Sei citazioni selezionate da un fondo d’archivio non ancora
molto noto
(trascrizione di Angelo Barbieri):
Archivio di Stato di Milano, Acque parte antica.
N. 275 – Lago di Gavirate.
Gride sulla pesca con i rialoni nel Lago di Gavirate.
- … per le terre lacuali del Lago della Valle di Bogyo detto di Gavirà.
- … concesseni alli nobilli della valle Boggijo…
- … jl lago di la valle bogijo ditto di Gavira…
- Havendo i nobili della val Bodio supplicato …
- … quelli della Val Bodio di poter’ del Podestà di Trebbia et quelli dela
pieve di Trebbia et luoghi circonvicini
verso la Riviera di S.ta Maria al
Monte in poter’ del Podestà di val Bodio.
Crida sopra il pescare sul Lago
di Gavirà ad istanza delli nobili dela Val
Bodio.
- … consignadoli nele mani del Podestà di Bodio inimico deli supplicanti.
Per i non archivisti, il gAzzatino della Val Bossa è la
prova lampante che esiste veramente una valle con tale nome. Ma un conto è
ritenere che la Val Bossa abbia dato il nome al gAzzatino, un altro che il
gAzzatino abbia inventato la Val Bossa.
Noto subito la smorfia di disgusto degli addetti ai lavori.
Calma. Le due affermazioni sono entrambe vere sia pure in
modo diverso: interrogate le persone del circondario che incontrate e chiedete
loro: “Avete mai sentito parlare della Val Bossa?”. Molti risponderanno di sì,
ma solo perché a casa loro ricevono da circa vent’anni un giornale con questo
nome. Difficile però che sappiano con precisione dove si estende la Val Bossa.
Quanti poi sanno che nei più antichi documenti quella che
noi chiamiamo Val Bossa compare come Val Bodio, o Bogio, o Bozo?
Certamente lo sa Giancarlo Vettore e i suoi eletti
frequentatori. Non molti di più.
Ecco perché credo che questo giornale sia uni dei più importanti
fattori della rinascita del toponimo Val Bossa. E anche della necessità attuale
di esaminare tutta la questione con metodo storico critico.
L’approccio storico alla realtà locale è l’esatta contrario
di quello delle guide turistiche in commercio (ne esisterà pure qualcuna sulla
nostra valle), che vogliono spiegare a tutti in modo indubitabile tutto ciò che
si deve conoscere di una certa località. E anche di più.
Lo storico invece parte col suo lavoro dubitando di tutto,
persino dell’esistenza dell’oggetto di cui si occupa. O meglio, l’oggetto della
ricerca non esiste prima che la ricerca gli abbia conferito i suoi connotati,
che non coincidono necessariamente con quelli che il senso comune gli
attribuisce. In ogni caso l’oggetto della ricerca non è mai dato una volta per
tutte, ma si trasforma nel tempo insieme al progredire della ricerca.
Quando lo storico deve trattare della Val Bossa è costretto
a chiedersi preliminarmente a che cosa corrisponde nei documenti ciò che
comunemente indichiamo con tale nome. Egli potrebbe scoprire, paradossalmente,
che la cosiddetta Val Bossa non è altro che il gadget di un motoraduno
nazionale che si è ripetutamente tenuto ad Azzate a partire dal 1969 (non me ne
voglia il Vettore), oppure il marchio di una testata giornalistica che ha
l’antichità di quattro lustri (come appunto il gAzzatino).
Se poi fosse veramente così, non ci sarebbe proprio niente
da stupirsi, perché si tratterebbe del fenomeno assai noto della “invenzione
della tradizione”. La ricerca affannosa di una identità locale si esprimerebbe
con la consueta creazione di miti, tanto proiettati nel passato quanto vicini
al tempo presente.
