domenica 8 febbraio 2015

BANCO MEDICEO IN VIA DEI BOSSI A MILANO

Il palazzo del Banco Mediceo o semplicemente Banco Mediceo, era un palazzo di Milano, sede milanese delle attività finanziarie di cambio dei Medici, conosciute in tutta Europa appunto con il nome di Banco Mediceo. Fu uno dei primi esempi di architettura del rinascimento lombardo.
Il palazzo era situato in Via dei Bossi, nel quartiere di Porta Comasina dove in seguito sarebbe stato costruito il Teatro alla Scala. Il committente fu Pigello Portinari rappresentante dei Medici nella Milano sforzesca. L'edificio sancì in qualche modo un'alleanza, che chiuse secoli di inimicizia tra Milano e Firenze, tra Francesco Sforza, che nel 1455 donò una preesistente costruzione (di proprietà della nobile famiglia Bossi) destinata ad essere trasformata nella sede del Banco e Cosimo de' Medici che ordinò al suo rappresentante di realizzare un nuovo e rappresentativo palazzo per onorare la città di Milano. I lavori si svolsero rapidamente e furono conclusi intorno al 1459.
L'aspetto dell'edificio ci è noto dal trattato di Filarete che riporta, oltre ad alcune notizie, anche un'incisione con l'illustrazione del prospetto principale che presentava elementi innovatiti del rinascimento toscano, uniti ad altri più tradizionali della pratica architettonica milanese.

Il palazzo mostra una facciata simmetrica con un basamento bugnato, un portale monumentale, un piano nobile con finestre binate poste su un’altra cornice, a coronare l’edificio un cornicione all’antica. L’edificio presentava inoltre una ricca decorazione, compresi dei tondi in ceramica posti poco sotto il cornicione. Il progettista dell’edificio non è conosciuto con sicurezza, anche se l’attribuzione tradizionale, pur senza riscontri documentari, è quella di Michelozzo, architetto di fiducia della casata Medici. Recentemente prevale l’attribuzione a Filarete, coadiuvato da maestranze locali. Tuttavia Filarete, non si attribuisce il progetto nelle pagine del suo trattato.
Intorno al 1456, la loggia e le sale furono decorate, sempre secondo Filarete, dal maggior artista lombardo dell'epoca, Vincenzo Foppa con affreschi dal soggetto eccezionalmente profano dei quali è superstite solo un frammento con Cicerone fanciullo che legge nella Wallace Collection di Londra. Altri affreschi erano di Zanetto Bugatto.
L'edificio fu demolito alla fine del XVIII secolo durante le sistemazioni urbanistiche intorno al Teatro alla Scala. Di esso rimane un Portale monumentale conservato presso il Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco, caratterizzato da una sovrabbondante decorazione scultorea lombardo-toscana, opera di Guiniforte Solari e Giovanni Antonio Amadeo. Alcuni tondi in terracotta con ritratti all'antica si trovano invece nella Pinacoteca del Castello Sforzesco.
Nel 1452 si apre la filiale del Banco Mediceo a Milano (trasferita dopo il 1455 dal Terraggio a Palazzo Bossi). E’ all’inizio un trasferimento del Banco da Venezia, da dove i mercanti fiorentini erano stati espulsi. Ne è governatore Pigello Portinari che fino ad allora aveva diretto la sede veneziana.


TRE INEDITI MEDAGLIONI IN TERRACOTTA E GLI “SPOLIA” DEL BANCO MDICEO DI MILANO di Vito Zani.

Viene naturale immaginare un episodio non irrilevante del mercato antiquario di secondo ottocento dietro tre sconosciuti medaglioni in terracotta con busti all’antica. Murati sul prospetto meridionale della Villa Gagnola a Gazzada (uno sull’avancorpo sinistro, gli altri sui pennacchi sopra le due colonne centrali), la cui segnalazione da parte di Andrea Bardelli, qualche mese fa, ha innescato le osservazioni e gli interrogativi a cui è dedicata questa pagina.


