lunedì 23 dicembre 2013

Il Cristo morto di Hans Holbein (1521)

Le tre fasi del restauro della tela.


Nella chiesa parrocchiale di Azzate, a sinistra dell’altare maggiore, sotto l’organo, è presente un dipinto piuttosto particolare: si tratta del Cristo Morto, che riproduce in modo impressionante la tela di Hans Holbein esposta al Kunstmuseum di  Basilea. Questo è stato l’argomento dell’ultima serata del gruppo storico Aciate, che si è riunito mercoledì scorso, prima della pausa estiva (la prossima riunione del gruppo è fissata per il 5 aprile, sempre alla sede delle A.C.L.I.).
La riflessione di Giancarlo Vettore, anima del gruppo, si è concentrata sulla presenza di quest’opera, che è legata, in qualche modo, al suo originale conservato, appunto, a Basilea e risalente al pittore fiammingo Hans Holbein, che la dipinse nel 1521. Ma le domande che si sono poste ed a cui anche altri hanno tentato di dare una risposta sono diverse: a che epoca risale il dipinto di Azzate? Che rapporto ha con l’originale? Come mai è presente proprio ad Azzate una copia del capolavoro? Domande appassionanti a cui si è tentato di dare delle risposte.
A che epoca risale il dipinto. Per questo, abbiamo una testimonianza che ha dell’incredibile. Negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, il dipinto, che, secondo le testimonianze, era stato staccato dalla parete e lasciato arrotolato dietro gli stalli del coro, viene recuperato grazie all’interessamento del parroco del tempo, don Angelo Cremona, che chiede un giudizio ad un esperto, il restauratore prof. Mario Rossi, che, avendo a disposizione la tela, oltre a restaurarla, affermò che si trattava di uno studio dall’originale. E l’incredibile della vicenda del restauro consiste nel fatto che l’opera venne portata al restauratore dal pittore azzatese Giuseppe Triacca, che, in bicicletta, portando la tela arrotolata sotto il braccio sarebbe andato fino a Varese, a casa del Rossi, vicino alla fabbrica dell’Aermacchi. Non solo, ma il parroco, dicono i più informati, avendo saputo che la fabbrica di aeroplani era stata bombardata, si sarebbe anche disperato, temendo per la sorte del dipinto, che, invece, non subì danni.
Che rapporto ha con l’originale? Che i due dipinti siano particolarmente simili non c’è dubbio, anche ad un occhio inesperto e potrebbe essere che, in considerazione del fatto che il soggetto era particolarmente ben riuscito, si sia pensato di replicarlo.
E qui rispondiamo alla terza domanda. Come mai la presenza di una copia del capolavoro proprio ad Azzate? È ancora Vettore che cerca di dare una risposta. In una pala di Callisto Piazza presente nella stessa chiesa di Azzate, viene raffigurato il matrimonio mistico di  S. Caterina d’Alessandria, S. Gerolamo ed il committente dell’opera, il senatore Egidio Bossi. Costui, che nel 1538 acquista il feudo della Val Bodia, è autore di un’opera che viene pubblicata dal figlio, tale Francesco Bossi, vescovo di Novara,  proprio a Basilea. Quindi è probabile che Francesco Bossi sia andato personalmente a Basilea e sia stato suggestionato da questa raffigurazione del Cristo morto, fino al punto di ordinare una copia del dipinto.
Queste risposte sono solo ipotesi, ma hanno una forte probabilità di non discostarsi dal vero. Intanto, per gli appassionati di Holbein, e per coloro che vogliono visionare un’opera davvero inquietante, una visita alla chiesa di Azzate è da mettere in calendario.
 Giancarlo Vettore ha chiesto alla direttrice del museo di Basilea di avere una fotoriproduzione dell’originale, e, presto, le due opere potranno essere paragonate da vicino.

