venerdì 13 febbraio 2015

IL PITTORE GIUSEPPE BOSSI

Giuseppe Bossi nasce a Busto Arsizio nella Parrocchia di S. Giovanni in una casa di Santa Maria in Valle, come ricorda ancora oggi un’epigrafe, l’11 agosto 1777 da un’antica famiglia bustese.
Egli appartiene al “felice momento lombardo del Foscolo, del Parini, del Manzoni e del Porta”.
Saggiatore, pensatore, poeta ma soprattutto pittore.
Tra i disegni conservati spiccano Bacco e Arianna, La furia di Edipo, Nove piccoli schizzi di vario soggetto, Il seppellimento delle ceneri di Temistocle in terra Attica (1810/15).
Tra i dipinti ad olio un intenso Ritratto virile (1810) e Il sacrificio di Lucrezia romana.

                                        
Giuseppe Bossi, autoritratto.
Famiglia tra le più antiche ed illustri della città. Esistono numerosi rami che probabilmente appartengono tutti ad uno stesso ceppo.
Giovanni Alberto nato in Busto nella seconda metà del XVI secolo, pregiato autore di componimenti poetici latini di cui si conservano presso la Biblioteca Ambrosiana, un manoscritto che contiene quattro libri in lode di S. Michele, una raccolta di inni sacri e di altri carmi diretti ai suoi amici Bustesi, un epitalamio (canto rivolto a Giovanni Galeazzo sesto duca di Milano, nella ricorrenza delle nozze con Isabella), un’ode al primo conte di Busto, un carme sulla bellezza del paesaggio circostante e sulla architettura della Villa di Cusago eretta da Ludovico il Moro e una lettera a Basilio monaco di Chiaravalle trattante argomenti teologici-morali. Scrisse infine un’operetta sulla grammatica stampata nel 1609 a Venezia.
Alcuni tra i Bossi si dedicarono al commercio della seta e del cotone ed altri al lavoro della bambagia. In tale attività si distinse Pietro Francesco che, nel 1776 era il primo tra i negozianti perché pagava la tassa di lire 175, la più elevata pagata dai commercianti.
L’esponente più illustre di questa famiglia fu Giuseppe Bossi nato nel 1777, stimato pittore e poeta paragonato al Parini. A 23 anni venne nominato segretario dell’Accademia di Belle Arti di Brera, quindi professore della scuola teorica di pittura. Nella propria abitazione accolse i giovani che apprezzavano l’arte. Le sue opere sono numerose e molto stimate.
Le più conosciute sono la copia del Cenacolo di Leonardo Da Vinci e il quadro dell’Edipo. I cartoni della scuola del Petrarca e della pace di Costanza sono squisiti lavori di disegno, nel quale era molto più abile che nel colore.

Giuseppe Bossi, copia dal vero dell'Ultima cena di Leonardo Da Vinci.



Scrisse quattro libri intorno alla vita e alle opere dell’autore del "Cenacolo", il "discorso sull’utilità politica delle arti del disegno", un’epistola a Giuseppe Zanoia e le "vite dei pittori milanesi". Morì nel 1815 alla giovane età di 38 anni. Il Canova gli scolpì un’immagine, il Berchet lo celebrò in una epistola a Felice Bellotti e il Porta lo pianse in un sonetto dal quale traspirava il vivo ed il profondo cordoglio dell’amico.

                                

                                                                                                 IN QUESTA CASA
                                                                                INSEGNO' PITTURA VISSE  E MORI'
                                                                                         
GIUSEPPE BOSSI

                                                                           ARTISTA POETA LETTERATO INSIGNE
                                                                             DALLE OPERE DEI GRANDI MAESTRI
                                                                                  ATTINSE PRECETTI ED ESEMPI
                                                              TRASSE IMPULSO A NUOVE PREGIATE CREAZIONI
                                                                     NACQUE A BUSTO ARSIZIO IL 11-VIII-1777
                                                                                                 MORI' IL 9-XI-1815


La segreteria di Giuseppe Bossi (1801-1807)

Al rientro a Milano di Napoleone dopo il breve periodo austro-russo, nel giugno del 1800, la situazione è molto cambiata. Anzitutto il gusto neoclassico, come si accennava all'inizio, è ormai orientato verso l'antica Grecia con la tendenza ad un progressivo aumento dell'enfasi retorica fino al culmine rappresentato dallo Stile Impero. Partito il Piermarini, l'architettura a Milano è nelle mani del Cagnola (Arco delle Pace) e del Canonica (Arena), per la scultura ci si riferisce a Canova (statua di Napoleone) e per la pittura all'Appiani (Fasti di Napoleone nella Sala delle Cariatidi). Nessuno di loro insegna a Brera, dove troviamo ancora il Franchi e il Traballesi, artisti ormai antiquati rispetto alle nuove tendenze. La cattedra di architettura è occupata da Giacomo Albertolli (fratello di Giocondo) aiutato da Carlo Amati, che resterà poi indiscusso maestro fino alla metà del secolo.
La vera novità di questa prima fase dell'epoca napoleonica è rappresentata dall'arrivo di un giovane quasi sconosciuto a Milano: Giuseppe Bossi. Nato a Busto Arsizio nel 1777, dai 15 ai 18 anni aveva studiato pittura a Brera, poi era andato a Roma dove aveva frequentato Antonio Canova conquistandosi la sua stima e amicizia. Nel 1801 ritorna a Milano e ottiene grandi riconoscimenti con il grande quadro (purtroppo distrutto nel 1943) intitolato "Riconoscenza della Cisalpina a Napoleone". La sicura fede napoleonica, l'amicizia di Canova, il carattere intraprendente del giovane convincono le autorità a nominarlo nuovo segretario dell'Accademia al posto del Bianconi, ormai anziano e considerato di tendenze antifrancesi. Giuseppe Bossi accetta il posto e divide il proprio stipendio con l'ex segretario per i pochi mesi nei quali questo è ancora in vita (il Bianconi muore il 15 agosto 1802).
Grazie al Bossi, l'Accademia vive questi anni come un periodo di grande fervore di iniziative. Alla fine del 1801 Bossi va ai Comizi di Lione dove viene elaborata la struttura della nuova Repubblica Italiana, preludio al prossimo Regno d'Italia. Da Lione va a Parigi dove si procura numerosi gessi per l'Accademia oltre a libri e incisioni per la futura biblioteca (fino ad allora c'era soltanto la biblioteca personale del Bianconi). Durante questo soggiorno il Bossi acquista anche per sé il Cristo morto del Mantegna, che i suoi eredi lasceranno alla Pinacoteca nel 1824.
                                
Andrea Mantegna, Compianto sul Cristo morto, 1490, Milano, Pinacoteca di Brera.
Tornato da Parigi può quindi creare la Biblioteca dell'Accademia (i rapporti con la Biblioteca Nazionale non sono mai stati buoni!) e iniziare la lunga guerra per la salvaguardia del patrimonio artistico che, con alterne vicende, viene ancora oggi combattuta dalla Soprintendenza di Brera. Una delle prima battaglie del Bossi è quella per l'acquisto dello Sposalizio di Raffaello che si troverà in quegli anni (1804-6) sulla via del mercato antiquario. Un'altra battaglia (perduta) riguarda la demolizione dell'arco romano di Castelvecchio a Verona.
                                            
Raffaello Sanzio, Sposalizio della Vergine, 1504,
Milano, Pinacoteca di Brera.