I tre manufatti misurano in media 65 cm. Di diametro e sono bordati da un identico motivo a torciglione bipartito, che circoscrive lo sfondo a conchiglia da cui emergono i busti. Quello installato sull’avancorpo sinistro si distingue dagli altri due per il soggetto, un anziano barbuto e paludato, oltre che per un pretto carattere neoclassico e per lo stato di relativa integrità sul piano della conservazione. Gli altri, raffiguranti invece due più giovani Cesari coronati d’alloro, che almeno a prima vista lasciano l’impressione di una possibile appartenenza all’epoca rinascimentale, presentano crepe e sollevamenti, particolarmente gravi in uno degli esemplari, con la superficie ormai ridotta in scaglie e prossima al totale disgregamento. Le parti più consumate di questi due medaglioni lasciano a vista l’impasto di argilla con una certa quantità di sabbia e qualche piccolo sasso, mentre i brani integri recano uno o più strati di finiture dipinte color mattone, screpolate e lacunose. L’esemplare con l’anziano barbuto presenta una lacuna nel panneggio da cui si intravede una maldestra integrazione, apparentemente in cemento, ma il resto del manufatto sembra ben conservato, anche nella finitura superficiale dipinta, che impedisce di verificare se la materia sottostante sia effettivamente più compatto come sembrerebbe, oppure se abbia la stessa composizione sabbiosa degli altri due.
E’ improbabile che i tre medaglioni fossero stati realizzati per la collocazione nella quale oggi si trovano, dal momento che non compaiono su quel lato della villa ritratto nella veduta di Carlo Bossoli del 1859, tuttora conservata presso la raccolta Gagnola.



Dovrebbe dunque trattarsi di opere erratiche, forse appartenute a un ciclo numeroso, che l’esemplare con l’anziano barbuto farebbe supporre integrato nell’Ottocento con pezzi di nuova fattura.
Nell’ipotesi, il post quem al 1859 incrementerebbe un quadro indiziario già forte della palese somiglianza di conformazione tra questi medaglioni e gli otto del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco (in parte esposti in Pinacoteca, in parte ricoverati nel deposito), rimossi sul finite del 1862 dal cortile che un tempo fu la sede milanese del Banco Mediceo: uno dei più sontuosi palazzi della città rinascimentale, passato nel corso dei secoli attraverso le ripetute e profonde manomissioni che hanno reso pressoché irriconoscibile quanto resta della sua originaria struttura, al civico 4 di Via dei Bossi.



