Lo studioso varesino ha lasciato un’ampia e dotta
documentazione sul bacino lacustre traendone il quadro storico dell’epoca, di
un avvenimento, di un personaggio. Ma nella descrizione geografica e
naturalistica è incappato in alcune sviste che il nostro “laghista” ha voluto
precisare. Affettuosamente.
Si può celebrare un
maestro andando a spulciare le sue inevitabili sviste? Dico “un maestro” anche
perché di Leopoldo Giampaolo fui effettivamente scolaro sui banchi
dell’Istituto “Manzoni” a Varese; e poi amico devoto, frequentando la sua casa,
com’egli la mia, talvolta con Mario Bertolone (direttore dei Musei varesini),
di cui ricordo la giocosa, rumorosa, contagiosa allegria. Bertolone veniva a
Cazzago per esplorare la palafitta “Ponti” in Volta de Murr, aveva anzi
costruito, ispirandosi al batiscopio dei pescatori di polpi, un originale
apparecchio che doveva facilitare la rilevazione dei pali sul fondo del lago
per disegnarne la planimetria. Impresa ardua, che difatti non riuscì a che oggi
pià facilmente riesce agli archeologi subacquei.
Bertolone era esplosivo.
Un giorno, sbarcando all’Isola Virginia, lo ritrovai al centro di una tavolata
(doveva essere la conclusione di un meeting scientifico); appena mi vide,
gridò: “Signore e signori, vi presento un giovanotto di Cazzago!”. Ripeté tre
volte il nome del paese, sottolineando naturalmente le due zeta, che così
divennero sei.
Giampaolo era molto più
misurato, sempre immerso nelle sue ricerche di storia locale, mandate avanti
con una dedizione pari al piacere che ne ricavava. Quando lo vedevo nel suo ufficio
di direttore della Biblioteca Civica, diciamo ogni settimana, tutta la storia
di Varese, a puntate, secondo l’andamento delle sue indagini, mi scorreva
davanti agli occhi, “visualizzata” dall’intensa partecipazione del ricercatore
ai fatti che andava ricostruendo.
Ciò nonostante io presi
un’altra strada e dunque non tocca a me di esprimere un giudizio sullo
studioso; se mai, come del resto fanno, ai continuatori di quella “Rivista
della Società storica varesina”, di cui egli pubblicò il primo fascicolo (nuova
serie) nel lontano 1953. Ma dell’accattivante “lezione” di Giampaolo mi è
rimasto l’interesse per le vicende del territorio, anche se più nel campo della
tradizione orale che non della storia e soprattutto sul piano linguistico. Con
una particolare predilezione per il lago, che anch’egli amava, tanto che più
volte lo dipinse nei suoi delicati acquerelli e più volte ne scrisse,
incominciando dalla Preistoria.
Il lago di Varese
A un suo articolo,
intitolato per l’appunto “Il lago di Varese” e apparso nel n. 14/1979 della
“Rivista”, vorrei riferirmi per fare affettuosamente le pulci al maestro come
dicevo all’inizio e come facevo durante le conversazioni in Biblioteca, quando
le mie conoscenze di “lagista” si scontravano
o stridevano con i “documenti” e con i vecchi libri che Giampaolo scovava e
studiava, traendone il quadro storico di un’epoca. Di un avvenimento, di un
personaggio (che poi Piero Chiara era svelto a “rubare” per farne un racconto).
Il saggio sul lago è
importante perché, prima delle pubblicazioni di Alba Bernard e di Paolo
Cottini, tenta di dare, in estrema sintesi, un’immagine complessiva
dell’ambiente lacustre; e questo è anche il suo limite, essendo le pagine
dedicate all’archeologia, alla storia e alla “situazione attuale” necessariamente
sbrigative.
Ma io vorrei stare alla
descrizione geografica e naturalistica, puntualizzando alcune notizie in
contrasto con la realtà dei luoghi; notizie che il Giampaolo ha normalmente
dedotto da studi precedenti, come altri autori hanno continuato a fare,
ripetendo acriticamente quelle affermazioni. Intanto, un dato che non capisco
(“Il lago (…) ha la profondità oscillante fra m. 6 e i m. 26,70”), essendo la
profondità delle acque nei bacini di Cassinetta e di Capolago inferiore ai sei
metri (nel gego piscatorio: tutta la parte esterna alla gronda, che è il
secondo scoscendimento del fondo). Sempre sul piano geografico è invece
illuminante la lettura di due “carte itinerarie” della seconda metà del
Cinquecento e della loro simbologia, anche se sono definite “strane bilancelle
a sacco” alcune reti c), qualsiasi rivierasco riconoscerebbe per bertovelli.