L'anno 1803 segna la seconda nascita dell'Accademia. L'1 settembre vengono approvati gli Statuti che assegnano il governo dell'istituto a un Corpo Accademico di 30 membri tra docenti e artisti esterni di chiara fama. Questo consiglio si riunisce una volta al mese eleggendo di volta in volta il proprio presidente (ci sono dunque ancora residui di democrazia diretta di stampo giacobino); l'unica carica costante è quella del segretario. Le materie di insegnamento vengono ampliate in un programma più ampio di formazione. Sono previste scuole di architettura, pittura, scultura, prospettiva, ornato, elementi di figura, incisione e anatomia. Elementi di figura, prospettiva e anatomia sono aggiunte per fornire una più completa preparazione di base a tutti gli allievi. Gli insegnanti sono ancora gli stessi del 1776. Si è aggiunto Domenico Aspari per insegnare Elementi di figura. Rinnovata nello Statuto e nelle materie, comunque, l'Accademia viene riaperta ufficialmente il 25 ottobre come "Accademia Nazionale".
Oltre all'insegnamento, gli statuti prevedevano per l'Accademia un'altra importante attività, mirante a sprovincializzare la scuola e a farla conoscere in tutta Europa: i Premi. Erano previsti premi di prima classe destinati agli artisti europei che inviavano un loro elaborato rispondente ai quesiti elaborati dalla commissione. Premi di seconda classe per gli allievi delle Accademie. Tra il 1803 e il 1806 fervono i preparativi per il bando e la successiva esposizione dei premi. Oltre alle opere presentate dai concorrenti si pensa di allestire alcune sale con capolavori di pittura provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi in questi anni. Si iniziano a strappare gli affreschi da S. Maria della Pace, S. Marta, S. Maria di Brera (prima il Foppa, poi gli altri).
             
Tavole e tele dal Quattrocento al Settecento iniziano ad arrivare a Brera da Milano e da altre città del Regno d'Italia. Una commissione guidata dall'Appiani decide se devono andare in Francia, restare nella capitale Milano o essere smistate in altre città o Accademie per ragioni didattiche o di prestigio. I preparativi per l'esposizione decide di collocare queste opere al primo piano del cortile d'onore nelle sale situate lungo la via Brera e la piazzetta che erano utilizzate come aule dell'Accademia. Di fronte alle carenze di spazio si comincia a pensare ad un utilizzo della chiesa, dividendola in due piani.
                                   
Nel 1805, morto Giacomo Albertolli, la cattedra di architettura era passata allo Zanoja, mentre la cura del palazzo è assegnata a Pietro Gilardoni, che seguirà tutte le modifiche di Brera nei prossimi trent'anni. Il Gilardoni è incaricato di studiare la divisione della chiesa e la realizzazione dei saloni superiori da adibire ad esposizione. Il Bossi suggerisce di utilizzare la navata sud per creare un corridoio adibito a mostra di disegni. Il 1806 segna il culmine della carriera del Bossi all'Accademia, che pubblica in quest'anno le Notizie delle opere di disegno prima guida ragionata della futura Pinacoteca.
Il clima politico sta però rapidamente cambiando, la repubblica è diventata regno, Napoleone è diventato imperatore. Le istanze democratiche e giacobine dei primi tempi sono ormai apertamente condannate. Malgrado lo statuto, anche Brera deve adeguarsi al nuovo andamento delle cose e accettare un presidente dotato di piena autorità. Giuseppe Bossi non accetta la novità e dà immediatamente (gennaio 1807) le dimissioni, sostituito prontamente dall'accomodante Zanoja, che pochi anni dopo accetterà altrettanto prontamente di cantare gli elogi dei rientranti Asburgo. Da allora fino alla morte prematura (9 dicembre 1815), Giuseppe Bossi si dedicherà agli studi (soprattutto Leonardo e il Cenacolo), all'insegnamento nella scuola aperta nella sua casa di via S. Maria Valle e alla pittura. Celebri di quest'ultimo periodo della sua vita sono l'autoritratto di Brera e la Cameretta Portiana.
                                           
Napoleone Bonaparte nel cortile di Brera.


Dalla presentazione fatta in occasione della mostra allestita a Brera dall’11 giugno al 20 settembre 2009 dal titolo “Giuseppe Bossi. Ritratti e autoritratti di artisti” traiamo queste notizie:

“La raccolta di ritratti e autoritratti di artisti - per la prima volta compiutamente descritta dal segretario dell'Accademia di Brera e promotore della Pinacoteca Giuseppe Bossi nella sua Notizia delle opere di disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano, pubblicata nel 1806 - fu concepita, secondo la dichiarata intenzione del fondatore, quale stimolo e incentivo ad una ricognizione storica sugli antichi maestri della scuola milanese. Bossi la riteneva indispensabile anche e soprattutto in relazione all'attività didattica svolta nell'Accademia di Brera. Infatti alle effigi dei maestri antichi si affiancano alcuni ritratti e autoritratti dei "maestri di Brera" suoi contemporanei e colleghi. Come accade di consueto in Bossi, nella cui complessa personalità intellettuale si intrecciano componenti di illuminismo e di romanticismo, nell'impresa convivono strettamente passione civile, impegno didattico e scrupolo di ricerca storica.

                                                 

Precoce è la sfortuna critica e museografica occorsa alla raccolta di Bossi. Già nel catalogo della Pinacoteca di Brera del 1816 il "Gabinetto" non è più registrato come nucleo autonomo. Spesso dimenticati con funzione di arredo in depositi esterni presso uffici pubblici, e solo ultimamente divenuti oggetto di studio e catalogazione scientifica, i ritratti erano stati non di rado in passato vittime di confusioni attributive e iconografiche.
 Sono esposti 24 ritratti o autoritratti di artisti del Gabinetto bossiano e per una migliore contestualizzazione un Autoritratto di Giuseppe Bossi.
Sono stati appositamente restaurati per la mostra, grazie al contributo di Pirelli e con la direzione di Mariolina Olivari, dipinti di Pietro Francesco Gianoli, Salomone Adler e Giuseppe Nuvolone. Il Ritratto di giovane donna (Allegoria della musica?) di Simon Vouet è stato restaurato nel Laboratorio della Pinacoteca di Brera da Sara Scatragli”.

                                                       


Giuseppe Bossi. Il Gabinetto dei ritratti dei pittori (1806)

a cura di Simonetta Coppa e Mariolina Olivari

11 giugno – 20 settembre 2009

                

La raccolta di ritratti e autoritratti di artisti - per la prima volta compiutamente descritta dal segretario dell’Accademia di Brera e promotore della Pinacoteca Giuseppe Bossi nella sua Notizia delle opere di disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano, pubblicata nel 1806 - fu concepita, secondo la dichiarata intenzione del fondatore, quale stimolo e incentivo ad una ricognizione storica sugli antichi maestri della scuola milanese. Bossi la riteneva indispensabile anche e soprattutto in relazione all’attività didattica svolta nell’Accademia di Brera. Infatti alle effigi dei maestri antichi si affiancano alcuni ritratti e autoritratti dei “maestri di Brera” suoi contemporanei e colleghi. Come accade di consueto in Bossi, nella cui complessa personalità intellettuale si intrecciano componenti di illuminismo e di romanticismo, nell’impresa convivono strettamente passione civile, impegno didattico e scrupolo di ricerca storica. Alla luce di questo presupposto, si spiega la caratterizzazione prevalentemente lombarda della raccolta. Dei 34 ritratti o autoritratti che componevano il “Gabinetto” bossiano, ben 25, se ci si attiene alle attribuzioni e alle identificazioni iconografiche del fondatore - non sempre condivise dalla storiografia moderna - raffigurano maestri lombardi o loro familiari.
Precedente importante del gabinetto bossiano fu il “Museo milanese” di Francesco Antonio Albuzzi, segretario dell’Accademia di Brera prima di lui. Il “Museo Milanese”, datato 1775, era un album di 43 disegni al tratto raffiguranti “ritratti di pittori scultori e architetti milanesi”, accompagnati da indicazioni sulla collezione di appartenenza dei dipinti da cui erano stati “cavati” i disegni. Per una parte non indifferente si trattava di opere appartenenti a collezioni storiche lombarde (d’Adda, Litta, Arese, Trivulzio, Archinto); in misura maggiore erano presenti opere dell’Accademia Ambrosiana, titolare di una raccolta più antica ma per molti aspetti parallela di quella bossiana.
Precoce è la sfortuna critica e museografica occorsa alla raccolta di Bossi. Già nel catalogo della Pinacoteca di Brera del 1816 il “Gabinetto” non è più registrato come nucleo autonomo. Spesso dimenticati con funzione di arredo in depositi esterni presso uffici pubblici, e solo ultimamente divenuti oggetto di studio e catalogazione scientifica, i ritratti erano stati non di rado in passato vittime di confusioni attributive e iconografiche.