Prima di confrontare i due gruppi di medaglioni, è  necessario dar conto brevemente di quanto si sa della storia dell’edificio, e di come in essa si inserisca quel ciclo in terracotta, non documentato, prelevato dal cortile. Compiuto nel 1461 per volere di Cosimo De Medici, il palazzo sorgeva per ospitare l’importante agenzia della banca di famiglia e l’abitazione del suo responsabile, Pigello Portinari, non meno che per simboleggiare la nuova alleanza politica tra la signoria fiorentina e quella milanese. L’operazione era stata appositamente caldeggiata dallo stesso duca di Milano, Francesco Sforza, che nel 1455 aveva donato a Cosimo il terreno e le relative preesistenze edilizie su cui fu eretto il palazzo.
Cinque o sei anni dopo la fine della costruzione, è il grande architetto fiorentino Antonio Averlino detto il Filerete a fornire una dettagliata descrizione del mirabile edificio nel suo Trattato, col corredo di un disegno che ritrae la spettacolare facciata, articolata su tre piani. Alta circa 15 metri e larga 50, essa recava al piano nobile una fila di dodici enormi bifore, mentre su quello inferiore si aprivano tre portali, con il maggiore in posizione centrale, particolarmente pregiato per la composizione architettonica e il corredo scultoreo, anch’esso oggi esposto al Castello Sforzesco.
L’impatto scenico della facciata era però giocato in buona parte sulla decorazione in terracotta, che al piano nobile rimarcava il profilo del cornicione e circondava le bifore, alternandone il corso con un ciclo di tredici medaglioni recanti busti o stemmi dei Medici, mentre al piano inferiore si vedeva un fregio a festoni e piccoli busti allineato al marcapiano, che, incontrando l’architrave del portale centrale, sviluppava con le sue parti marmoree un singolare intreccio decorativo, come dimostrato da recentissimi studi.
Filerete fornisce anche una descrizione non breve del cortile, nella quale però non fa cenno a parti figurate in terracotta, ricordando invece pitture e altro, oltre ad affermare che ulteriori interventi ornamentali per il palazzo erano ancora in via di progettazione, specialmente in facciata, alla quale si intendeva conferire un adeguato spazio visuale con la demolizione di alcuni edifici antistanti.
Simili presupposti non lasciavano certo prevedere che, nel giro di una ventina d’anni, una crisi di liquidità della corte medicea avrebbe indotto Lorenzo il Magnifico a porre in vendita lo splendido edificio, che fu acquistato nel 1486 da Filippo Eustachi, per cederlo al cognato Alvise Terzago. I due milanesi, personaggi importantissimi dell’apparato burocratico della corte sforzesca, erano smaniosi di ostentare la loro condizione di superiorità sociale e di accentrare sempre più potere grazie alle cariche che ricoprivano. Nel 1489, accusati di congiura e condannati, persero le loro proprietà, compreso lo splendido palazzo appartenuto ai Medici, che passò alla Camera ducale. Nei tre anni in cui lo possedette, il Terzago era riuscito a spendere la cifra di mille ducati per abbellirlo, pari a un quarto del prezzo appena pagato per l’acquisto dell’intero edificio con gli arredi interni. Fu molto probabilmente lui, tra il 1486 e il 1489, a commissionare i medaglioni del cortile, pagandoli con una parte di quei mille ducati.
Per alcuni anni, rimasero senza effetto le istanze di Lorenzo il Magnifico, volte ad annullare la vendita del 1486, adducendo che le trattative condotte allora da un suo agente non avevano avuto la sua approvazione finale.
Il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, preferì invece cedere l’edificio alla figlia naturale Bianca e al marito Galeazzo Sanseverino, per poi passarlo, nel 1495 ad Antonio Maria Sanseverino.
L’anno dopo tornò in possesso dei Medici e vi rimase almeno fino al 1574, quando Carlo Borromeo ne chiese invano la donazione allo scopo di farne la sede di un seminario. Da qui, le notizie si perdono per oltre un secolo, fino a che una lapide datata 1688 informa disignficative ristrutturazioni apportate dall’allora proprietario, il conte Barnaba Barbò (“ad familiare commodum, scalas extruxit, domum renovavit et exornavit”).
Anche senza sapere quale aspetto avesse l’edificio prima e dopo le cure del Barbò, non è difficile che ai tempi si fosse già persa memoria di quella che nel Cinquecento veniva ancora definita “la più bella casa de Milano” dal colto viaggiatore e collezionista veneziano Marcantonio Michiel, menzionata con riguardo anche da Giorgio Vasari, che riferiva il progetto architettonico a Michelozzo e ricordava i cicli pittorici di Vincenzo Foppa
Sul palazzo non spende infatti una sola parola la prima guida a stampa della città, il famoso Ritratto di Milano di Carlo Torre, uscita in due dizioni nel 1674 e nel 1714, e neppure la più ampia Descrizione di Milano di Sevilliano Lattuada del 1737-1738. Forse, solo la lettura del Vasari permise all’abate Bianconi di identificare l’ormai “modesto palazzo”, a cui dedicò qualche riga nella sua guida del 1787, dichiarando esplicito deprezzamento per le testimonianze artistiche che ancora conteneva.
Di lì a poco, è ancora la Vita vasariana di Michelozzo, nell’edizione del 1791 di Guglielmo Valle, a offrire l’occasione di un breve resoconto sullo stato attuale dell’edificio, in una nota di Venanzio De Pagave, che costituisce anche la prima testimonianza conosciuta dei medaglioni pervenuti al Castello Sforzesco.
