Diciamo subito che la denominazione molto spesso usata di
Villa Castellani è la semplificazione della più corretta dicitura di Villa
Bossi-Tettoni-Benizzi-Castellani che sta a significare la successione
cronologica delle famiglie che vi hanno avuto dimora.
Punto di partenza dell’indagine conoscitiva della villa è
una lapide murata sulla facciata che dà verso il parco di Via Fiume e che reca
la data del 1495.
Essa dice: “QUESTE COSTRUZIONI DEGLI ANTENATI DEI BOSSI, DA
GIOVANNI BOSSI PADRE ACCRESCIUTE, FURONO AMPLIATE DA MATTEO BOSSI GIURECONSULTO
E SENATORE SU UN LUOGO DISTRUTTO ED ABBANDONATO ED INOLTRE EGLI FORTIFICO’ CON
UN MURO ED UN FOSSATO ED ABBELLI’ CON ALBERI, PARCO ED ORTO NEL 1495” .
Scarse sono le notizie che abbiamo sugli antenati di Matteo
Bossi ma la lapide ci informa che essi erano già presenti in Azzate da molte
generazioni e proprio sul posto dove ora sorge la villa (oggi Palazzo
Municipale) vi erano già le case forti dei Bossi. Queste, a causa del tempo o
di altri eventi che non conosciamo, erano state abbandonate e si presentavano
molto diroccate. (Qui ci starebbe bene un disegno di case diroccate).
Le vecchie case forti dovevano essere pressapoco così. |
Fu il padre del predetto Matteo che iniziò il restauro,
mentre il figlio ne portò a termine l’ampliamento e l’abbellimento nelle forme
che, grosso modo, sono rimaste intatte anche dopo gli interventi eseguiti nel
Settecento e che possiamo tuttora vedere.
Il capostipite di questo ramo dei Bossi fu Montolo dal quale
discendono tre grandi rami: uno si trapiantò nel Lodigiano; un altro, che
chiameremo del conte Giulio Cesare, prese dimora nell’attuale Villa Borsa, sede
della rinomata Locanda dei Mai Intees ;
il terzo che chiameremo ramo di Cristoforo. Da quest’ultimo discendono due
femmine che per ragioni di matrimonio portarono in altre famiglie due fra le
più belle ville di Azzate: una sposò un Alemagna e si portò in dote l’attuale
Villa Berla (più conosciuta come Villa Ferrario in Via Volta ma che sarebbe più
esatto chiamare Villa Bossi-Alemagna-Ferrario) e l’altra sposò un Tettoni che
spiega così la denominazione richiamata all’inizio.
Ricordiamo che generalmente, in passato, i matrimoni si
facevano tra Bossi e Bossi e questo proprio per non intaccare il patrimonio
che, diversamente, nel giro di poche generazioni, si sarebbe troppo
polverizzato – cosa che invece avvenne – (pensiamo alla Ca’ Mera, alla Villa
Piana, alla Villa Riva-Cottalorda-Ghiringhelli, alla Villa Mazzocchi, alla
Villa Zampolli, oltre le tre già citate, tutte di proprietà Bossi ma passate
poi in altre famiglie).
Di Giovanni Bossi, trisnonno del Matteo di cui stiamo
parlando e nonno di altro Giovanni che iniziò la ricostruzione della villa,
sappiamo che esercitò la professione di notaio come il padre e, in un suo
rogito del 6 maggio 1444, si definì come “figlio di Andrea abitante in Azzate”.
Da Giovanni discende Guido, anch’egli notaio, che il 18
dicembre 1430 intervenne con altre persone ad un “convocato” tenutosi ad
Azzate.
Da Guido discende Giovanni, padre di Matteo, che,
continuando la tradizione dei suoi avi, fece parte anche lui del Collegio dei
Notai di Milano. Il 13 giugno 1483 rilasciò una procura al figlio Matteo, di
cui ci stiamo occupando, affinché provvedesse ad una vendita ad un altro suo
figlio di nome Cristoforo.
Di Matteo e di sua moglie Polissena, che possiamo
considerare i continuatori dell’opera di trasformazione della villa nelle forme
in cui oggi la vediamo, cui aveva già messo mano il rispettivo padre e suocero
Giovanni Bossi, possiamo dire che il primo morì nel 1492 all’età di 72 anni,
ossia tre anni prima dell’ultimazione dei lavori, e fu sepolto nella Chiesa
dell’Incoronata di Milano, dove si conserva ancor oggi la sua lapide funebre.
(Inserire foto della lapide).
Di un suo medaglione già esistente sul fronte della villa e
trasportato al Museo Archeologico del Castello Sforzesco di Milano, riferisce
l’Archivio Storico Lombardo e sarà argomento di un nostro articolo a parte.
Giovanni che viene detto “patrizio milanese” nella sua
lapide (su di essa è anche scolpito il suo bel ritratto preso di profilo),
oltre alla sua fama di letterato e uomo pio sembra non aver goduto di
particolari benemerenze e favori materiali nella sua vita. Fu suo figlio Matteo
che seppe raccogliere maggiore fortuna e con l’aiuto del suocero Luigi Bossi
iniziò la sua scalata sociale. (Ricordiamo che quest’ultimo discendeva dal
cosiddetto ramo dei Bossi di Azzate, che in seguito ottenne il titolo di conte,
ed era fratello di quel Francesco Bossi che divenne vescovo di Novara e cugino
di quel Egidio Bossi che nel 1538 fu il primo feudatario della Val Bodia).
