Il nome Francesco ricorre molto spesso nella storia della
nobile famiglia Bossi che ha per capostipite Rabalio e fermiamo per un momento
la nostra attenzione sul senatore Egidio Bossi che nel 1538 acquistò il feudo
della Val Bodia. Egli era figlio di Francesco e di Angela Oddoni e dal suo
matrimonio con Angela de’ Pieni nacquero sette figli, dei quali uno fu chiamato
Francesco e fu quel personaggio che si distinse per essere stato, a conclusione
della sua brillante carriera ecclesiastica, il vescovo di Novara.
Risalendo a suo nonno Francesco scopriamo che era fratello
di Antonio che generò Francesco, vescovo di Como dal 1420 al 1434.
Antonio predetto era figlio di Baliolo, a sua volta figlio
di altro Francesco. Abbiamo così che Francesco, vescovo di Como, era cugino del
senatore Egidio Bossi che, a sua volta, era padre di altro Francesco, vescovo
di Novara.
Indubbiamente è soltanto una coincidenza ma il caso ha
voluto che al nome Francesco fossero legati due vescovi che lasciarono una
profonda impronta nella storia del loro tempo.
Francesco Bossi figlio di Antonio, discendente dal grande
Rabalio.
71° vescovo di Como dal 1420 al 1434.
"Francesco Bossi, milanese (1420-1434). Il Bossi
godeva fama di grande dottrina e di grande zelo. Egli contribuì efficacemente a
riformare l'amministrazione degli ospedali, rimuovendone gli abusi e gli
sperperi che la comunità lamentava. Depose perciò dall'ufficio fra Giovanni
Buontempi, muovendogli il rimprovero di non reggere saggiamente l'ospedale dei
Santi Tommaso, Silvestro e Antonio ed obbligò gli amministratori a presentare
un rendiconto dell'attività che svolgevano. Partecipò, assecondando Filippo
Maria, al Concilio di Basilea convocato nel 1431 da Martino V e continuato da
Eugenio IV. Il concilio, com'è noto, fu poi disciolto da Eugenio IV perché,
trasmodando, aveva sostenuto la superiorità dei concili ecumenici sul Papa
(1439). Il Bossi morì nel 1434. Prima ancora che egli salisse sulla cattedra
era giunto a Como frate Bernardo da Siena dell'ordine dei minori, il quale, predicando
nella chiesa di San Francesco, non solo ristabilì la regola severa dell'ordine,
ma incitò i comaschi travagliati dalle discordie ad estirpare dagli animi le
radici dei rancori e degli odi. Preparò così la cerimonia della pacificazione,
della quale abbiamo parlato (1439) ...."[1].
“Nominato dal papa il 12 febbraio 1420 vescovo di Como. Con ogni
probabilità questo periodo coincise con il consolidamento delle relazioni del
Landriani con la Curia pontificia. Il 22 aprile 1423, infatti, egli
figura tra i sette vescovi presenti alla sessione inaugurale del concilio di
Pavia; nel 1431 fu tra i diciotto ecclesiastici incaricati da Eugenio IV di
predisporre la convocazione di un nuovo sinodo; il 14 marzo 1432, infine, fu
incorporato al concilio di Basilea, dove operò insieme con un nutrito gruppo di
ecclesiastici lombardi - tra i quali l'arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra e
il suo successore Francesco Pizolpasso, Venturino Marni vescovo di Cremona,
Bartolomeo Visconti vescovo di Novara, Delfino Della Pergola vescovo di Parma,
Alessio da Seregno vescovo di Piacenza, il cardinale Branda da Castiglione
- in vario grado interpreti del sostegno accordato da Filippo Maria Visconti
alle istanze conciliari.