 La mostra è a cura di Simonetta Coppa e Mariolina Olivari; si deve l’allestimento all’architetto Corrado Anselmi.
Sono esposti 24 ritratti o autoritratti di artisti del Gabinetto bossiano e per una migliore contestualizzazione un Autoritratto di Giuseppe Bossi.
Sono stati appositamente restaurati per la mostra, grazie al contributo di Pirelli e con la direzione di Mariolina Olivari, dipinti di Pietro Francesco Gianoli, Salomone Adler e Giuseppe Nuvolone. Il Ritratto di giovane donna (Allegoria della musica ?) di Simon Vouet è stato restaurato nel Laboratorio della Pinacoteca di Brera da Sara Scatragli.

Il catalogo comprende saggi di Simonetta Coppa (Gli Accademici Ambrosiani, il Museo Milanese di Francesco Albuzzi, il “Gabinetto dei ritratti dei pittori” di Giuseppe Bossi. Raccolte iconografiche di artisti a Milano: tracce per una storia), di Francesca Valli (Giuseppe Bossi, segretario di Brera) e di Daniele Pescarmona su una seconda versione del celebre Ritratto della famiglia del pittore di Carlo Francesco Nuvolone, gemma del “Gabinetto” bossiano dallo studioso rintracciata presso l’Azienda Sanitaria Locale di Como (“Dei diversi Nuvolone”: una seconda versione del Ritratto di famiglia in concerto), la trascrizione del testo di Bossi sul “Gabinetto” edito nel 1806 entro la sua Notizia delle opere di disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano, infine le biografie degli artisti (autori e ritrattati) a cura di Eugenia Bianchi.

Tra i più significativi ritrovamenti avvenuti in occasione della catalogazione e della mostra, sono da segnalare l’autoritratto di Carlo Francesco Nuvolone con la famiglia, ritrovato da Daniele Pescarmona negli uffici dell’Asl di Como (si tratta della variante di bottega di una delle opere più note e discusse del pittore cremonese oggi a Brera).
          

Letterato e pittore riputatissimo, nato a Busto Arsizio l’11 agosto 1777, nella prima sua giovinezza trattò la poesia, poscia attese alle arti del disegno, ed in Roma stette 6 anni studiando le opere dei grandi maestri: provveduto di molto sapere, e di privato censo, raccolse una preziosa collezione di libri, di disegni, ed altre cose, che divenne meravigliosa a chiunque la vide, e fu stimata degna poi di aggiungere ornamento all’Accademia delle Belle Arti di Venezia.
Tornato in patria, lasciando in dubbio chiunque lo conosceva se in lui più fosse grande la scienza o l’arte, fu posto al governo dell’Accademia milanese, che molto incremento e decoro ebbe dalle sue infaticabili cure. Tornato appena da Roma aveva ottenuto il premio nel concorso per un gran quadro allegorico. Dato sesto alle cose dell’Accademia, volle tornare in Roma a fare altri studi sulle opere di Michelangelo, e quando si ridusse nuovamente a Milano, il viceré principe Eugenio, gli allogò un’opera che tornava in grande onore all’artista eletto non meno a che lo eleggeva: fu questa la copia del Cenacolo di Leonardo da Vinci, per essere poi trasportata in mosaico. Su quest’opera il Bossi fece dottissimi studi e li consegnò in un grosso volume pieno di peregrina erudizione e di sana critica. Tirati sempre dal naturale istinti dell’utile altrui, aperse la sua casa a scuola di pittura ammaestrandovi i giovani nella dottrina dell’arte, e nella maniera del comporre, parti certo le più sublimi e più degne; logorato però dall’assidue fatiche, morì quando l’età e la fama in lui meglio fiorivano, nel 1815, di soli anni 38.
Solenni esequie, un elogio funebre, un busto rizzatogli in Brera, furono gli onori debitamente resi a questo insigne artista.

(Estratto dal “Dizionario Biografico Universale).


Nato a Busto nel 1777, fu poeta in lingua e vernacolo, erudito, bibliofilo: qualche sua nota poesia ispirò famose strofe del Porta.
Fu pittore neoclassico, di non molta ispirazione. Gli si deve una apprezzata copia del Cenacolo vinciano, sul quale scrisse anche un’opera di grande erudizione, attraverso la quale conobbe il celebre affresco di Leonardo.
Il Bossi ebbe notevolissima parte nella vita culturale milanese del primo Ottocento e fu in relazione coi maggiori letterati dell’epoca, fra cui il Manzoni, il Monti ed il Foscolo.
Fu segretario dell’Accademia di Brera che fece rifiorire ed arricchì di statue e di calci che poté avere col favore di Napoleone.
Fu fondatore con Andrea Appiani della celebre Pinacoteca di Brera di Milano.
Morì a Milano il 7 settembre 1815 nel compianto degli amici, tra i quali il Canova che il Bossi più volte ospitò nella sua casa di Milano e che scolpì, si dice, piangendo un suo busto che si trova ora sugli scaloni della Biblioteca Ambrosiana.
Se come artista fu neo-classico, nell’animo era un romantico: basterebbero a dimostrarlo questi due suoi versi in cui reclama per sé:

“Licenza de podé scriv e descor
Quel che se gha in del coeur senza pommpomm”.

Anche il Porta, che al Bossi deve l’ispirazione della sua “Ninetta del Verzée”, ne pianse la morte. In una poesia vernacola del tempo così lo si esalta:

“Giusepp Boss
Quel coloss
L’è mort a trent’ott’ann
Già grand fra tutti i Grand
Vivend anch mò vint’ann
El sariss staa ‘lpu Grand
“Enciclop” de la lista
Che gloria i « vottcentista ! »



                                               



ERBA (Como)

… Si sale alla Villa Amalia (visita a richiesta all’Amministrazione Provinciale), sorta su un convento di Riformati del 1488 e trasformata da Leopoldo Pollack dal 1799 in chiave neoclassica, con atrio tetrastilo ionico, per Rocco Marliani, che vi ospitò Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, negli ambienti interni, pitture di Giuseppe Bossi (circa 1805) e decori e arredi di Luigi Scrosati.

Dall'ingresso si passa nella sala Impero, detta anche "salone della Aurora": e' l'unico ambiente pressoche' intatto dell' arredamento originale; da' nome alla sala la famosa "Aurora", tela dipinta da Giuseppe Bossi e incastonata sul soffitto in luogo del tradizionale affresco. Dal salone dell'Aurora si diramano a destra i salotti giallo, rosso e il salottino d'angolo di gusto orientaleggiante, a sinistra la sala di lettura e la sala da pranzo. Sempre dal salone dell'Aurora si accede al parco, ricco di pregiate essenze arbore, dal quale e' possibile ammirare la facciata con pronao, che e' l'elemento piu' suggestivo dell'intera villa.