                                                                                                                          
La suggestività del Cristo morto di Holbein è così forte che lo stesso Fedor Dostoevskij ne propone un’immagine nell’Idiota, l’opera da lui pubblicata nel 1886 e costruita attorno alla figura del principe Myskin. L’autore, che aveva sentito parlare del Cristo morto, si sarebbe recato personalmente a Basilea per visionare l’opera e ne ha riprodotto l’immagine in una pagina del suo romanzo. Non solo: pare che lo stesso Lenin,  decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recasse appositamente a Basilea per osservare il dipinto. Una riflessione sulla figura inquietante del Cristo l‘abbiamo trovata anche nelle pagine dei primi numeri del Gazzatino della Valbossa, ad opera di Luciano Tibiletti, allora consigliere della Pro Loco di Azzate.
In questo scritto, il Tibiletti non si pone a discutere sull’autenticità o meno dell’opera, ma si limita ad una contemplazione del dipinto, sull’estrema umanità che traspare dalla figura del Cristo, sul suo realismo agghiacciante. È un Cristo stecchito nella rigidità della morte, e, nella gamma delle passioni, è certo quella che lascia più sgomenti.
 “La linea perfettamente orizzontale suggerisce un diagramma della vita piatto. La necrosi della mano e dei piedi dimostra iniziato il processo di putrefazione.”
È, secondo Tibiletti, una raffigurazione dell’uomo di fronte al mistero della morte: “il naso affilato, la bocca aperta quasi nell’ultimo grido lanciato dalla croce (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). L’occhio rimasto sbarrato richiama la fissità della morte” e la beffa finale che nega ogni speranza. Ecco il richiamo di Dostoevskij che ritiene come un’opera come questa può far perdere la fede. “Davanti a questo cadavere è morta la speranza. Questa è l’ora delle tenebre, l’ora cupa in cui i discepoli si tengono nascosti sgomenti, in preda allo sconforto e, forse, alla disperazione.”
                                          Ugo Marelli

UN QUADRO PERICOLOSO
Si racconta che Dostoevskij contemplando a Basilea il "Cristo nel sepolcro" di Hans Holbein il giovane cadesse in uno stato di deliquio e di disperazione. Quell'occhio spalancato e vuoto, i lunghi capelli disordinati e la barba aguzza e incolta, la bocca aperta congelata nella smorfia dell'agonia e il corpo macilento e ossuto, la mano violacea e i piedi dalle nere unghie, non lasciavano nello spettatore margine di dubbio alcuno. Cristo, il più bello tra gli uomini, era veramente morto e mai sarebbe risorto! "Guardando quel quadro la natura appare sotto l'aspetto di una belva immane (...) che abbia assurdamente afferrato, maciullato e inghiottito, sorda e insensibile, un Essere sublime e inestimabile: un Essere che da solo valeva l'intera natura con tutte le sue leggi, tutta la terra, la quale forse fu creata unicamente perché quell'Essere vi facesse la sua apparizione!". La descrizione che, nell'Idiota, Dostoevskij fa del quadro di Holbein si contrappone indirettamente a quella che un altro grande russo, il filosofo e teologo Pavel Florenskij, quasi cinquant'anni dopo, traccerà di una sacra icona della tradizione ortodossa, la "Trinità" di Andreij Rublev (1415 ca). Come la straordinaria purezza di quelle composte immagini di angeli è frutto, secondo il martire della chiesa russa (Florenskij fu fucilato da Stalin nel 1937), di una visione di Dio, e deve quindi essere annoverata a pieno diritto tra le dimostrazioni della sua esistenza, così il corpo martoriato e abbandonato del Cristo di Holbein è una prova altrettanto inconfutabile della sua definitiva morte. Come Rublev, per potersi sollevare a tanta divina bellezza, doveva "aver visto", anche il pio Holbein, per raggiungere tanta realistica crudezza, doveva "aver visto". Ma aveva visto la più orribile delle visioni: Dio stesso che è per sempre morto! Per questo dinanzi ad essa il devoto Dostoevskij ebbe un accesso epilettico. "Quel quadro! - esclamò il principe, colpito da un pensiero improvviso: - quel quadro! Ma quel quadro a più di uno potrebbe far perdere la fede!" (L'idiota).
Attraversarono quelle stesse stanze per dove il principe era già passato; Rogòzin andava avanti e il principe lo seguiva. Entrarono in un salone dove alle pareti erano appesi dei quadri: tutti ritratti di ecclesiastici o paesaggi in cui non si riusciva a distinguere chiaramente nulla. Sopra la porta che metteva in un’altra stanza era appeso un quadro piuttosto strano per la sua forma: era lungo quasi due metri e alto meno di una trentina di centimetri. Il quadro rappresentava il Salvatore subito dopo essere stato deposto dalla croce. Il principe gli gettò un’occhiata di sfuggita, come se gli ricordasse qualcosa, ma non si fermò e si avviò verso la porta. Si sentiva molto oppresso e voleva uscire al più presto da quella casa. Ma Rogòzin si arrestò improvvisamente davanti al quadro.
“Tutti i quadri che vedi qui,” prese a dire, “sono stati comprati all’asta per uno o due rubli; a lui piaceva comprarne. Un intenditore è stato qui a vederli: ha detto che sono tutte croste, eccetto questo quadro qui sulla porta, che è stato anch’esso acquistato per due rubli, ma che non è una crosta. C’era già stato uno che aveva offerto al babbo di acquistarlo per trecentocinquanta rubli [...]. Ma io ho preferito tenermelo.”
“Ma questa.... questa è una copia di un quadro di Hans Holbein,” disse il principe, che intanto aveva osservato meglio il quadro, “e, sebbene io non sia un grande intenditore, mi pare che sia un’ottima copia. Questo quadro io l’ho già visto all’estero e non ho mai potuto dimenticarlo. Ma che ti prende?...” [...]
“Dimmi un pò, Lev Nikolàevic, era già un pezzo che volevo chiedertelo: tu credi in Dio o no?” riprese a dire improvvisamente Rogòzin, dopo aver fatto qualche passo.  
“Che strano modo di far domande il tuo... e di guardarmi!” esclamò involontariamente il principe.  
“A me piace contemplare questo quadro,” mormorò Rogòzin dopo una pausa di silenzio, come se di nuovo si fosse dimenticato della domanda che aveva fatto.
“Questo quadro!...” gridò il principe, come colpito da un’idea improvvisa, “questo quadro!...” ripeté.
“Ma questo quadro può far perdere la fede!”
“Infatti la si può perdere,” confermò inaspettatamente e all’improvviso Rogòzin.