Niente paura. Per la Val Bossa non è così. Non è affatto
un’invenzione fra le altre il cartello con scritto “Strada della Val Bossa”,
insieme a quelli che da qualche anno la provincia di Varese ha disseminato in
tutte le strade di sua competenza. Basta solo consultare nell’Archivio del
Comune di Azzate la delibera del 1791, che approva la costruzione della strada
della Val Bossa, che va da Capolago a Bodio. Se non erro, è stato proprio il
Vettore a segnalarlo al compianto Giancarlo Peregalli, e ancor prima a
pubblicarlo sul numero unico del motoraduno del 1986.
Avrete compreso che a questo punto ho trovato un
interlocutore nella ricerca, Anzi due, perché del feudo della Valbossa in età
moderna si è occupato anche Egidio Gianazza in Profilo storico di Gazzada Schianno (1993). Devo poi segnalare
anche un gustoso articolo di Paolo Magni sulle colonne di questo giornale (n.
195 settembre/ottobre 2001) dal titolo eloquente Le necessità del 2000 porteranno alla fusione dei comuni? Val Bossa
Città del futuro.
A questo punto non posso più inventare l’acqua calda, ma
devo tener conto di quello che è stato scritto prima di me (la storiografia),
ed eventualmente aggiungere anch’io qualche altra conoscenza.
Attenzione però: il contributo che uno storico aggiunge agli
altri non è un mattoncino di un disegno già completo da qualche parte, quanto
piuttosto la proposta di un nuovo disegno in cui ricollocare al loro posto
tutti i vari mattoncini.
Partiamo pure dal nome: Val Bodio/Val Bossa.
Il vettore ci rimanda al diploma del 28 settembre 1717, con
il quale il Governatore della Lombardia concedeva che la Val Bodia si chiamasse
da allora in poi Val Bossa (erano i Bossi di Azzate che glielo chiedevano pro
domo loro). In base a ciò, è inoppugnabile affermare che il nome più antico era
Bodia o meglio Bodio, mentre Bossa è una novità, voluta dalla famiglia Bossi
che nel 1538, ma anche assai prima, deteneva il feudo in questione. Come si
vedrà, nel 1538 i Bossi furono costretti a comprare il feudo, sborsando 2000
lire a favore della Camera milanese, assoggettandosi in tal modo alle direttive
di bilancio dello stato di Carlo V.
La data del 1538, dunque segna l’inizio non del feudo della
Val Bossa, ma l’inizio della sua travagliata storia moderna, tutta intessuta di
mediazioni fra il potere statale e quello feudale.
La consuetudine era che i nobili chiamassero con il loro
nome la terra su cui erano signori: nel caso nostro si trattava di fare una
piccola modifica, da Bodia a Bossia, che quasi poteva passare inosservata. Poi
c’era anche il fatto che un paese nel circondario si chiamava Bodio o Bogio,
esattamente come la valle.
A proposito di valle non si può certo affermare che la
nostra sia simile in tutto e per tutto ad una valle montana, ma ugualmente,
come qualsiasi altra, è una bassura, una fossa, un avallamento affiancato da
alture da un’altra parte. Per rendersene conto, fermiamoci sedendo e mirando, quando arriviamo in cima alla Maccana: a valle
si apre uno spettacolo che non è esagerato definire sublime.
Anche un valbossiano incallito si trasforma per l’occasione
in un turista giapponese a bocca aperta.
Una meraviglia; fateci caso. La campagna degradante si
trasforma in una specie di anfiteatro che guarda in lontananza verso un lago
incantato, che riflette i colori dei colli e del cielo. Questo lago è il cuore
della Val Bodia.
Sui documenti citati all’inizio, alla metà del Cinquecento,
i feudatari di Azzate lo hanno chiamato Lago
della Valle di Bogyo detto di Guaivà, che mi sembra il toponimo
storicamente più corretto per quello che incivilmente ci ostiniamo a chiamare
lago di Varese. Niente da fare: per me deve essere rinominato il lago della Valle di Bogio (chissà se
qualcuno mi dà retta in alto loco?).