Passando all’iniziativa
ottocentesca di abbassamento del lago di Varese, il Giampaolo scrive che si
voleva “abbassare il pelo dell’acqua di m. 4,30” (là dove gli innumerevoli
progetti avevano previsto tutta una serie di livelli diversi); e citando un
libro del Quaglia sull’argomento (“Gli animali in congresso”, lo intitola “Gli
asini a congresso”, mentre in una rievocazione del Risorgimento a Cazzago (“Virgola”
n. 19/1959) aveva scritto “Gli animali a congresso”. Ma qui cade
un’osservazione, che torna a onore dello storico varesino e cioè la sua
disponibilità a collaborare al periodico di un piccolo paese, come aveva già
fatto nel n. 8/1957 trattando di “Cazzago preistorica” (e incorrendo, per
altro, in un infortunio di cui dirò più avanti).
Torniamo al lago e
all’elenco dei suoi pesci, fra i quali il Giampaolo include “barbi, pighi,
lottatrici e lamprede”, sconosciuti alle acque varesine. Dei pesci che davvero
ci sono, egli chiama “alborella” l’alborella, termine che se mai giustifica nel
dialetto, dove registra l’oscillazione albrèla-arburèla. Il pescato e
ripreso dal Quaglia (“Laghi e torbiere del circondario di Varese”, 1884: “ben
quintali 45.000 annui di pesci”; stima inverosimile e anche incomprensibile,
perché appena più avanti lo stesso Giampaolo annota: “1500 quintali complessivi
di pesce pescato intorno al 1935”, che è una valutazione molto più realistica.
Fra le reti è citato il
“riazzo”, ancora un prestito dal Quaglia, che traduce arbitrariamente il
dialettale niàsc (peggiorativo di nìj, nido o giaciglio); non si
tratta di una rete in senso proprio. Ma della “sacca” delle reti da cinta (réet
de zìnta), dimesse nel primo Novecento. E fra gli uccelli troviamo il
“caporosso”, evidente abbaglio per “capo rosso”, in dialetto coo ross (in
italiano moriglione).
Caro Giampaolo, così
innamorato del lago e così varesino nel restare “a pelo d’acqua”, essendo
chiaro che gran parte degli “errori” è imputabile alla scarsa famigliarità con
la tradizione lacustre. Ma forse siamo matti noi delle rive a pretendere che
chi non vi è nato abbia con i luoghi i nostri stessi legami.
Azzate, Buguggiate e Cazzago
Diverso (e meno
peregrino, se non fosse una semplice svista) l’infortunio al quale accennavo
più sopra. Giampaolo conclude l’articolo su “Cazzago preistorica” con queste
parole: “Il Bonaventura Castiglioni, in un suo noto libro, ci dice che
esistevano nel villaggio parecchie lapidi romane, ma talmente corrose che, egli
scrive, “interpretationem non admittunt”. Il libro è “Gallorum Insubrum
antiquate sedes” (Gli antichi insediamenti dei Galli Insubri, 1541) e la
citazione è dal paragrafo su Azzate (actiacum oppidum). Il Castiglioni, volendo
provare che un tempo Azzate era più grande e più importante, immagina che
Buguggiate (Gubugiacus pagus) significhi “Burgum Actiaci” (Borgo di Azzate) e
Cazzago (Cactiacum villula) “Castrum Actiaci” (Castro di Azzate): che è un
simpatico modo di sostenere le proprie tesi e anche di fare toponomastica.
Dopo di che l’autore
passa alla “familia Bossiorum adhuc hac in urbe florens” (i Bossi erano signori
di Azzate) e aggiunge: “In castro Actiati plurima antiquitatis monumenta satis
insignia visuntur sed (…) interpretationem non admittunt” (cioè sono
illeggibili). Mi sembra pacifico che il Castiglioni si riferisca ad Azzate,
anche se egli stesso ha ingarbugliato la matassa chiamando Cazzago “Castrum
Actiaci”; e forse al Giampaolo è sfuggito che, lasciata la villula di
Cazzago, il discorso era ritornato all’oppidum di Azzate e ai suoi molti
e insigni “antiquitatis monumenta”.
Mi chiedo, a questo
punto, quanti saranno mai gli strafalcioni disseminati nelle cose che vado
scrivendo: e mi farebbe senz’altro piacere, per amore della verità, se le pulci
qualcuno le facesse a me. Potrei anzi chiederlo a un amico e collega, che ormai
ne ha fatto una professione.
Più seriamente e per
quanto sia un punto acquisito, direi che la rivisitazione del lago secondo
Giampaolo conferma la necessità di confrontare e di integrare le notizie
contenute nei documenti e nei libri con quelle che si possono leggere nelle
cose o che sono ancora vive nelle pieghe dell’oralità.
(Estratto da Lombardia
oggi, 7 settembre 1997).
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