Dopo la conclusione dello scisma d’Occidente, che comportò anche
nella diocesi milanese una fase di crisi ed incertezza istituzionale durante la quale il
governo della Chiesa ambrosiana fu assunto dal capitolo della cattedrale, l’avvento
dell’arcivescovo Bartolomeo Capra - eletto nel 1413 ma entrato a
Milano soltanto nel 1423 - e dei suoi successori Francesco Pizolpasso (1435- 1442) ed Enrico
Rampini (1442 - 1450), aprì un periodo di riorganizzazione delle strutture
della curia diocesana, favorito dalla presenza non soltanto a Milano, ma anche
in altre diocesi lombarde, di un gruppo di prelati riformatori che comprendeva,
oltre ai già citati, il cardinale Branda Castiglioni, il vescovo di Como
Francesco Bossi, il vescovo di Lodi – successivamente
traslato
prima a Tortona e poi a Como - nonché cardinale e legato apostolico Gerardo
Landriani, ed alcuni ecclesiastici di rango inferiore, che assunsero però le
funzioni di vicario generale a Milano ed in altre diocesi lombarde proprio al
fianco dei presuli testé citati: il primicerio del Duomo di Milano Francesco
della Croce, il canonico e arciprete della Cattedrale di Como Francino Bossi,
Antonio Bernieri, in seguito vescovo di Lodi, il canonico di Tortona Antonio
Pichetti. Questi ecclesiastici, legati fra loro anche da vincoli personali di
stima ed amicizia, avevano seguito analoghi percorsi di formazione culturale e
professionale: erano tutti permeati dalla cultura umanistica ed esperti in
diritto – erano per lo più addottorati in utroque – , avevano frequentato la
curia romana e avevano attivamente partecipato all’attività conciliare ora a Costanza, ora a
Basilea.
Grazie all’opera di questo gruppo di prelati furono riformati i
capitoli di numerose Collegiate, furono posti dei limiti alla mala amministrazione dei
beni ecclesiastici e si cercò,anche grazie alla costituzione di scuole per il
clero , di migliorare l’istruzione e la condotta. Il Della Croce fu
vicario del Pizolpasso e del Rampini a Milano e del Landriani a Como; Francino
Bossi affiancò il vescovo di Como Francesco Bossi e fu poi
luogotenente nella stessa diocesi di Francesco Della Croce e, quindi, quei
notai che, in assenza di una sufficientemente articolata struttura
burocratica, costituivano il punto di riferimento di vicari e presuli. A tali
iniziative riformatrici deve ricondursi, a mio parere, la compresenza negli
anni Quaranta e Cinquanta del Quattrocento di due cancellieri presso la curia
arcivescovile milanese. Il cancelliere era scelto di norma tra i notai già attivi
nell’ambito della curia con i quali condivideva cultura, formazione e
carriera, ma vi era piena consapevolezza, già tra i contemporanei, della
necessità di distinguere tra gli atti prodotti nelle nuove vesti e quelli
rogati come semplice notaio. Lo dimostra quanto avvenuto alla morte di Giovanni
Ciocca nel 1459, quando le sue imbreviature furono suddivise tra due notai:
Ambrogio Blassoni, che già lo affiancava nel cancellierato, ricevette le
imbreviature rogate dal defunto nelle vesti di cancelliere della curia
arcivescovile milanese, mentre quelle prodotte per la clientela «privata»furono assegnate a
Giovan Pietro Ciocca.
Nel periodo qui considerato la storia del cancellierato sembra
caratterizzar si per l’esistenza di una sorta di tensione tra due poli: da un lato il gruppo dei notai
e dei causidici tradizionalmente legati
alla curia milanese - a partire dalla famiglia Ciocca - dall’altro gli
arcivescovi, particolarmente attivi e tesi ad un’azione di governo autorevole. Non a caso
il materiale trovato proviene dalle filze di un cancelliere, Giovan Pietro
Ciocca, e del fratello Giovanni Antonio ed anche il Palestra attribuisce a G.P.
Ciocca la redazione dei verbali di molte visite conservate in ASDMi.