Questa denominazione di forte sapore dialettale veniva
fornita ai Magistrati delle Entrate di Milano dai nobili della valle, e cioè
dai feudatari di Azzate, che rivendicarono vibratamente i loro tradizionali
diritti di pescare e far pescare, libere
ac quocumque tempore omne genus piscium (ma loro preferivano tradurlo in
vernacolo), con una supplica il cui valore linguistico consiste nella metodica
storpiatura e rozzezza lessicale. E’ per noi una garanzia che i signori di
Azzate chiamavano le cose con il loro nome, e non con quelli che accarezzavano
le orecchie latine dei Magistrati delle Entrate Camerali.
Quello infatti era il lago che i feudatari di Azzate
condividevano con quelli di Gavirate dall’altra parte. I Bossi ad Azzate ed i
Besozzi a Gavirate, con relative preture: questa e la geografia istituzionale
del lago.
I Bossi di Azzate appellavano la loro parte di lago col nome
del feudo di cui facevano parte i luoghi che confinavano esso, e non certo perché
uno di questi luoghi si chiamasse Bodio o Bodio.
Per chi sa il dialetto, “bogio” suona come una maldestra
italianizzazione di “buco”.
Ancora oggi nella valli svizzere i valligiani li chiamano
“boggesi”, senza che Bodio centri assolutamente niente. C’è la bogia che è la parte di sotto a valle e
la motta che è quella si dopra a
monte. Il bello è che, trasferiti nell’ambito socio politico, i due nomi
indicano una disuguaglianza cetuale, la parte alta, cioè l’aristocrazia, e la
parte basse, cioè il popolo. Nella Valle Bodia c’è il popolo, nella motta del
castello c’è la nobiltà.
E anche: a Bodio i contadini, a Lomnago i signori. Solo in
quest’ultimo senso Bodio si ricollega alla Val Bodia: cioè per il fatto che si
chiamano con lo stesso nome, perché indicano entrambi la parte bassa. Così
almeno appare Bodio ad un signore che dimora a Lomnago: un bogio, appunto.
Quando quindi diciamo “Val Bogia”, facciamo una ridondanza,
così come se aggiungessimo la parola “valle” a dei toponimi che già la
contengono, come Valletta o Vallaccia, dato che “bogia” significa valle. Solo
per quelli che non lo sanno, o che se ne sono dimenticati, diciamo che la Bogia
è una valle.
Quando poi sul documento compare “il podestà di Bodio”, non
siano sicuri se il podestà era a Bodio, oppure era quello della valle, che,
come sappiamo risiedeva ad Azzate. Noi propendiamo per quello della valle, a
costo di inimicarci alcuni vanagloriosi amici bodiesi.
Ci sembra tutta una ricerca da fare per confermare una tesi,
che in verità non è affatto originale, e cioè che la Val Bogia sia stata parte
di un sistema di fortificazioni che servì nell’Alto medioevo come postazione di
guardia e controllo dei flussi migratori armati. L’origine militare e feudale
del toponimo sarebbe in tal caso accertata sui documenti. Ed è questa origine
che potrebbe spiegare gran parte degli eventi successivi, i quali, considerati
in se stessi, non si riducono ad altro che a pregevoli curiosità antiquarie. E’
una ricerca tutta ancora da fare, non nel senso che nessuno se ne sia ancora
occupato, ma per il fatto che si dovrebbe raccogliere in modo sistematico un
materiale d’archivio che è stato dissepolto solo in parte, e che deve essere
acquisito e pubblicato con una rigorosa metodologia storiografica.
Dovremmo partire dai resti di costruzioni del periodo romano
o tardo romano, come pare esistano ad Azzate. La parola in casi simili va data
agli archeologi, anche se, a volte, hanno poco di storicamente rilevante da
suggerire.
Gli storici devono accontentarsi, per ora, di qualche sporadica
citazione, come quella riportata dal Vettore, del 1160, “quando i Milanesi
distrussero l’antico castello fortificato sopra il monte Maggiore sopra
Lomnago, che era cinto da una doppia cerchia di mura ed aveva otto torri e
sembra che fosse la maggiore fortificazione della Val Bodia”. Era praticamente
il corridoio di ingresso alla valle, in un’epoca in cui la viabilità seguiva
percorsi alti, lontani da paludi e inondazioni (la strada della valle fu ideata
molti secoli più tardi).