BELLAGIO (Como)

I giardini di Villa Melzi (visita:marzo-ottobre ore 9-18.30), disposti a Sud dell’abitato tra la strada costiera per Como e il lago, sono stati creati con notevoli opere di modifica del terreno e con la realizzazione di imponenti muri di sostegno; si articolano in varie parti dotate di caratteri distinti e adorne di diverse sculture antiche. A sinistra dell’ingresso, nella grotta, urna cineraria estrusca del III sec. A.C., proveniente dai sepolcri degli Scipioni a Roma; più avanti, presso il laghetto delle Ninfee, due sculture egizie della XVIII e XIX dinastia (XIV e XIII a.C.) raffiguranti la dea-leonessa Kekhmet in balsalto e una statua-cubo.
Un giardinetto giapponese, il monumento a dante e Beatrice di G.B. Comolli e la scalinata delle Azalee anticipano la Villa Melzi, bella dimora neoclassica preceduta da una vasta terrazza semicircolare (ornata dalle statue di Meleagro e di Apollo di Guglielmo della Porta) comunicante con il lago attraverso un sistema di scale. Costruita nel 1808-10, su disegno di Giacomo Albertolli, per Francesco Melzi d’Eril, vicepresidente della Repubblica Cisalpina, è oggi proprietà dei Gallarati-Scotti. L’interno (non visitabile) è impreziosito da affreschi, raccolte di quadri, sculture e arredi; al primo piano la volta del salone d’onore è decorata da dipinti di Giuseppe Bossi, e le pareti da stucchi su disegni dell’Albertolli; nella biblioteca, decorazioni a soggetti mitologici di Andrea Appiani e di Giuseppe Bossi.


L’esponente più illustre di questa famiglia fu Giuseppe Bossi nato nel 1777, stimato pittore e poeta paragonato al Parini. A 23 anni venne nominato segretario dell’Accademia di belle Arti di Brera, quindi professore della scuola teorica di pittura. Nella propria abitazione accolse i giovani che apprezzavano l’arte. Le sue opere sono numerose e molto stimate. Le più conosciute sono la copia del Cenacolo di Leonardo Da Vinci e il quadro dell’Edipo. I cartoni della scuola del Petrarca e della pace di Costanza sono squisiti lavori di disegno, nel quale era molto più abile che nel colore.
Scrisse quattro libri intorno alla vita e alle opere dell’autore del Cenacolo, il “Discorso sull’utilità politica delle arti del disegno”, un’epistola a Giuseppe Zanoia e le “Vite dei pittori milanesi”.
Morì nel 1815 alla giovine età di 38 anni. Il Canova gli scolpì un’immagine, il Berchet lo celebrò in una epistola a Felice Bellotti e il Porta lo pianse in un sonetto dal quale traspira il vivo ed il profondo cordoglio dell’amico.

CONTRO IL PITTORE GIUSEPPE BOSSI di Ugo Foscolo.



Se come fredde son le tue pitture
Fosser le tue censure,
O come calde son le tue censure
Fosser le tue pitture,
Saresti buon censore,
E forse buon pittore.


                                            
Ugo Foscolo.



La pinacoteca (sull'omonima via Brera, nell'edificio completato dal 1774 da Giuseppe Piermarini, l'architetto neoclassico della Scala), nacque come "collezione di opere esemplari" con finalità didattiche. Era destinata agli studenti, a fianco dell'Accademia di Belle Arti, voluta nel 1776 da Maria Teresa d'Austria insieme ad altri istituti culturali. Il primo serbatoio di opere fu quello dei dipinti delle chiese e conventi soppressi in Lombardia, ma il vero colpo d'ali fu la decisione di Napoleone, conquistatore d'Italia, di farne, come il Louvre, il "museo imperiale" di quella che nel 1805 era diventata la capitale del regno. Come tale doveva presentare i dipinti più importanti delle chiese e conventi delle regioni "liberate": Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Veneto. Anche smembrando i complessi come il "Polittico di valle Romita" di Gentile da Fabriano. La pinacoteca non ha quindi alle spalle le collezioni dei principi rinascimentali, delle grandi famiglie, dei mecenati, ma le razzie dello Stato. Questo "spiega la prevalenza dei dipinti sacri, spesso di grande formato e conferisce al museo una fisionomia particolare, solo in parte attenuata dalle successive acquisizioni". Condotte soprattutto da Giuseppe Bossi (dal 1801 al 1807 segretario dell'accademia) e in parte da Andrea Appiani, pittore ufficiale di Napoleone.




Giuseppe Bossi (Busto Arsizio, 11 agosto 1777Milano, 9 dicembre 1815) è stato un pittore italiano.
Fu uno dei principali protagonisti del neoclassicismo milanese accanto a Ugo Foscolo, Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni e Carlo Porta. Nonostante fosse anche letterato, poeta e disegnatore di rilievo, viene soprattutto ricordato per le sue opere pittoriche.
Dopo aver frequentato l'Accademia di Belle Arti di Brera, una borsa di studio a Roma gli permise di venire a contatto con i grandi modelli della pittura rinascimentale e della statuaria classica frequentando artisti come Antonio Canova, Felice Giani e Angelika Kauffmann.
Rientrato a Milano, nel 1801 fu nominato segretario dell'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 1802 compì un viaggio a Parigi insieme all'incisore monzese Giuseppe Longhi e vi frequentò l'ambiente artistico. Tornato in Italia, nel 1803 curò la redazione del nuovo Statuto di Brera introducendo sostanziali riforme e novità nell'insegnamento accademico e portando in breve questo istituto ad avere un ruolo preminente nella determinazione del gusto del tempo in Italia settentrionale.
Con lo stesso Statuto fu dato grande impulso alla Pinacoteca di Brera, che venne dotata del suo primo nucleo di opere. Ricoprì tale incarico fino al 1807 anno in cui, con sua grande amarezza, rassegnò le dimissioni.
Ed è proprio dal 1807 che Bossi inizia a scrivere le sue Memorie sotto forma di diario della propria vita, attività che sospenderà soltanto pochi giorni prima di morire nel 1815.
Insieme ad altri artisti di tendenze neoclassiche, effettua le decorazioni degli interni della Villa Melzi d'Eril a Bellagio.
                                              
Busto a Giuseppe Bossi nel Palazzo di Brera.


 QUI C'E' UNA STORIA LUNGA SEI SECOLI

Il pittore Giulio Durini di Monza vive nel palazzo che ospitò anche Giuseppe Bossi e Antonio Canova
Quelli dipinti, che t’inseguono con lo sguardo, appesi alle pareti e appoggiati in ogni dove, quelli scolpiti, in biancogesso o nerobronzo che sia, quelli riflessi negli specchi argentati delle porte e quelli degli spiriti che aleggiano nell’aria (qui abitarono Giuseppe Bossi e Antonio Canova, e uno srotolarsi d’ospiti e antenati, in una fiumana lunga sei secoli): tutti insieme, questi occhi ti osservano mentre giri fra le sale.

FOTO La casa in cui abitò Canova

Siamo nelle stanze private del conte di Monza e principe di Fabbrica, ritrattista ufficiale dello Stato e presidente della Fondazione Durini, il pittore Giulio Durini. Un raffinato guscio color calce, quello delle pareti con pigmenti naturali, insegue le nuances di un pavimento di cemento e colla: «Mi piacciono i colori sporchi, alla Tiziano, solo seta e damasco sono belli in ogni versione. Comunque il troppo pieno, tappeti, tessuti sulle pareti… non lo concepisco più, volevo creare un contrasto».

Così neutro, più contemporaneo che mai, il monocromo calcecemento accoglie secoli di storia, in senso tecnico. Del Quattrocento l’edificio, del Cinquecento il letto dorato in cui riposa il conte, del Seicento la maggior parte di quadri e sedie, il baule da viaggio e il tavolo da lavoro/pranzo, del Settecento le porte in specchio argentato, dell’Ottocento letti con baldacchino e busti in bronzo, del Novecento? «Forse i divani. E i libri. Comunque non so, Novecento e 2000 li confondo».