Nel cinquantennio successivo il Ciocca seppe
fare del cancellierato e della sua gestione il fulcro degli interessi
famigliari e per conservarne il controllo mise in atto strategie diverse, ma
ugualmente efficaci, sfruttando probabilmente anche la scarsa presenza a
Milano dei presuli. Giovanni Arcimboldi e il suo vicario generale Giovan
Battista Ferri, in particolare, operarono all’inizio del 1485 un notevole
rinnovamento delle strutture della curia affiancando a Giovan Pietro Ciocca nelle
vesti di cancellieri Giovanni Gallarati, Guido Bossi e Cristoforo Lazzaroni. Il
nuovo assetto non ebbe vita lunga: nel corso dei mesi successivi, infatti, l’Arcimboldi,
che durante il suo episcopato non fece residenza in diocesi preferendo
restare presso la curia romana, delegò la gestione dei beni e dei redditi
dell’arcivescovado ai milanesi Giovanni da Beolco e Gaspare Caimi, che ne
divennero affittuari generali. Tra i beni ed i redditi affittati dal Beolco e
dal Caimi figuravano anche i proventi della cancelleria arcivescovile, che il 2
febbraio1487 furono locati per nove anni, con effetto retroattivo a decorrere
dal primo gennaio, ad una società formata dal Ciocca, da Guido Bossi e da
Giovanni Gallarati. Come ci informa l’atto di locazione, rogato dallo stesso
Giovan Pietro Ciocca, i tre non si limitarono ad assumere la gestione della
cancelleria e lucrare i proventi connessi a tale ufficio, ma assunsero anche la
gestione di tutti i censi e i novalia spettanti
all’arcivescovo e alla mensa arcivescovile, ad eccezione di quelli destinati
all’Ospedale maggiore. Il canone annuo fu fissato in 1000 lire imperiali, da
pagarsi in due rate a san Martino e il mercoledì delle ceneri. Ignoriamo la
sorte di questo accordo dopo la morte di Giovanni Arcimboldi: tuttavia gli
ottimi rapporti che si instaurarono tra il Ciocca ed il nuovo presule,
Guidantonio Arcimboldi - il Ciocca ne divenne «familiaris continuus» - inducono a ritenere che egli abbia potuto conservare il proprio ufficio senza incontrare grosse difficoltà”.
(Estratto da Dizionario biografico degli italiani).
1428
Il curato di Montagna e le famiglie nobili Interiortoli, Da Pendolasco, De Piro e Da Prada chiedono al vescovo di Como, il milanese Francesco Bossi, di potersi staccare da Tresivio e diventare parrocchia autonoma: la popolazione è aumentata, la chiesa di San Pietro di Tresivio è difficilmente raggiungibile quando i torrenti Davaglione e Rogna ingrossano, ma soprattutto alcuni abitanti di Tresivio sono troppo bellicosi e poco affidabili.
Il curato di Montagna e le famiglie nobili Interiortoli, Da Pendolasco, De Piro e Da Prada chiedono al vescovo di Como, il milanese Francesco Bossi, di potersi staccare da Tresivio e diventare parrocchia autonoma: la popolazione è aumentata, la chiesa di San Pietro di Tresivio è difficilmente raggiungibile quando i torrenti Davaglione e Rogna ingrossano, ma soprattutto alcuni abitanti di Tresivio sono troppo bellicosi e poco affidabili.
Tra XV e XVI secolo si avviò il processo di decentramento
parrocchiale. Montagna, Ponte e Chiuro, le comunità di maggiore entità
demografica della pieve di Tresivio, ottennero il riconoscimento della loro
autonomia ecclesiastica nel corso del XV secolo, anche se tale autonomia
sarebbe stata contestata nei tempi successivi dalla chiesa matrice. Montagna
ottenne per prima l’autonomia da Tresivio con un processo di smembramento
avviato già nel 1427; la separazione fu concessa il 21 gennaio 1429 dal vescovo
di Como Francesco Bossi attraverso una bolla rogata dal notaio curiale
Francesco "de Ripa"; Ponte si sottrasse alla dipendenza
dell’arcipretale di Tresivio nel 1460; la chiesa dedicata ai Santi apostoli
Giacomo e Andrea di Chiuro, nata dall’ampliamento della chiesa di San Giacomo,
ottenne l’autonomia dalla chiesa matrice intorno al 1490 (Carugo 1990).