Niente di nuovo sotto il sole: le fortificazioni della
Bogia, che nell’Alto medioevo servivano come difesa della valle, si
trasformarono in seguito nei laudari che ospitavano i nemici del comune di
Milano. Non furono i barbari, ma i Milanesi a distruggere la maggior parte dei castelli
e delle fortificazioni della nostra zona; e poterono farlo in un’epoca in cui i
nemici esterni se ne stavano tranquilli nei loro confini e i nemici interni
difendevano le loro autonomie nei confronti della grande città “imperialista”
all’interno delle antiche fortificazioni. Sarebbe una storia avvincente quella
che ci racconta la difesa strenua dei vecchi feudatari, alla Guido da Velate,
tanto per intenderci, nei confronti dei bottegai milanesi e dai fanatici
riformatori. Un romanzo più che una storia.
Ma qui il vanaglorioso bodiese potrebbe ritornare alla
carica, perché il più importante castello della valle si trovava proprio a casa
sua, e quindi Val Bodio, proprio come il medesimo luogo a cui appartiene.
Quando si discute di parole, non è mai detta l’ultima
parola. La cosa più corretta in questi casi è sospendere subito il giudizio, a
scanso di qualche faida di comune.
La citazione del 1160 è una delle tante dell’Antiquario dell’oblato Francesco
Bombognini, il quale,come molti eruditi del suo tempo (fine Settecento), aveva
a disposizione varie pergamene oggi scomparse, che saccheggiava allegramente
senza preoccuparsi non dico di farne una trascrizione, ma nemmeno di citarne la
provenienza. Per questo tutte queste belle notizie, compresa la nostra,sono un
po’ campate per aria e quasi per niente utilizzabili.
Per fare una storia non si può ripetere, accettando per
buono, ciò che altri hanno detto o scritto; ma è assolutamente necessario
ricorrere ad un esame rigoroso di tutte le fonti.
Niente impedirebbe di trovare in futuro altre citazioni in
qualche pergamena, ma non c’è da farsi molte illusioni. Se per il XII secolo le
citazioni sono due, per i tre secoli precedenti sono 0,5, e ancora prima zero.
Se poi l’archeologia non ha niente da dire, allora bisogna tacere: sarebbe una
vera ingiustizia, perché le cose che meglio conosciamo della Val Bossa sono
assai più recenti, e poco ci dicono del suo passato.
Sarebbe perciò un grave errore credere che la storia della
valle coincida con le vicende di cui siano più a conoscenza. Il voluminoso
plico di carte dell’Archivio di Stato di Milano sulla vendita del feudo nel
1538, e sulle pratiche successive fino a Settecento inoltrato, ampiamente
divulgate dal Gianazza, sono il più cospicuo materiale documentario di cui
disponiamo attualmente, ma solamente perché lo Stato di Milano volle archiviare
con scrupolo tutti gli atti relativi ai feudi cosiddetti camerali, tra cui
anche la nostra Val Bossia, o meglio Bodia, anticamente detenuta dai signori
Bossi di Azzate.
Lo stato moderno milanese prende possesso, cioè fa
l’apprensione di una giurisdizione, fino ad allora esercitata a livello
periferico, che comprendeva in primo luogo la riscossione della tassa sul sale,
per poi pubblicare un bando che la assegna al migliore acquirente. E’ logico
perciò che si facciano avanti i soliti Bossi, che conducono le trattative con
un prestanome (Agostino D’Adda), e anche con un profondo risentimento
nell’animo nei confronti di un potere in cui non possono più identificarsi. Un
po’ come se lo stati ci costringesse a ricomprare dei nostri terreni, per il
fatto, formalmente ineccepibile, che
anticamente erano stati assegnati alla nostra famiglia solo a titolo
beneficiario (e quindi senza l’ereditarietà).