Matteo dunque il 1° ottobre 1450 venne eletto capitano di
Casteggio (Pavia) per un anno. La sua importanza nella vita pubblica aumentò
nel 1484 quando entrò a far parte del Collegio dei Giureconsulti.
L’11 dicembre 1487 donò al Convento di Crosio i
beni che suo nonno Guido aveva avuto dalla Mensa Arcivescovile di Milano e, in
questo stesso paese, acquistò dal duca di Milano nel 1495 il dazio
dell’imbottato insieme a quello di Torretta.
Due anni prima di morire fu nominato membro del Consiglio di
Giustizia di Milano il 7 gennaio 1495.
Facciamo ora qualche passo indietro e vediamo di conoscere
la famiglia di Polissena che tanta parte ebbe nella scalata sociale di Matteo,
suo futuro marito.
Francesco I Sforza il 1° maggio 1452 aveva concesso ai
fratelli Luigi e Teodoro Bossi il feudo di Meleto Lodigiano, ultimo lembo di
terra milanese verso Cremona.
Luigi Bossi morì nel 1453, lasciando una sola figlia di nome
Polissena, avuta dalla moglie Cecilia Visconti figlia di Lancillotto dei
condomini di Castelletto, alla
quale venne riconfermato lo stesso feudo l’8 gennaio 1458, unitamente la marito
Matteo.
Questo coniugi restaurarono ed ornarono il Castello di
Meleto; ne fortificarono le fosse e fecero costruire gli acquedotti per
l’irrigazione. Fabbricarono anche la
Chiesa di S. Giovanni Battista che diventò poi la
Chiesa Parrocchiale di S. Cristoforo di
Meleto.
In questa chiesa esistevano due medaglioni in marmo rappresentanti
l’effigie dei feudatari che, dopo molte vicende, sono stati acquistati dal
compianto signor Alessandro Orsi e fino al 2013 facevano bella mostra di sé in Ca’Mera ad
Azzate.
Una pergamena miniata del 1490 rende ancora più immediata l’opera
di restauro compiuta dai coniugi: il documento reca nel margine superiore lo
stemma dei Bossi col bue rampante ed iniziale maiuscola miniata. Al basso dello
scritto vi è la veduta del villaggio con peschiera, bosco, giardino, frutteto e
palazzetto di stile bramantesco. Ai fianchi di questa grande miniatura, la Polissena incinta, vestita nel
ricco elegante costume delle gentildonne della corte di Ludovico il Moro. Il
marito Matteo è invece raffigurato con toga lunga e berretto rosso, essendo
magistrato.
Tondo di Matteo Bossi recuperato dal signor Alessandro Orsi da Villa San Remigio di Pallanza , che fino al 2013 faceva parte dell'arredamento di Villa Orsi di Azzate. |
Tondo di Polissena Bossi recuperato dal signor Alessandro Orsi da Villa San Remigio di Pallanza, che fino al 2013 faceva parte dell'arredamento di Villa Orsi di Azzate. |
Come doveva essere in origine la villa? Per rispondere a
questa domanda basterà portarsi in prossimità dell’andito che mette in
comunicazione il parco Ovest con quello posto a Est e si potrà osservare che i
locali ora occupati dalla Biblioteca e dalla Sala Fontana, pur essendo di
normali dimensioni, hanno due entrate: una che dà sul portico e l’altra che dà
sull’andito. Questo è anomalo e costituirebbe un spreco inutile. Se invece
consideriamo le porte che danno sull’andito come la sequenza a cannocchiale,
una dopo l’altra, delle porte che mettono in comunicazioni i locali adiacenti
allora arriviamo ad affermare che l’attuale andito altro non era, in origine,
che un locale chiuso e venne probabilmente aperto per mettere in comunicazioni
i due parchi in occasione dei grandi lavori di ristrutturazione per la
creazione dello scalone d’onore e del portico.
Se questa ipotesi è esatta anche l’attuale portico venne
creato sacrificando almeno tre locali, abbattendo due o tre lati perimetrali di
ognuno di essi e inserendo sul fronte delle colonne al posto del muro.
Sopravvivono ai due lati del portico le due finestre che possiamo immaginare
sorelle delle due scomparse e ipotizzando che al posto della terza vi fosse invece
una porta d’ingresso abbastanza capiente.
In questa ottica tutte le aperture del piano terreno, del
piano nobile e del mezzanino sarebbero state in simmetria tra di loro e
sicuramente avrebbero conferito alla facciata una pesante uniformità ben
lontana dalla grazia che invece conferisce l’attuale colonnato che rompe una
costante architettonica.
Si può avanzare l’ipotesi che l’ingresso principale della
villa non fosse quello attuale verso la
Crosa ma fosse bensì quello verso l’attuale Via Fiume e
conforta questa ipotesi il fatto che nel 1937 l’atto di morte del conte Gian
Antonio Benizzi registra la sua residenza in Via Fiume n. 4.
Da questo ingresso partiva anche la cosiddetta strada dei
cavalli che veniva percorsa dalle carrozze
che attraversavano il parco, rasentavano il boschetto di
bambù, fino alla rimessa e alle stalle dislocate al piano terreno dell’attuale
Villa Lampugnani.
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