Non dobbiamo farci confondere noi, da questa risposta, sintesi dell’odierno Durini di Monza, pittore dall’anima divisa in due, come il suo abitare. Da un lato, intrisa di storia, cresciuta nella casa rigurgitante d’antenati, c’è l’anima del bambino che a soli quattro anni sfogliava
la Guida al mobile antico per prendere sonno. Dall’altra, quella di Giulio con casa a San Paolo, che per mesi fugge nel mondo più nuovo e più giovane possibile, per ripartire da zero, privo di passato. Sono i suoi quadri, già intimisti e d’estetica seicentesca, soggetti ritratti in interni in tinta polvere in compagnia della propria ombra, quei nudi ora invece usciti all’aria aperta, inondati del sole delle spiagge tropicali, a raccontarci di lui, più di ogni altra cosa: «I corpi in primo piano sono ancora baroccheggianti nella composizione, e all’interno nessuno si parla, non c’è comunicazione. In realtà, continuo a lavorare sulla solitudine».

Bizzarro complesso, da sviluppare in un luogo così affollato, basti l’attuale viavai di gente legato alla Fondazione… «In questa casa non c’è mai stato niente di definitivo, tutto si sposta, entra, esce, viene restaurato.. ho sempre avuto la sensazione di abitare in un deposito. Passo le giornate fra due stanze, lo studio e gli uffici della Fondazione: la vivo come un centro operativo, più che come una casa». Solitudine come punto fermo, nello scorrere di secoli interi, intorno a lui.

Troneggia un computer sopra il tavolo barocco, sfidano i confini del dandismo sedie e luci tutte diverse tra loro, sfilano i busti dei Durini in un salone che miscela il bello e nutre i contrasti. A partire dall’astratto contenitore, incolore come certe tele antiche, che ospita arredi che hanno visto passare principesse, regine, sovrani e zar, e poi i marmi del Bambaia ora al Castello Sforzesco, i reperti archeologici ora nel Museo di corso Magenta, il Cristo del Mantegna ora a Brera, i disegni di Leonardo ora all’Ambrosiana.

Molto si concentrava nel salone con soffitti 1740, quello in cui ci si trova ora mentre il pittore racconta, e confessa: «Tutto questo pieno crea responsabilità, e tutto sommato pesa». Soprattutto sulla sua vena ultramoderna, scatenata nella stanza accanto, quella in cui dipinge, su parquet d’impatto industriale e sotto luci al neon. Vena che asseconda fuggendo dall’altra parte del mondo, nel vuoto della casa di San Paolo, muri bianchi e un materasso per terra come alternativa al barocco delle notti milanesi. Che effetto fa questa doppia vita? «Ogni volta che mi sposto è uno shock, e dura almeno una settimana”. Il classico jet lag, qui di genere culturale: a confondere l’anima, più che l’ora dei pasti.




Quando sul finire del 1807 Giuseppe Bossi inizia a tenere un diario della propria vita, che interromperà solo a pochi giorni dalla morte nel 1815, ha da poco compiuto i trent'anni, ma è già molto forte la coscienza che ha di sè; e del proprio ruolo di artista, in una Milano capitale del Regno d'Italia e pervasa dall'ideologia napoleonica. Dopo i primi insegnamenti appresi nelle aule dell'Accademia di Belle Arti di Brera, una borsa di studio a Roma gli aveva permesso di avvicinare dal vero i grandi modelli della pittura rinascimentale e della statuaria classica, e di frequentare quella fucina del neoclassicismo internazionale che furono gli studi di Antonio Canova, Felice Giani, Angelika Kauffmann.

Disegno del busto di Giuseppe Bossi.



PER LA MORT DEL BRAVISSEM PITTOR E LETTERATO GIUSEPPE BOSSI (1815) di Carlo Porta.

L’è morte el pittor Boss! Esus per lu!
   Selammen, e passen, i fedel cristian;
   I pretocch vicciuritt freghen i man,
   E disen: Mej! On candirott de pu.

Quij del mestee, ch’el veden in di pu,
   Goden de vess tant manch intorna al pan;
   I ricch ozios ghe dan del barbagian
   A vèsses bolgiraa per la virtù.

I malign, che hin pu spess che i galantomm,
   O de riff o de raff, o indrizz o stort,
   Cerehen, se ponn, de spiscinigh el nomm;

E mi, per consolamm, del mè magon,
   Ghe dighi a sto grand’omm che, se lè mort,
   L’è puranch foeura d’on grand mond cojon.

Giuseppe Bossi, ritratto di Felice Bellotti.

Giuseppe Bossi, Saffo canta in casa di Eutichio.
Giuseppe Bossi, sepoltura delle ceneri di Temistocle.
Giuseppe Bossi, storie di Saffo.


Giuseppe Bossi, Giove sotto le sembianze di Diana che seduce Callisto (1810).

Giuseppe Bossi, Edipo a Colono.

Giuseppe Bossi, profilo di testa femminile.

Giuseppe Bossi, ritratto del pittore Gaspare Landi.

Giuseppe Bossi, ritratto del pittore Giusepe Landi.

RICONOSCENZA DELLA CISALPINA A NAPOLEONE

Milano, Accademia di Belle Arti di Brera, Giuseppe Bossi, Riconoscenza
della Cisalpina a Napoleone (1802).

Con questo quadro Giuseppe Bossi partecipò ad un concorso bandito dalla Repubblica Cisalpina, riuscendone vincitore
il 15 maggio 1802.
Ecco come vengono rappresentati i personaggi:
-         Napoleone vincitore come un imperatore romano;-         La Storia come la Vittoria;
-   L’Italia come un fanciulla liberata;
-         Il Progresso come l’Abbondanza con cornucopia;
-         La Pace come un amorino con le armi di Marte;
-         La Sorte come Venere prigioniera;
-         La Forza come Ercole con la clava;
-         La Sapienza come Minerva con l’elmo.


Nel 1800, dopo il passaggio dalle Alpi al Gran San Bernardo e la strepitosa vittoria di Marengo, Napoleone Bonaparte e l'esercito francese liberavano per la seconda volta (la prima era avvenuto nel 1796) l'Italia. Una liberazione che da molti venne considerata una conquista. La ristabilita Repubblica Cisalpina si trasformò, il 26 gennaio del 1802, dopo la sanzione dei Comizi di Lione, in Repubblica Italiana, unica forma di Stato che fino alla seconda guerra mondiale ha portato questo nome. Questa prima forma unitaria data alla nostra nazione, in realtà , non comprendeva che una parte dell'Italia settentrionale, e cioè il territorio della Lombardia e parte dell'Emilia. Essa ebbe una vita davvero effimera, travolta nel 1805 dalla nascita dell'impero napoleonico, per cui la Repubblica divenne il Regno d'Italia (1805-1814), dopo che Napoleone, sceso nuovamente a Milano, si incoronò in Duomo con la mitica Corona Ferrea dei Re d'Italia.
Giuseppe Bossi, uomo geniale e di enorme fascino, verrà  riscoperto come l'artista più rappresentativo di questa Repubblica Cisalpina, della quale seppe, meglio di tutti gli altri, rappresentarne gli ideali. Vincitore del concorso bandito nel 1802 dall'Accademia di Brera per un enorme dipinto dedicato a La Riconoscenza della Cisalpina a Napoleone, egli vi creò la prima moderna versione della rappresentazione dell'Italia, in una figura di straordinario fascino che, ripresa dallo stesso Canova, diventerà  la base della moderna iconografia della nostra nazione. Accanto a questo quadro, che si credeva perduto ed è stato ritrovato solo da pochi anni, saranno presentati altri capolavori di Giuseppe Bossi, tra cui un ritratto inedito di Napoleone.
Ma la sensazionale novità  della mostra sarà  la presentazione, dopo un impegnativo restauro, di un immenso dipinto, sempre di Bossi, di cui si erano perse le tracce e che ricompare ora, dopo 200 anni, proprio in questa occasione e dopo un impegnativo restauro: ispirata all'Edipo a Colono, tragedia di Sofocle, quest'opera bellissima interpreta in modo esemplare gli ideali del sublime propri dell'arte neoclassica e si rivela come un capolavoro assoluto della pittura in Europa in quegli anni.
La tela, importante esempio di arte neoclassica, venne realizzata in un clima di entusistica promozione delle arti seguita al rafforzamento del potere napoleonico a Milano. Nel 1801 venne indetto un bando pubblicato ne "Il redattore Cisalpino" per un dipinto che rappresentasse la Riconoscenza verso Napoleone da destinarsi al Foro Bonaparte da presentarsi entro il 5 maggio, poi 15 giugno, 1802. La commissione composta da Traballesi, Knoller, Appiani, Cicognara, Mussi e Calvi, premiò l'ultima opera presentata a concorso, quella del Bossi per l'appunto, che venne successivamente destinata al Palazzo Nazionale. Benchè la commissione avesse delle riserve sul disegno e "sull'espressione del gruppo", venne però giudicata positiva per la composizione; la complessa interpretazione del dipinto fece sì che il Bossi, all'indomani della premiazione, inviasse una lettera alla commissione in cui esplicitava chiaramente il significato delle allegorie. A testimonianza degli studi del Bossi per comporre l'opera, rimane una serie di materiali preparatori: il cartone, molto vicino alla redazione finale, due disegni, uno schizzo a penna, uno a matita ed un piccolo bozzetto ad olio di incerta attribuzione. per quanto riguarda l'iconografia, il Bossi pare riprendere un grande disegno di Wicar del 1795, L'allegoria del trattato di Pace tra la Convenzione eil Gran Duca di Toscana, oltre agli evidenti richiami alla tradizione classica e rinascimentale italiana. L'opera, il cui fulcro è nelle riuscitissime figure di Napoleone e delle Riconoscenza, per la cadenza compositiva da bassorilevo antico, il rigoroso rilievo statuario delle figure e i colori campiti, rimandano ad un clima primitivista, con cui l'artista probabilmente venne a contatto negli anni della formazione romana e che ebbe il suo apice con la visita, nel 1802, allo studio di David a Parigi.