Quello stesso stato però mescola le carte in tavola, dato
che ricorre alla purezza della tradizione, per ottenere vantaggi finanziari
completamente ad essa estranei. Un tempo i Bossi guerrieri difendevano la Bogia
dalle incursioni di assatanati stranieri, mentre ora dovevano forzatamente contribuire
al pareggio di un bilancio che era deciso in Francia o in Spagna.
Inutile che noi desumiamo la geografia della valle sulla
base dei luoghi presenti nei successivi atti notarili camerali: Azzate,
Daverio, Galliate, Brunello, Crosio, Gazzada e parte di Bodio. Perché poi
“parte di Bodio”? Era il caso di farlo a pezzi? Nell’elenco mancano anche
alcuni luoghi (vedi Cazzago, Inarzo, Casale Litta), che pure sono comunemente
ritenuti parte della valle, così come si nota la vistosa presenza di Gazzada,
che invece si ritiene estranea.
I criteri con cui sono stati tracciati i confini non seguono
evidentemente alcuna logica fisico-morfologica, e tanto meno si basano su una
qualche presenta appartenenza politico culturale.
Mentre in un tempo molto passato il territorio infeudato
seguiva una disposizione tipicamente strategico militare, nel 1538, e in
seguito, questa necessità viene sostituita da ragioni puramente contrattuali e
comunque del tutto arbitrarie.
Il feudo non è un’entità territoriale, ma un complesso di
giurisdizioni che gravano sui vari fuochi, cioè nuclei familiari, piuttosto che
su un’area geografica definita. L’elenco dei paesi, che abbiamo riportato, non
ha dunque alcuna patente di antichità, ma è solo un accordo del tutto
provvisorio, con cui compratore e venditore pongono fine alla loro trattativa.
La vendita del 1538 a favore del senatore Egidio Bossi dà
inizio alla parabola discendente della Val Bossa. L’ultimo discendente “capace”
(di intendere e volere) del senatore Egidio è Francesco Bossi che muore nel
1701. Anche nelle migliori famiglie ad un certo punto si inceppa il meccanismo
biogenetico, soprattutto se manca un provvidenziale imbastardimento.
In tutte queste vacanze dinastiche il fisco milanese gioca
le sue solite carte: già nel 1652 alla morte di Marco Antonio Bossi, aveva
tentato di impugnare la vendita del 1538, dichiarandola pregiudizievole ai
superiori interessi dello Stato. In pratica voleva rastrellare ancora più
soldi, 4200 lire pere la precisione, versati da Giambattista Bossi, a nome dei
consorti. Quando questi avessero pagato la loro parte, il feudo poteva essere
ripartito nei vari rami della famiglia.
Nel 1706, dopo la morte dell’ultimo erede del senatore
Egidio, Fabrizio Benigno Bossi, erede testamentario di Francesco, era quasi
arrivato ad un accordo con il Magistrato delle Entrate Straordinarie, ma il suo
possesso del feudo fu annullato da un decreto dell’imperatore Carlo VI. Il suo
successivo ricorso ebbe felice esito nel 1717, quando divenne signore di un
feudo che si chiamò ufficialmente da allora Val Bossia, dietro solenne
giuramento di fedeltà vassallatica all’imperatore asburgico e il pagamento di
430 lire.
Dalla metà del Seicento il feudo entra in una fase di
disgregazione sia geografica che dinastica.
Nel 1652 i feudatari di Azzate perdono la signoria sulle
acque del lago, comprata dal conte vescovo Francesco Biglia, e nel 1657 perdono
la signoria sulle terre di Azzate, che non fa più parte della Bodia, ma forma
un feudo a sé con Dobbiate. Un tempo i Bossi di Azzate si vantavano di essere
signori delle terre e delle acque, ma ormai sfuggono dal loro dominio sia le
une che le altre, a favore di certi nuovi e di famiglie del patriziato
milanese.
Azzate passò nelle mani di svariati personaggi assolutamente
privi di qualunque continuità ereditaria. Come Giacomo Maria Alfieri (1659),
Nicola Torrioni (1712), Giulio Antonio Bianconi (1737), Giovanni Paolo Mollo
(1751).
