Mettiamoli sotto la lente di un microscopio questi duecento
anni di Varese elevata al rango di città, per decreto dell’imperatore d’Austria
Francesco II datato 14 giugno 1816 e notificato il 6 luglio. Facciamolo
ponendoci la prima domanda: fu vera gloria? E poi chiediamoci un’altra cosa: la
promozione, senza dubbio lusinghiera, fu accompagnata più da orgoglio, come si
conviene in casi del genere, o più da indifferenza, com’è capitato tante volte
nella storia di questo angolo privilegiato dell’orbe terracqueo?
Giuseppe Armocida, studioso, docente universitario,
assessore alla Cultura a Palazzo Estense per un certo periodo, dà risposte
sorprendenti: “Vera gloria è un’espressione impegnativa. Io la scarterei. A
Varese gli Austriaci diedero un premio di consolazione. Il titolo di città,
cioè un tributo, fu associato a una retrocessione, cioè a un castigo. Finimmo
sotto la signoria di un’altra provincia, quella di Como, politicamente più
attrezzata evidentemente; il territorio perse la sua autonomia amministrativa
che le era stata concessa, e questa situazione si protrasse per quasi cento
anni fino al 1927. Su questo accadimento gli storici hanno indagato a lungo
giungendo a elaborare tesi che qui sarebbe complicato approfondire”.
Piero Chiara, che sapeva sorridere dei difetti della sua
gente, non dandovi peso eccessivo, se la cavava con una battuta: ci sarà un
motivo se la poesia del Carducci dice “sta Federico imperatore in Como” e non a
Varese. Bisogna farsene una ragione, voleva sottintendere lo scrittore di
Luino.
“Ma una ragione ce le siamo già fatta”, dice un altro
storico, Robertino Ghiringhelli, innamoratissimo della Città Giardino, non al
punto da essere tenero con i suoi concittadini. “Varese non ha mai espresso un
proprio vescovo, Como sì. Non l’ha espresso perché in qualche maniera non ha
mai fatto nulla per assurgere al ruolo di diocesi. E anche sotto il fascismo,
checché ne abbiano scritto tanti studiosi, la città ha mantenuto quel passo felpato, quella prudenza,
quella pigrizia che le hanno negato un ruolo effettivo di traino”.
Se ci fermassimo a quel che accadde nell’immediatezza del
1816, si dissolverebbe l’enfasi doverosa con la quale in queste settimane si
stanno celebrando i duecento anni dell’elevazione del capoluogo prealpino a
città. Parrebbe di far festa a un titolo onorario, non a un riconoscimento
offerto a un borgo secentesco che aveva il non trascurabile rilievo di essere
l’ultimo baluardo, prima del confine con un altro Stato. La verità è che Varese
seppe tirare fuori il proprio orgoglio ma successivamente, negli anni del
Risorgimento e che, come spiega Armocida, lo sbarco dei cacciatori delle Alpi a
Sesto Calende, la vittoriosa battaglia di Biumo nel 1859, costituiscono vicende
fondamentali nella costruzione dell’Unità d’Italia. “Concentrando la sua azione
a Varese, di cui patriotticamente s’era innamorato, Garibaldi costrinse gli
austriaci del generale Urban a trasferire alle nostre latitudini migliaia di
uomini, a modificare le sue strategie, a sguarnire il fronte nordorientale dove
poi si sarebbe combattute decisive guerre d’indipendenza. Voglio dire che la
città mortificata dall’asservimento a Como giocò alla grande le carte del
proprio riscatto. E non è vero che le popolazioni locali non parteciparono,
restarono indifferenti. Diedero il loro apporto alla nobile causa. Non è un
caso che il braccio destro di Garibaldi, Guerzoni, sia sepolto nel cimitero di
Giubiano, una sorta di sacrario risorgimentale. Quanto eroi varesini, quanti
soldati, quanti uomini che misero a disposizione risorse economiche e
intellettuali riposano in quel luogo. Segno che nel frattempo Varese si era
calata mirabilmente nel ruolo di città”.
Senza dubbio questa parentesi patriottica dà visibilità ai
nostri luoghi, li trasforma nel palcoscenico di attività turistiche e
industriali di primissimo piano. Siamo agli esordi Novecento, negli anni del
Ballo Excelsior, della Belle Epoque, del Liberty, delle ville d’Este,
Recalcati, Litta, Ponti, Mozzoni, Mylius, Tamagno, De Cristoforis che si aprono
ad accogliere ospiti illustri attratti dalla bellezza dei paesaggi e non solo.
Fa sempre il tutto esaurito il Teatro Sociale, tempio dell’opera lirica,
sciaguratamente raso al suolo nel 1953. Ci sono i grandi alberghi costruiti dai
milanesi in cima al Campo dei Fiori e sul Colle Campigli.
Ma non è solo il Ballo Excelsior a ritmare gli eventi grazie
ai quali Varese onora il merito di essere diventata città. Entra in funzione in
quegli anni l’Ippodromo delle Bettole, il centro urbano viene percorso da una
rete tranviaria che lega le stazioni ferroviarie dello Stato e della Nord alla
periferia e alle valli circostanti fino a Luino, Ponte Tresa, Angera, si
costruiscono le due funicolari, una diretta al sacro Monte, ad uso dei
pellegrini, una al Campo dei Fiori, a disposizione di villeggianti, soprattutto
milanesi.
Già, perché è Milano a far grande Varese negli anni d’oro. E
anche su questo binomio inscindibile, tra le due città sarà caso riflettano i
nuovi amministratori. Varese e Milano rappresentano le stazioni di partenza e
di arrivo della prima autostrada costruita in Europa, guada caso da un
imprenditore milanese che dalle nostre parti aveva scelto di abitare.
Si raccontano queste cose celebrando il duecentesimo
anniversario e ci si accorge che quasi nulla è rimasto della grande attività di
Varese, città per caso o per imbroglio stando alla tesi di Armocida.
E’ cambiato tutto, tranne il bello offerto a chiunque,
arrivando da Milano, si imbatte in uno dei panorami più belli d’Europa: quel
lago incantevole, purtroppo solo se visto da lontano (l’inquinamento lo ha reso
sterile sotto il profilo biologico, non sul piano sportivo: Tra Schiranna e
Gavirate ha ripreso vigore il canottaggio di livello mondiale); quel Monte Rosa
superbo all’orizzonte che pare fare da sentinella, dall’altro, al massiccio del
Campo dei Fiori; quella città seduta in mezzo alle sue verdi colline.
Chiudiamo con un ritratto, uno dei tanti, dedicati a Piero
Chiara, alla sua città quando ancora era considerata qualcosa di prezioso, di
unico: “Sotto i portici, nei vecchi caffè rimodernati, signore, ragazzi e
ragazze, prefetti in pensione, qualche artista, due tre macchiette e pochi,
pochissimo fannulloni si salutano, osservano il passaggio, si accostano
parlando e, oh meraviglia, pettegolano come accade solo dove tra la vita di una
comunità ha ancora affabile misura e quindi umano senso”.
Poesia, certo. Nostalgia, anche. Ma forse desiderio di
tornare ad amare la nonnina bicentenaria.
Gianni Spartà
(Estratto da Lombardia, settimanale di cultura, attualità,
spettacolo del 3 luglio 2016).
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