Milano, Pinacoteca Ambrosiana, Giuseppe Bossi, Edipo a Colono.


BOSSI GIUSEPPE di Sergio Samek Ludovici

Figlio di Francesco Antonio e Teresa Bellinzaghi, nacque a Busto Arsizio l'11 Fagosto 1777; ricevette la sua prima educazione nel Collegio dei Somaschi di Merate. Si distinse ben presto, tanto che i suoi componimenti poetici, secondo l'uso del tempo, gli valsero l'ingresso in Arcadia a 15 anni (22 giugno 1792) come arcade (col nome di Alcindo) e successivamente come pastore. La famiglia secondò le sue precoci inclinazioni per la pittura iscrivendolo all’Accademia di Brera istituita nel 1786. Là ebbe maestri Traballesi, Knoller, Appiani e G. Franchi, con qualche insoddisfazione, a detta del suo primo biografo e amico, Gaetano Cattaneo. Nell'autunno 1795 scendeva a Roma in un momento di particolare fervore della poetica neoclassica, stringendo rapporti con d'Agincourt, R. Cunich, G. G. de Rossi, Angelica Kauffmann e Marianna Dionigi. Fu in amicizia con F. Giani e con il Canova, per il quale ultimo nutrì una devozione ammirata che durò sino alla morte (oltre alle lettere, cfr. E. Bassi, La gipsoteca di Possagno, Venezia 1957, ad Indicem).
Al Museo Pio-Clementino il Bossi copiò da statue antiche e frammenti, ma rivolse altresì la sua attenzione a Raffaello (di cui riprodusse la Disputa), e soprattutto al Michelangelo della Capella Sistina. Le esercitazioni sui nudi di Michelangelo e l'insegnamento del pittore mantovano D. Conti lo invogliarono a ricerche anatomiche dal vero, che il Bossi potè effettuare all'Ospedale della Consolazione. Sono di questo periodo le sanguigne a grandezza naturale delle varie parti del corpo umano (conservate nella raccolta Bertarelli di Milano), che vennero pubblicate postume (1840: Tavole anatomiche... ).
Tornato a Milano, nel 1801 finì il cartone dell'Edipo re (Ambrosiana) e partecipò a un concorso bandito dalla Cisalpina (28 marzo 1801) per un quadro dal tema: la Riconoscenza della Cisalpina a Napoleone, riuscendone vincitore (15 maggio 1802; cartone all'Ambrosiana; per il bozzetto cfr. G. Nicodemi, in L'Arte, LXI [1962], pp. 185 s.; il quadro, a Brera [Accademia], è andato distrutto durante la seconda guerra mondiale). Nello stesso anno (1801) il governo gli affidò la carica di segretario dell'Accademia, in sostituzione di Carlo Bianconi, giubilato perché di sentimenti antifrancesi (con il quale, tuttavia, il B. divise generosamente lo stipendio).
Il piano di riforma dell'Accademia da lui subito preparato si modellava su quello dell'Accademia di S. Luca di Roma, ma mirava anche a fornire all'istituto direttive unitarie capaci di disciplinare, secondo un vasto disegno etico-civile, il frastagliato mondo degli artisti, realizzando un'idea che era stata già del Parini. Inviato ai Comizi di Lione insieme con G. Longhi, B. Oriani e P. Brambilla come rappresentante dell'Accademia, il B. tuttavia non vi svolse parte attiva (I Comizi nazionali in Lione, a cura di U. Da Como, III, 2, Bologna 1940, pp. 23 s.). Da Lione nell'estate del 1802 andò a Parigi dove, in contatto con gli ambienti artistici, conobbe David, Girodet-Trioson, F. Gérard. Ricevuto in udienza dal primo console, sollecitò e ottenne aiuti per l'Accademia di Milano (fu emesso tra l'altro un decreto per cui l'amministrazione del Museo centrale di Parigi avrebbe dovuto fornire all'Accademia di Milano i calchi dei capolavori di scultura antica). Un diario del suo soggiorno in Francia, interessante per la vita privata di Napoleone e del suo entourage, è perduto (visto da G. Cattaneo).
Ritornato in Italia, essendo stato approvato il nuovo regolamento per l'Accademia (decreto del 1º sett. 1803), si dedicava con rinnovato vigore all'istituto, al quale fornì il corredo didattico: calchi da statue antiche, da cippi, vasi, motivi architettonici, e da opere dell'ammiratissimo Canova, manichini, incisioni, libri (risale al 20 ag. 1802 la sua proposta di istituire - come poi fu fatto - la Biblioteca dell'Accademia, tuttora esistente). Preoccupato anche di fornire una razionale sistemazione ai locali della scuola, non tralasciò nemmeno di occuparsi della specola astronomica e persino delle abitazioni per gli astronomi e per i disegnatori della carta geografica della Repubblica. Per questo nel 1804, con una commendatizia per il card. Fesch, si recò a Roma.
Qui, sotto l'influsso del genio raffaellesco, compì il cartone del Parnaso (probabilmente già iniziato nel suo primo soggiorno romano) che fu poi entusiasticamente apprezzato dal Canova (L. Missirini, Vita di A. Canova, Milano 1825, p. 241). Il cartone fu acquistato nel 1517 dal duca di Weimar, Carlo Augusto, e collocato nell'Accademia di quella città. L'opera colpì l'immaginazione di Goethe che, ottenute dal Cattaneo notizie sull'autore, stupito della sua dottrina, specie nei riguardi di Leonardo, volle scriverne per i suoi connazionali (W. Goethe, J. Bossi über Leonard da Vincis AbendmahI zu Mailand, in Kunst und Altertum, I [1817], 3, pp. 113-158; cfr. anche L. Mazzucchetti, Goethe e il cenacolo di Leonardo, Milano 1939). A Roma il B. frequentò assiduamente anche la Biblioteca Vaticana, interessandosi ad antichi codici miniati altomedievali per trarne modelli di panneggio e di vestiari per l'iconografia dei suoi quadri di soggetto medievale. Tornato a Milano, ebbe dal Melzi la commissione di un quadro, la Pace di Costanza, soggetto celebrativo delle glorie di Milano - cui non fu estranea la polemica patriottica nei riguardi dei Francesi allora occupanti - di cui rimane il disegno preparatorio (Milano, Gall. d'Arte Moderna). Ma già dal marzo 1803, attratto dai miti e dalla poesia ellenici, attendeva a un Edipo a Colono già cieco quando Creonte gli conduce le figlie e il vecchio tremolante le cerca (cartone all'Ambrosiana di Milano) e a un Coro dei Seniori, sempre ispirato a Sofocle, perduto.