Non c’erano più illustri famiglie di mezzo, ma singoli
affaristi, se non addirittura avventurieri, come Il Bianconi, che perse il
feudo, dopo che fu condannato alla pena capitale. O forse in pieno Settecento
non si consentiva ai feudatari di esercitare le violenze e le illegalità, che
erano considerate del tutto legittime all’epoca gloriosa dei Bossi. Anche anticamente,
del resto, il minimo che poteva accadere ad un feudatario fuori legge era
quello di essere bandito, e cioè di poter essere ucciso da chiunque incontrasse
per la strada.
I Bossi di Azzate, nel frattempo, sparpagliati in rami
sempre più intricati e secchi, conservavano i resti di quello che un tempo era
stato il feudo, ormai privo di cervello e di cuore. L Val Bodia senza Azzate è
come la Francia senza Parigi (perdonatemi il paragone); senza il lago della
valle è come Parigi senza la Senna. Un organismo senza cuore e cervello è solo
apparentemente vivo, e anzi, è prossimo alla necrosi.
Il poeta Dante scrisse che “rade volte scende per li rami la
virtù dei padri”, ma sarebbe ingiusto attribuire la disgregazione del feudo
all’inettitudine di una razza troppo pura. La Val Bossa seguiva il destino di
molte altre longeve istituzioni feudali, minate alla radice da una nuova
concezione della pubblica amministrazione e soprattutto di una nuova
distribuzione della ricchezza mobiliare e fondiaria.
E tuttavia nel catasto di Maria Teresa del 1722 compare sui
vari cartigli, come se niente fosse, “territorio di Azzate detto della Val
Bossia, pieve di Varese, ducato di Milano”. Questo catasto, in effetti, non è
un profetico progetto, ma una bella fotografia retrospettiva, con il grande
merito di conservare, almeno sulla carta, una storia antichissima in procinto
di voltare pagina. Cosa che avvenne con le riforme napoleoniche (queste sì
risolte al futuro), che, per la storiografia liberale, diedero la picconata
definitiva ai residui feudali sopravvissuti all’epoca del dispotismo.
Certo, di Val Bossa si parlò ancora nella delibera del 1791
del Comune di Azzate, a proposito dell’omonima strada costiera, che oggi
leggiamo sui cartelli stradali, ma l’oblio scese rapidamente sia sulla cosa che
sul nome.
La Bossa è un’istituzione essenzialmente feudale, con
caratteristiche inconfondibili, che resistettero vari secoli,anche quando i
Bossi non ebbero più dalla loro parte l’autorità e il carisma.
Lo stato liberale moderno, visceralmente antifeudale, doveva
sospingere il feudo nel solaio degli oggetti storicamente inservibili.
La persistenza di istituzioni storicamente datate e
sovrapposte le une alle altre è una delle caratteristiche dell’antico regime.
Niente di ciò che ha avuto vigore giuridico viene cancellato in un sistema che
vanta una inestricabile giungla di leggi, istituzioni e giurisdizioni: tutte
compresenti, anche se molto spesso in contrasto fra loro. Il feudo della Val
Bossa resiste ancora per un tempo indefinito, pur avendo perso qualunque
importanza strategica e anche, ultimamente, qualunque coerenza territoriale.
Quando la riforma amministrativa, a partire dal primo Ottocento, farà piazza
pulita di tutti i ferri vecchi delle arretrate aristocrazie, anche la Val Bossa
scomparirà senza far rumore e dar fastidio ad alcuno, come se svaporasse
nell’aria a mo’ di vescica scoppiata o vescia stravalgata.
E’ del tutto comprensibile quindi il fatto che la rinascita
della Val Bossa degli ultimi trentacinque anni coincida con quella che viene
definita crisi della modernità, con il suo corollario del superamento del
centralismo dello stato-nazione. La creazione del villaggio globale ha spinto
molti orfani delle comunità a ricercare le proprie radici in un terreno
anteriore al nazionalismo otto novecentesco, dando in tal modo vita ad un
inedito municipalismo che recupera il medioevo in chiave postmoderna.