Nel quattrocento la comunità di Grosio si
emancipò dal legame con la plebana di mazzo. La chiesa di San Giorgio, della
cui esistenza si ha notizia dal 1257, era retta "ab antiquo" da un
beneficiale alle dirette dipendenze dell'arciprete di Mazzo. Questa situazione
si conservò fino al 12 marzo 1426, quando fu eretta in parrocchiale dal vescovo
di Como Francesco Bossi, con distacco dall'arcipresbiterale di Mazzo. La
separazione venne ratificata nel 1469 dal vescovo Branda Castiglioni. Della
chiesa di Grosio furono dipendenti, come risulta dalla visita pastorale del
vescovo Filippo Archinti (1614), le chiese di San Gregorio, di Ravoledo, di
Santa Maria Elisabetta di Tiolo e dei Santi Faustino e Giovita nel castello di
Grosio. Nel 1653, però Ravoledo si costituì in parrocchia autonoma.
Non esistono, allo stato attuale delle conoscenze, notizie
riguardanti l'esistenza di un archivio vescovile comense prima del XIII secolo.
Nel 1283, un incendio, provocato dalla fazione dei Rusca avversa al presule
Giovanni de' Avvocati (1274-1293), distrusse il palazzo episcopale e l'annesso
archivio. Si spiega così la quasi totale assenza di materiale documentario
anteriore a tale periodo.
Nuovamente la presenza di un archivio all'interno della sede episcopale è attestata nei primi decenni del XV secolo, quando il vescovo Francesco Bossi (1420-1434) diede ordine di depositarvi gli inventari dei beni degli enti ecclesiastici e assistenziali.
Nuovamente la presenza di un archivio all'interno della sede episcopale è attestata nei primi decenni del XV secolo, quando il vescovo Francesco Bossi (1420-1434) diede ordine di depositarvi gli inventari dei beni degli enti ecclesiastici e assistenziali.
Una piccola chiesa dedicata a san Michele era stata qui
eretta da molto tempo, ma per trovarla citata in un documento dobbiamo
aspettare il 1582. L’“Oratorium Sancti Michaelis de Tofaldo” è
menzionato nel documento del vescovo di Novara Monsignor Francesco Bossi,
arrampicatosi fin su in Val Formazza per la visita pastorale.
La chiesa di S. Giorgio, della cui esistenza si ha notizia
in un atto del 1257, era retta, ab antiquo, da un beneficiale alle
dirette dipendenza dell'arciprete di Mazzo. Questa situazione rimase tale fino
al 12 marzo 1426 quando fu eretta in parrocchiale dal vescovo di Como Francesco
Bossi.
Non esistono, allo stato attuale delle conoscenze, notizie
riguardanti l'esistenza di un archivio vescovile comense prima del XIII secolo.
Nel 1283, un incendio, provocato dalla fazione dei Rusca avversa al presule
Giovanni de' Avvocati (1274-1293), distrusse il palazzo episcopale e l'annesso
archivio. Si spiega così la quasi totale assenza di materiale documentario
anteriore a tale periodo.
Nuovamente la presenza di un archivio all'interno della sede episcopale è attestata nei primi decenni del XV secolo, quando il vescovo Francesco Bossi (1420-1434) diede ordine di depositarvi gli inventari dei beni degli enti ecclesiastici e assistenziali.
Nuovamente la presenza di un archivio all'interno della sede episcopale è attestata nei primi decenni del XV secolo, quando il vescovo Francesco Bossi (1420-1434) diede ordine di depositarvi gli inventari dei beni degli enti ecclesiastici e assistenziali.
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