Successivamente concepiva l'idea di una apoteosi pittorica dei maggiori poeti: Dante (di cui fu studioso assiduo), Petrarca, Boccaccio e Ariosto, medievalmente raffigurati sul vertice di un monte con gli allievi e gli ammiratori alle pendici. Ambiziosa opera di artista-letterato, sollecito dei rapporti tra pittura e poesia, di cui non ci rimangono che il Monte di Petrarca (all'Ambrosiana) e i molti disegni preparatori (al Castello Sforzesco di Milano). L'amore per il sommo poeta italiano lo indusse a raccogliere codici della Divina Commedia. Il tipografo Luigi Mussi gli dedicò per questo motivo la sua edizione della Commedia uscita a Milano nel 1809, prodigandosi in elogi al pittore studioso. Pittura e poesia animate da un costante afflato etico e intese come fattrici e rinnovatrici del costume civile, e perciò considerate come forza degli Stati: queste le idee che accompagnano il B. in tutta la sua operosità. I concetti sono svolti chiaramente il 24 giugno 1805 nel suo Discorso sulla utilità politica delle arti del disegno, tenuto in una solenne tornata dell'Istituto da lui riformato. Ivi è affrontato il problema della Pinacoteca di Brera (già istituita, ma solo sulla carta) che il B. veniva ad arricchire del materiale artistico sottratto alle chiese e ai conventi a seguito delle soppressioni napoleoniche, salvaguardandolo da esodi al di là delle Alpi (sin dai Comizi di Lione aveva avuto parole di insofferenza, se non di sdegno, per le depredazioni francesi). È di questo periodo il suo travaglio presso le autorità e il viceré al fine di assicurare alla Pinacoteca lo Sposalizio di Raffaello. Non è da stupire che all'epoca delle trattative con i proprietari del quadro (eredi del generale Sannazari), attorno al giugno 1804, si sia affacciata alla mente del B. l'idea di una legge che vietasse l'esportazione delle opere d'arte, in conformità di quanto vedeva praticato a Roma. Alla sua ferma volontà di tutela del materiale artistico italiano va ricondotta la protesta (6 sett. 1805) al direttore generale della Pubblica Istruzione per la demolizione operata in Verona dell'arco romano di Castelvecchio (volgarmente chiamato arco di Vitruvio).
Artista, oratore affascinante, collezionista, bibliofilo, uomo di mondo, il B. aveva tutte le qualità per dirigere realmente l'Accademia che tanto aveva contribuito a rinnovare: e di fatto era arbitro dell'Istituto. Ciò finì per dispiacere al governo, dove dominava il ministro degli Interni marchese di Breme e, per la parte relativa agli istituti, il conte G. Paradisi. Con malcelata intenzione di mortificare il pittore, fu ripristinata la carica di presidente per le tre accademie del Regno d'Italia (Milano, Venezia, Bologna), e a Milano fu nominato il conte Luigi Castiglioni. Il B., con molta dignità, rispose con le dimissioni (31 genn. 1807). Nello stesso tempo il viceré Eugenio, quasi a compensarlo dell'affronto subito, gli commise la copia della Cena di Leonardo del refettorio delle Grazie (27 apr. 1807).
Sarebbe dovuta essere una ricostruzione del celebre e malconcio capolavoro: un compito disperato e assurdo, che gli richiese due anni di lavoro e di ricerche, e finì col rovinargli la salute. Fatta la ricognizione delle imitazioni del dipinto vinciano nei secoli, il B. le studiò e descrisse: il risultato degli studi fu dapprima un cartone (ricompensato dal viceré, il 9 genn. 1808, con un premio di lire 28.000), successivamente una tela a olio. Quest'ultima fu esposta al Broletto nel novembre 1809 (passata al Castello Sforzesco, fu quivi distrutta nel 1943 per eventi bellici). Sul cartone venne fatto eseguire, per suggerimento dello stesso B., un mosaico dal romano G. Raffaelli (Vienna, Minoritenkirche); il B., che aveva in animo la fondazione di una scuola del mosaico da annettere a Brera, pensava che il lavoro avrebbe avviato concretamente l'idea e sarebbe stato il primo di una serie nella quale avrebbero dovuto prendere parte rilevante le storie delle gesta di Napoleone dell'Appiani. Ma il frutto migliore delle ricerche fu il grosso in-folio Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, uscito nel 1810: esemplare per l'analisi delle sottigliezze compositive e psicologiche di Leonardo, ivi compreso il Discorso sulla simmetria dei corpi umani (libro IV, cap. IV) che il pittore diffuse anche separatamente, come estratto, dedicandolo al Canova.
Una tela di grandi dimensioni con La Notte e l'Aurora fu da lui eseguita nel 1804, sotto l'influsso del Canova e di Raffaello, per il soffitto della villa Amalia di Rocco Marliani a Erba (oggi dell'Amministr. prov. di Como). In questo stesso periodo finiva per la villa Sommariva in Lodi il suggestivo quadretto I funerali di Temistocle (Milano, Galleria d'Arte moderna).
Nel giugno 1810 era a Roma, poi a Napoli, con lo scopo di copiare un apografo vinciano del Trattato della pittura, conservato alla Biblioteca reale (ms. XII. D. 79), ma altresì di raccogliere monete, oggetti d'arte antica e libri (già nel 1808 si era fatto fare da L. Marini, bibliotecario della Vaticana, una copia del cod. Urb. 270 del Trattato: cfr. G. Pedretti, I manoscritti Bossi all'Ambrosiana, in Raccolta Vinciana, XIX [1962], pp. 294 s.). A Napoli frequentò amici vecchi e nuovi: V. Cuoco, M. Delfico, L. Serra di Cassano, G. Capecelatro arcivescovo di Taranto, il ministro Tassoni, il principe di Montemiletto. Rientrato a Milano, per incarico ufficiale del viceré (22 dic. 1810) s'occupò di una scuola di pittura aperta nella casa da lui recentemente acquistata in via S. Maria Valle. Nella casa trovarono sede le sue ricche collezioni di disegni, quadri, sculture, libri e stampe, della cui consistenza siamo informati dai cataloghi delle aste che si fecero, dopo la morte del B., nel 1818: vi si rivelano interessi quasi insospettabili in un neoclassico, come quelli per l'arte lombarda nei secoli XV e XVI, che hanno un innegabile significato precursore nella storia della critica d'arte e della cultura.
Le ricerche sulla scuola lombarda, cui si accenna nelle Memorie, avrebbero dovuto costituire la continuazione delle notizie raccolte da V. de Pagave (morto nel 1802): materiale dal B. acquistato e dopo la sua morte, attraverso vari passaggi, giunto ad Alessandro Melzi che lo depose nella propria biblioteca, la Melziana, deplorabilmente dispersa in tempi recenti. I disegni acquistati nel 1818 dall'Austria, tramite l'abate Celotti, furono destinati alla Galleria dell'Accademia di Venezia. Molti dei volumi furono acquistati da L. Cicognara e, con la devoluzione delle raccolte di costui alla Vaticana, si trovano oggi in questa biblioteca.
Con l'inizio del 1811 il B. propose al governo la pubblicazione integrale e critica del Trattato della pittura di Leonardo, che riteneva giustamente due terzi più esteso di quello conosciuto, dicendosi disposto a cooperare nelle spese; né trascurò di raccogliere documenti sull'antica scuola lombarda, per il cui fine richiese l'accesso all'Archivio del duomo di Milano.
Nel settembre 1812, il B. si recò a Verona e a Vicenza (esperienza da cui uscì il diario autografo, di recente pubblicato [Tosi-Brunetto, 1969] e successivamente andò a Padova, per vedere, agli Eremitani, l'ammiratissimo Mantegna e il Guariento; infine visitò Venezia, spintovi dalla sua antica aspirazione a colmare, con la visione dei grandi coloristi veneziani, la così spesso rimproveratagli sordità al colore.