Solo per questo stiamo riutilizzando molti oggetti in disuso
finiti nel solaio della storia.
Recuperiamo fatti e personaggi sconosciuti o dimenticati,
con la stessa passione di certe donne che riesumano delle bellissime camicie
dalle cassapanche delle loro bisnonne, si direbbe con grande intuito, visto che
nessuno oggi saprebbe ricamare con tanta finezza. Non è più la nazione a soddisfare
il desiderio di identità, e nemmeno l’antichissima comunità di villaggio,
irrimediabilmente disintegrata da nuovi assetti territoriali. Oggi si
“inventano” comunità intermedie, prive di certi confini e nemmeno segnate sulle
carte geografiche; tanto più funzionali al meccanismo dell’identità quanto meno
compromesse di un recente passato politico e amministrativo.
Si pensi che cosa è stata in questi ultimi anni la
riscoperta dell’Insubria, alla quale sono stati dedicati saggi cartografici e
storiografici di notevole mole, inversamente proporzionali al suo peso storico.
A mio giudizio, anche la Val Bossa è una di queste comunità intermedie, che,
indipendentemente dalle loro credenziali, servono come meccanismi di
identificazione collettiva.
C’è chi, addirittura, auspica la formazione di una
federazione di comuni della Val Bossa, che possa rispondere alle nuove sfide
logistiche e amministrative, alle quali i piccoli comuni sono singolarmente
incapaci di rispondere. L’articolo di Paolo Magni ce lo ricorda senza mezzi
termini.
Il suo “preambolo storico” mira principalmente a costruire
il futuro unitario dei nostri paesi: “viene spontaneo pensare che tutte queste
comunità, radicate nella sponda sud del lago di Varese, collegate da strade
immerse nel verde dei boschi, costituiscano in realtà una sola, bella cittadina
che conta oltre 20.000 abitanti”.
Il bello è che molti di noi hanno sviluppato un senso di
appartenenza al territorio, che mancava del tutto, quando nel passato remoto la
Val Bossa esisteva veramente come feudo. Più che di appartenenza, allora si
trattava di dispotica costrizione alla soggezione, fatta di prelievi forzati e
corvée di vario tipo, che gravavano sulle popolazioni, o meglio sui fuochi che
erano convenzionalmente compresi nel feudo. Forse gli unici a sentire un senso
genuino di appartenenza alla Bogia erano i Bossi di tanti secoli passati, che,
a furia di comandare, riscuotere pedaggi e gabelle, amministrare la giustizia,
potevano dire con qualche ragione: “La Val Bogia siano noi. Anzi, è giusto che
da ora in avanti si chiami Val Bossia, cioè la Valle dei Bossi”.
Nel Medioevo di casa nostra i Bossi guerrieri ci difendevano
dai veri o presunti pericoli di popoli transumanti, mentre oggi ci difendono
dalla massificazione e dallo sradicamento altrettanto distruttivi dell’ambiente
e della storia locale. Anche oggi le nostre comunità sono prese da una psicosi
collettiva suscitata dalla migrazione degli stranieri “infedeli”, e cercano un
Bossi contemporaneo (qualunque riferimento a persone è del tutto casuale), che
le difenda sul loro proprio territorio.
Quando lassù dalla Maccana scorgiamo l’incanto del lago
della Bogia, ce ne sentiamo anche eticamente responsabili, come se dovessimo
salvare dallo scempio e dall’inquinamento una terra che ci appartiene. Siamo
noi oggi a dover difendere le memorie storico artistiche che i Bossi ci hanno
consegnato dopo la loro s confitta, e i valori naturalistici e ambientali,
aggrediti da nuove schiere di affaristi e speculatori privi di scrupoli.
Memoria storica e cura dell’ambiente possono oggi
ricostruire nuovi profondi legami fra popolazioni e territorio della futura Val
Bossa.
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