giuseppe (1719-1776) nacque Galeazzo (1754- ante 1809) che ebbe a
sua volta due figli: Angiola e Giuseppe Carlo.
A costoro e agli zii è legata la divisione delle proprietà
Bossi di Bodio del 1830, con l’assegnazione dell’attuale Casa Corso a Giuseppe
Carlo e quella Gadola feltrami a Giovan Angelo.
Dalla discendenza di Giuseppe Carlo deriva l’ultima Bossi,
donna Antonietta, morta nel 1999.
Nata l’11 novembre 1911, secondogenita di Giuseppe Bossi e
Ida Garoni, rimase nubile come la sorella Maria Luigia, mentre il fratello
primogenito Tebaldo non si sposò mai pur avendo avuto un figlio da una
relazione extra coniugale. Dopo aver venduto molte proprietà di famiglia,
Antonietta si era ritirata in una villa sul lago ad Oltrona dove conservava
parte dell’archivio degli avi, oltre a quadri, fotografie e libri su Ricasso,
per il quale aveva una passione sviscerata.
Ricordva con tenerezza il nonno Antonio che esercitava
gratuitamente la professione di medico a Bodio, ricevendo qualche uovo o pollo
e che aveva costruito una cappelletta sul porto lacuale del borgo per segnalare
un approdo sicuro ai pescatori.
Particolarmente caro le era, inoltre, il cardinal Schuster
il quale, durante una visita pastorale a Bodio, invitò la famiglia Bossi ad
abbandonare la tribuna di loro proprietà nella chiesa parrocchiale di Bodio per
unirsi alla popolazione nella celebrazione della messa. Ormai anziana, fu
ricoverata a Villa Puricelli a Lomnago dove si spense poco prima nel nuovo
millennio.
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