martedì 5 luglio 2016

VARESE DIVENTO' CITTA' CON UNA RETROCESSIONE


Mettiamoli sotto la lente di un microscopio questi duecento anni di Varese elevata al rango di città, per decreto dell’imperatore d’Austria Francesco II datato 14 giugno 1816 e notificato il 6 luglio. Facciamolo ponendoci la prima domanda: fu vera gloria? E poi chiediamoci un’altra cosa: la promozione, senza dubbio lusinghiera, fu accompagnata più da orgoglio, come si conviene in casi del genere, o più da indifferenza, com’è capitato tante volte nella storia di questo angolo privilegiato dell’orbe terracqueo?
Giuseppe Armocida, studioso, docente universitario, assessore alla Cultura a Palazzo Estense per un certo periodo, dà risposte sorprendenti: “Vera gloria è un’espressione impegnativa. Io la scarterei. A Varese gli Austriaci diedero un premio di consolazione. Il titolo di città, cioè un tributo, fu associato a una retrocessione, cioè a un castigo. Finimmo sotto la signoria di un’altra provincia, quella di Como, politicamente più attrezzata evidentemente; il territorio perse la sua autonomia amministrativa che le era stata concessa, e questa situazione si protrasse per quasi cento anni fino al 1927. Su questo accadimento gli storici hanno indagato a lungo giungendo a elaborare tesi che qui sarebbe complicato approfondire”.
Piero Chiara, che sapeva sorridere dei difetti della sua gente, non dandovi peso eccessivo, se la cavava con una battuta: ci sarà un motivo se la poesia del Carducci dice “sta Federico imperatore in Como” e non a Varese. Bisogna farsene una ragione, voleva sottintendere lo scrittore di Luino.
“Ma una ragione ce le siamo già fatta”, dice un altro storico, Robertino Ghiringhelli, innamoratissimo della Città Giardino, non al punto da essere tenero con i suoi concittadini. “Varese non ha mai espresso un proprio vescovo, Como sì. Non l’ha espresso perché in qualche maniera non ha mai fatto nulla per assurgere al ruolo di diocesi. E anche sotto il fascismo, checché ne abbiano scritto tanti studiosi, la città  ha mantenuto quel passo felpato, quella prudenza, quella pigrizia che le hanno negato un ruolo effettivo di traino”.
Se ci fermassimo a quel che accadde nell’immediatezza del 1816, si dissolverebbe l’enfasi doverosa con la quale in queste settimane si stanno celebrando i duecento anni dell’elevazione del capoluogo prealpino a città. Parrebbe di far festa a un titolo onorario, non a un riconoscimento offerto a un borgo secentesco che aveva il non trascurabile rilievo di essere l’ultimo baluardo, prima del confine con un altro Stato. La verità è che Varese seppe tirare fuori il proprio orgoglio ma successivamente, negli anni del Risorgimento e che, come spiega Armocida, lo sbarco dei cacciatori delle Alpi a Sesto Calende, la vittoriosa battaglia di Biumo nel 1859, costituiscono vicende fondamentali nella costruzione dell’Unità d’Italia. “Concentrando la sua azione a Varese, di cui patriotticamente s’era innamorato, Garibaldi costrinse gli austriaci del generale Urban a trasferire alle nostre latitudini migliaia di uomini, a modificare le sue strategie, a sguarnire il fronte nordorientale dove poi si sarebbe combattute decisive guerre d’indipendenza. Voglio dire che la città mortificata dall’asservimento a Como giocò alla grande le carte del proprio riscatto. E non è vero che le popolazioni locali non parteciparono, restarono indifferenti. Diedero il loro apporto alla nobile causa. Non è un caso che il braccio destro di Garibaldi, Guerzoni, sia sepolto nel cimitero di Giubiano, una sorta di sacrario risorgimentale. Quanto eroi varesini, quanti soldati, quanti uomini che misero a disposizione risorse economiche e intellettuali riposano in quel luogo. Segno che nel frattempo Varese si era calata mirabilmente nel ruolo di città”.
Senza dubbio questa parentesi patriottica dà visibilità ai nostri luoghi, li trasforma nel palcoscenico di attività turistiche e industriali di primissimo piano. Siamo agli esordi Novecento, negli anni del Ballo Excelsior, della Belle Epoque, del Liberty, delle ville d’Este, Recalcati, Litta, Ponti, Mozzoni, Mylius, Tamagno, De Cristoforis che si aprono ad accogliere ospiti illustri attratti dalla bellezza dei paesaggi e non solo. Fa sempre il tutto esaurito il Teatro Sociale, tempio dell’opera lirica, sciaguratamente raso al suolo nel 1953. Ci sono i grandi alberghi costruiti dai milanesi in cima al Campo dei Fiori e sul Colle Campigli.
Ma non è solo il Ballo Excelsior a ritmare gli eventi grazie ai quali Varese onora il merito di essere diventata città. Entra in funzione in quegli anni l’Ippodromo delle Bettole, il centro urbano viene percorso da una rete tranviaria che lega le stazioni ferroviarie dello Stato e della Nord alla periferia e alle valli circostanti fino a Luino, Ponte Tresa, Angera, si costruiscono le due funicolari, una diretta al sacro Monte, ad uso dei pellegrini, una al Campo dei Fiori, a disposizione di villeggianti, soprattutto milanesi.
Già, perché è Milano a far grande Varese negli anni d’oro. E anche su questo binomio inscindibile, tra le due città sarà caso riflettano i nuovi amministratori. Varese e Milano rappresentano le stazioni di partenza e di arrivo della prima autostrada costruita in Europa, guada caso da un imprenditore milanese che dalle nostre parti aveva scelto di abitare.
Si raccontano queste cose celebrando il duecentesimo anniversario e ci si accorge che quasi nulla è rimasto della grande attività di Varese, città per caso o per imbroglio stando alla tesi di Armocida.
E’ cambiato tutto, tranne il bello offerto a chiunque, arrivando da Milano, si imbatte in uno dei panorami più belli d’Europa: quel lago incantevole, purtroppo solo se visto da lontano (l’inquinamento lo ha reso sterile sotto il profilo biologico, non sul piano sportivo: Tra Schiranna e Gavirate ha ripreso vigore il canottaggio di livello mondiale); quel Monte Rosa superbo all’orizzonte che pare fare da sentinella, dall’altro, al massiccio del Campo dei Fiori; quella città seduta in mezzo alle sue verdi colline.
Chiudiamo con un ritratto, uno dei tanti, dedicati a Piero Chiara, alla sua città quando ancora era considerata qualcosa di prezioso, di unico: “Sotto i portici, nei vecchi caffè rimodernati, signore, ragazzi e ragazze, prefetti in pensione, qualche artista, due tre macchiette e pochi, pochissimo fannulloni si salutano, osservano il passaggio, si accostano parlando e, oh meraviglia, pettegolano come accade solo dove tra la vita di una comunità ha ancora affabile misura e quindi umano senso”.
Poesia, certo. Nostalgia, anche. Ma forse desiderio di tornare ad amare la nonnina bicentenaria.

                                                                                              Gianni Spartà

(Estratto da Lombardia, settimanale di cultura, attualità, spettacolo del 3 luglio 2016).


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