(F. Dostoevskij – L’idiota)


La pittura del '500 del '600

D'altronde, Holbein, che aveva adottato la cittadinanza di Basilea, rappresenta ancora oggi una figura chiave del Kunstmuseum: uno dei quadri del geniale artista viene considerato un po' come “il dipinto” della città sul Reno.

Si tratta del “Cristo morto”, del 1521, una salma allungata su un telo bianco, davanti ad uno sfondo verde scuro. Una morte palpabile nella sua crudezza.

Un Cristo che Fiodor Dostojevski volle vedere da vicino: al museo salì perfino su una scala per ammirare meglio il dipinto, di cui parlerà nell’”Idiota”. Anche Lenin, decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recò appositamente a Basilea per osservare il quadro.
3. Cristo morto. Modello straordinario e straordinariamente sconvolgente di teoria del corpo come oggetto medico-anatomico - teoria non solo nel senso originario di visione e sguardo pittorico - è l’immagine del Cristo deposto dalla croce, dipinta nel 1521 da Hans Holbein il Giovane. Il Cristo morto è un corpo rappresentato e indagato nella miseria della sofferenza e della morte, nella immobilità più perfetta. È un corpo insieme troppo umano, fragilissimo, ma anche, nella spietatezza del tratto pittorico, inumano, in-umanizzato. (Il corpo dipinto da Holbein è, d’altra parte, lo stesso corpo, lo stesso cadavere che negli stessi anni (1543) Andrea Vesalio dissezionava e trascriveva nel suo trattato sulla humanis corporis fabrica.)
Corpo, quello del Cristo di Holbein, che appare come pietrificato: fascio di muscoli e di ossa e di tendini che una luce fredda e radente illumina, rilevando ogni sporgenza, ogni spigolo, ogni incavo, ogni ferita. Steso su di un panno bianco semplicissimo, un pezzo di tela senza ombra di drappeggio (solo poche pieghe corte e secche), posato su di una pietra orizzontale e inscritto in uno spazio lunghissimo e basso, privo di punti di fuga, implacabile ed essenziale, il Cristo di Holbein non risorgerà né il terzo giorno né mai. La vita sembra non essergli mai appartenuta. La forma perfetta del dipinto, come visione e teoria anatomica, è tutt’uno con la commozione fredda che sembra spirarne; ma l’imperturbabilità dell’esattezza descrittiva non può restituire il corpo di Cristo se non nella forma della degradazione e del disfacimento.
Immagine e simulacro definitivo dell’impossibilità di una comprensione analitica-astraente del corpo vivente e significante, la visione holbeiniana sigilla la (necessaria) inespressività programmatica e metodologica di un sapere che costruisce se stesso a partire dal frammento e solo a partire dal frammento: a partire dal corpo in pezzi. Il coltello e lo stilo del medico-naturalista greco, il coltello e lo stilo del medico del Cinquecento, sono, nel Cristo morto, il pennello di Holbein.

Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva  una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».

Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.


Mosca, Galleria statale Tretjakov, Trinità di Andreij Rublev.

Il prevosto di Azzate don Luigi Cantù introduce la conferenza: "Confronto critico
del Cristo morto di Basilea e la copia di Azzate".
Il prof. Croci relatore della conferenza.
Chiesa Parrocchiale di Azzate. Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della
riproduzione fotografica del'originale di Basilea (in basso).
Giancarlo Vettore introduce la conferenza.
Copia a carboncino del pittore azzatese Giuseppe Triacca.

Chiesa Parrocchiale di Azzate.
Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della
riproduzione fotografica dell'originale di Basilea (in basso).




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