Sulla allegoria pittorico-astrologica del Guariento agli Eremitani di Padova scriverà al cav. Lazzara. Le annotazioni del diario relative a Verona e a Vicenza mostrano un B. ligio alla teorica neoclassica, specialmente nell'architettura, non senza asprezze dogmatiche nei confronti di grandissimi come il Sanmicheli e il Palladio, ma altresì con inattese aperture verso la pittura dei primitivi e verso i pittori del primo '400.
Frattanto, mancandogli occasioni per opere di grande respiro, andava producendo disegni, abbozzi, schizzi, ritratti, scenette mitologiche ispirati alla poesia e al dramma antico e alla Divina Commedia, di cui rimangono esempi presso eredi o amici o in istituti (Eredi racc. Bossi, oggi Treccani; racc. già Nicodemi a Milano; racc. Luigi Milani, M. Venzaghi, B. Grampa a Busto Arsizio; racc. G. G. Gallarati Scotti a Oreno [Milano]. E tra gli istituti: a Milano, Accademia di Brera [Biblioteca], Pinacoteca di Brera, Castello Sforzesco, Galleria d'Arte moderna, Biblioteca Ambrosiana, Museo di Milano; a Venezia, Museo Correr; a Firenze, Collez. degli Autoritratti alla Galleria degli Uffizi; a Parma, Biblioteca Palatina e in altre città: una ricognizione esauriente e precisa delle opere del B., anche sulla base dei cataloghi di vendita del 1818, non è ancora stata fatta). Lo attraeva moltissimo il ritratto, sia degli altri sia il proprio, oltreché come motivo figurativo, come saggio di introspezione psicologica e "scavo" del personaggio.
Tra i moltissimi che eseguì ricordiamo il possente Autoritratto della Galleria d'Arte moderna di Milano, uno dei più giovanili, che lo dimostra bell'uomo con labbra sensuali, sguardo penetrante e fronte adombrata da riccioli spioventi alla Brutus; e l'altro Autoritratto della Pinacoteca di Brera, alla soglia della morte, dove solo gli occhi fiammeggiano nel disfacimento totale. Tra i ritratti che sono a noi pervenuti, ricordiamo, per le sue attinenze biografiche, quello bellissimo di una ignota Dama in bianco (forse la Cigalini da lui amata) e il ritratto di Gaspare Landi, pittore (Milano, Gall. d'Arte mod.) e di Felice Bellotti, suo grande amico, poeta e pittore (Milano, Ambrosiana); e ancora i ritratti di Cesare Beccaria, e di Carlo Porta (Museo di Milano). Altri sono in private raccolte di Milano e della Lombardia; molti sono documentati da prove, abbozzi e disegni, altri infine da incisioni, come quelle che appaiono nelle Vite e ritratti di Italiani illustri, Padova 1812-1820.
Messosi in disparte dalla vita politica, il B. assisté con animo distaccato al cambiamento di regime (22 apr. 1814), commentando non benevolmente per l'ucciso l'assassinio del ministro Prina, accusato di poco coraggio. Con la venuta degli Austriaci si immerse nell'attività artistica: è di questo tempo, fra l'altro, il ritratto di Maria Londonio Frapolli con le figlie Giulia e Lucia, la famosa Bia o Madama Bibin del Porta, di accesi sentimenti classicistici (coll. Gallarati-Scotti, Oreno, pubbl. da Sioli-Legnani, Mondo portiano); di Giuseppe Taverna (coll. privata); il Taverna figura inoltre, insieme con il B. medesimo, Carlo Porta e un altro, forse Gaetano Cattaneo, nel notissimo quadriritratto detto la Camaretta portiana, (racc. eredi Treccani degli Alfieri); di Francesca Campori Ciani con le figlie (coll. priv.); di Carlotta Augusta di Brunswick, principessa di Galles (coll. privata), delle cui stravaganze il B. si lagna nelle Memorie; infine il ritratto delle Figlie di Lord Lucan, gentiluomo inglese dilettante e collezionista.
Dal 1º genn. 1815 il B. fu ospite di Francesco Melzi nella villa di Bellagio (attualmente villa Gallarati-Scotti) con la speranza di recuperare le forze, mortificate dai troppo frequenti salassi praticatigli secondo la terapia del tempo, assai nocivi in un organismo minato dalla etisia. A Bellagio il B. attese a decorare alcune sale della villa con la collaborazione di G. Lavelli e di C. Prayer (Fatti della vita di Francesco Melzi discepolo di Leonardo, antenato del duca); eseguì il Parnaso (tema amato e spesso replicato) sulla volta del salone d'onore, affresco a chiaroscuro; un nobilissimo doppio disegno (destinato a medaglia) di Napoleone e Francesco Melzi di profilo (ivi); altrove, sempre nella villa, fantasie di soggetto anacreonteo, e opere di argomento religioso - tra cui una Pietà, di grande effetto monumentale ed elegiaco insieme, quasi un presagio della fine -,e una Madonna e Bambino per la cappella della villa, cui nuoce la eccessiva obbedienza ai canoni raffaellesco-leonardeschi (v. L. Grassi, Villa Melzi, in Arte figurativa, VII [1959], 5, pp. 30-37). Da Bellagio, nel risorgere delle illusioni, preso da nuovo fervore poetico, indirizzava al Bellotti e a G. Banfi odi di accento pariniano, permeate da malinconia di sapore "romantico". Ivi, contemporaneamente, il B. ribadiva la fede nella "greca scuola con sue forme sublimi" cioè nel classicismo: ma si trattava ormai di un classicismo eroso in radice dall'avanzante e vittorioso romanticismo.
Di ritorno a Milano, dopo un soggiorno estivo alla Perlasca (villa Taverna, sul lago di Como), spirava il 9 dic. 1815.
Gli amici gli tributarono onoranze solenni: Gaetano Cattaneo recitò l'orazione funebre in S. Giorgio in Palazzo; nel 1817 l'Accademia di Belle Arti di Brera gli innalzò la bellissima erma scolpita da C. Pacetti, collocata nella galleria del primo piano dell'edificio; e un anno dopo, nel 1818, gli amici (Berchet, Beccaria, Cattaneo, Ciani, ecc.) inaugurarono nella sala Custodi dell'Ambrosiana il cippo marmoreo (oggi sul primo pianerottolo della scala del Museo), con il busto opera di Canova (1815-17, gessi nella Gipsoteca di Possagno e nella Pinac. Tosio Martinengo di Brescia) e i bassorilievi di P. Marchesi e G. Giorgioli: segno eloquente di affetto e primo giudizio della posterità, dalla quale poi ingiustamente, per lungo arco di tempo, fu ignorato.
(Estratto da: Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 -1971).


APOTEOSI DI GIAMBATTISTA BODONI

Nel 1800 Giuseppe Bossi pittore e letterato, tra l' altro amico intimo di Carlo Porta, disegnò una "Apoteosi di Giambattista Bodoni" nella quale si vede, in stile neoclassico, l' incoronazione del sommo tipografo attorniato dai grandi poeti, antichi e moderni, che lui stesso aveva stampato. 




Giuseppe Bossi, apoteosi di Giambattista Bodoni.

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