L’erudito informa che l’antica porzione del palazzo rimasta inalterata risultava essere il cortile, al cui interno, “fra un arco e l’altro de’ portici sporgono fuori del muro varie teste di cotto, le quali per essere di molto corrose dal tempo non lasciano luogo a decidere né della loro struttura né del loro autore. Non sarebbe però mai fondato il giudizio, che le dette teste si fossero eseguite per mano di Michelozzo”.
Se l’attribuzione risulta puramente indotta dal contesto tematico, è invece preziosa la notizia che le teste del cortile erano “di molto corrose”, in quegli anni della proprietà Barbò, i quali “tennero il palazzo sino al 1802, poi lo vendettero al Consigliere Agostino Zizzoli, che con atto 28 di maggio 1822 lo cedette al signor Carlo Vismara. In oggi (1855) appartiene ai signori Valtorta”.
Proseguendo nei referti storici, come appurato da Elena Caldara, la guida milanese di Giuseppe Caselli del 1827 afferma che “nel cortile sono 13 teste di maniera, restaurate, ed alcune accompagnate dal signor Gorola”, identificato dalla studiosa nello scultore Stefano Girala. E’ possibile che questa operazione di restauro sui medaglioni non sia stata l’unica, e che più tardi si sia provveduto a un riallestimento parziale del ciclo, come si può dedurre dalle successive testimonianze, alquanto discordanti sul numero degli esemplari, ma anche sulla presenza di pezzi originali. Nel 1841, la guida dello Zufoli riporta che “nella corte si conservano ancora tre teste in terracotta”, mentre un saggio di Ferraro del 1834 le diceva “o restaurate o sostituite alle antiche”, senza enumerarle, come fece l’anno dopo il Cassina, che però parlava esclusivamente di sostituzione: “quivi (nel cortile) si veggono teste colossali, che sporgono fuori dal muro tra un arco e l’altro de’ portici, ma furono sostituite alle antiche in cotto ormai consumate, per opera del signor Vismara, che ne commise l’esecuzione allo scultore-plasticatore Girala”.
La notizia che il committente dello scultore Girala fu il “signor Vismara” permette di circoscrivere le operazioni di restauro nei cinque anni compresi tra il 1822 e il 1827, cioè tra l’acquisto da parte di Carlo Vismara e la testimonianza del Caselli.
Sul finire del 1862, Giuseppe Mongeri menzionava undici esemplari ancora in loco, ma in via di rimozione, mentre poco più di un anno dopo, a rimozione avvenuta, diceva di ricordarne “dieci o dodici”. Mongeri, figura autorevolissima presidente e segretario dell’Accademia di Brera fino al 1859, era entrato in argomento trattando del portale del palazzo del Banco Mediceo in due articoli pubblicati su un giornale milanese, il 5 dicembre 1862 e il 27 gennaio 1864 scritti rispettivamente prima e dopo la spoliazione e l’immediata vendita delle più rilevanti testimonianze artistiche rimaste fin lì aggregate nell’edificio.
Nel primo articolo, Mongeri denunciava la radicale ristrutturazione in corso, voluta dal nuovo proprietario Giovanni Valtorta, che prevedeva appunto l’eliminazione dei principali reperti di interesse artistico, paventando la vendita del portale all’estero. Nel secondo, del gennaio 1864, lamentava il compimento di quello de definiva “l’ultimo ed il più letale dei restauri”, felicitandosi però del fatto che il portale era comunque rimasto a Milano, musealizzato.
Effettivamente, vista l’importanza dei materiali antichi prelevati e la loro appetibilità a livello internazionale, il molto profittevole aspetto commerciale della ristrutturazione operata dal Valtorta non può certo essere considerato secondario in tutta l’operazione. C’è anzi da chiedersi quanto abbia giocato la tempistica, sincronizzata proprio su quel frangente storico in cui certi movimenti di mercato erano resi più facili da vuoti legislativi e passaggi di consegne istituzionali dagli antichi Stati al Regno d’Italia.
Tra i mercanti d’arte che si contesero le spoglie dell’antico Banco Mediceo, Giuseppe Baulini, “secondo al solito, trionfò”, come riferisce una lettera scritta il 12 novembre 1862 da Giuseppe Molteni, conservatore delle Gallerie dell’Accademia di Brera (e membro della Commissione di Pittura nella stessa istituzione con Giuseppe Mongeri), a Giovanni Morelli, in cui si dice anche che il portale era stato acquistato da Baulini “pel prezzo di 23mila lire” ma “quell’opera non vale meno di cinquantamila (…), Baulini non poté acquistarla a meno, stante che altre persone gli facevano concorrenza per motivi di speculazione (…. A quest’ora egli trovasi pure in possesso dei busti del paradosso e del piccolo ma magnifico affresco leonardesco”.
Dunque, già entro il 12 novembre 1862 Baslini possedeva anche i busti prelevati del cortili, allora attribuiti al Paradosso, lasciando supporre che il breve ritardo del primo articolo di Mongeri, che a inizio dicembre li riferiva ancora istallati nel cortile, sia dipeso dai tempi editoriali di allora.
Baulini vendette poi al Museo Patrio Archeologico di Brera il portale nel 1864 (per 25.000 lire), e i medaglioni del cortile nel 1873, mentre cedette nel 1867 a una collezione parigina un affresco con Cicerone Bambino che legge, strappato anch’esso dal cortile e unico reperto di un ciclo di Vincenzo Foppa, passato poi nel 1872 alla Wallance Collection di Londra, che lo conserva tuttora. Per altre vie transitarono ulteriori materiali, più difficili da commerciare, come i frammenti in terracotta forse provenienti dalla facciata, che Valtorta stesso donò al Museo Patrio nel 1864, oppure una colonnetta “con la doppia mensola”, proveniente dalla loggia del cortile, che nel 1895 era posseduta dal pittore Giuseppe Bertini, “nella sua villa di Biumo Superiore a Varese”.




Resta invece ignota la sorte dei medaglioni in terracotta che dovevano accompagnare gli otto oggi al Castello, visto che le fonti ottocentesche esaminate quantificano il ciclo fino al numero di tredici esemplari. L’eventuale motivo della separazione tra questi pezzi dispersi e il gruppo poi musealizzato si può forse intuire da un giudizio di Mongeri sui “dieci o dodici busti che si vedevano ultimamente nella corte” del palazzo, alcuni dei quali, “sette od otto, offrono il fare di una mano più antica e più eccellente dei rimanenti”, allora identificati in quella del Paradosso.
L’autore sicuramente sapeva della letteratura che vi erano stati i rifacimenti di Stefano Girala, e distingueva i pezzi sulla base del loro aspetto stilistico, che pure presentava scompensi evidenti, ma forse meno forti, anche all’interno nel gruppo degli otto esemplari. Questi giunsero al Museo Patrio, nel 1873, ma solo le indagini tecniche legate ai restauri condotti dal 2002 ad oggi su cinque esemplari (inv, 1536, 1538, 1539, 1541, 1542) hanno permesso di appurare quanto ingente fosse, nel complesso, la quantità di integrazioni, e quanto poco restava dell’originale in alcuni di loro. Ripuliti dalle superfetazioni che per quasi due secoli hanno alterato la loro immagine, questi cinque pezzi mostrano lacune variamente estese, senz’altro addebitabili ad atti che oggi si definiscono vandalici, mirati espressamente a sfigurare i volti.
Si spera che anche i tre esemplari del Castello ancora in attesa di restauri (inv. 1535, 1537, 1540) possano rivelare prima o poi quanto il loro vero volto corrisponda all’attuale, consentendo di verificare se almeno due di essi (inv. 1535 e 1537) non siano integrali realizzazioni ex novo, come darebbero l’impressione di essere. Detto questo, anche confrontando le originarie parti corrispondenti dei rispettivi esemplari si notano varie differenze.
La più vistosa è nel fondo a conchiglia, le cui beccellature variano di numero e larghezza (persino in un unico pezzo come l’inv. 1539), mentre altre varianti si notano nell’ingombro del bordino di raccordo tra la conchiglia e il clipeo particolarmente pronunciato nel 1535 e nel 1539. Il clipeo stesso, che fa da cornice ai busti, presenta soluzioni alquanto diversificate nel moduli decorativi, che vanno dalla ghirlanda (inv. 1537, 1540, 1541, 1542), al torcimento, a sua volta in forme diseguali.
A questo punto, non resta che porre a confronto i tre medaglioni di Villa Cagnola con gli otto del Castello Sforzesco. Si è già visto che le misure del diametro sono compatibili: una media di 65 cm. Per i tre della Villa Cagnola, a fronte di un massimo di 73 cm per quelli del castello, che infatti sono dotati di un bordo esterno di qualche centimetro, molto lacunoso in alcuni esemplari, e non visibile in quelli della Cagnola, dove non è escluso che possa esser stato rimosso o semplicemente coperto dall’intonaco. Le differenze che il confronto rivela nelle partiture decorative e nelle stesse tipologie delle figure non appaiono in sé più di quelle già osservate all’interno del solo gruppo del Castello Sforzesco, ove, per il resto, spicca la stranissima coppia degli inv. 1535 e 1537, di carattere figurativo e stilistico nettamente distante dagli altri.
Ciò renderebbe ulteriormente ammissibile l’ipotesi della provenienza dal Banco Mediceo dei due medaglioni della Villa Cagnola con i Cesari incoronati d’alloro, chiaramente accomunati da contatti che non ritornano così nettamente in nessuno degli esemplari del Castello, mentre rispetto ai loro vicini di Gazzada con l’anziano barbuto e paludato mostrano sigle molto simili negli occhi e in altri dettagli.
Raffronti a parte, la comprensione di questi manufatti non potrà prescindere da un diretto ed accurato esame materiale, possibile solo dopo la loro rimozione dalla parete, che si impone innanzitutto per esigenze di conservazione. Solo così sarà possibile verificare se si tratta di originali quattrocenteschi reintegrati, nel qual caso sarebbe ben difficile credere che non provengano dal Palazzo del Banco Mediceo, oppure di invenzioni ottocentesche ispirate a quei modelli, per le quali non si potrebbe escludere anche altre provenienze, fermo restando che al momento non si conoscono altri medaglioni di tipologia così conforme a quelli del Banco Mediceo.




Tondo del Banco Mediceo.

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