Le tre fasi del restauro della tela. |
Nella chiesa parrocchiale di Azzate, a sinistra dell’altare maggiore, sotto l’organo, è presente un dipinto piuttosto particolare: si tratta del Cristo Morto, che riproduce in modo impressionante la tela di Hans Holbein esposta al Kunstmuseum di Basilea. Questo è stato l’argomento dell’ultima serata del gruppo storico Aciate, che si è riunito mercoledì scorso, prima della pausa estiva (la prossima riunione del gruppo è fissata per il 5 aprile, sempre alla sede delle A.C.L.I.).
La riflessione di Giancarlo Vettore, anima del gruppo, si è
concentrata sulla presenza di quest’opera, che è legata, in qualche modo, al
suo originale conservato, appunto, a Basilea e risalente al pittore fiammingo Hans
Holbein, che la dipinse nel 1521. Ma le domande che si sono poste ed a cui
anche altri hanno tentato di dare una risposta sono diverse: a che epoca risale
il dipinto di Azzate? Che rapporto ha con l’originale? Come mai è presente
proprio ad Azzate una copia del capolavoro? Domande appassionanti a cui si è
tentato di dare delle risposte.
A che epoca risale il dipinto. Per questo, abbiamo una
testimonianza che ha dell’incredibile. Negli anni a cavallo della seconda
guerra mondiale, il dipinto, che, secondo le testimonianze, era stato staccato
dalla parete e lasciato arrotolato dietro gli stalli del coro, viene recuperato
grazie all’interessamento del parroco del tempo, don Angelo Cremona, che chiede
un giudizio ad un esperto, il restauratore prof. Mario Rossi, che, avendo a
disposizione la tela, oltre a restaurarla, affermò che si trattava di uno
studio dall’originale. E l’incredibile della vicenda del restauro consiste nel
fatto che l’opera venne portata al restauratore dal pittore azzatese Giuseppe
Triacca, che, in bicicletta, portando la tela arrotolata sotto il braccio
sarebbe andato fino a Varese, a casa del Rossi, vicino alla fabbrica
dell’Aermacchi. Non solo, ma il parroco, dicono i più informati, avendo saputo
che la fabbrica di aeroplani era stata bombardata, si sarebbe anche disperato,
temendo per la sorte del dipinto, che, invece, non subì danni.
Che rapporto ha con l’originale? Che i due dipinti siano
particolarmente simili non c’è dubbio, anche ad un occhio inesperto e potrebbe
essere che, in considerazione del fatto che il soggetto era particolarmente ben
riuscito, si sia pensato di replicarlo.
E qui rispondiamo alla terza domanda. Come mai la presenza
di una copia del capolavoro proprio ad Azzate? È ancora Vettore che cerca di
dare una risposta. In una pala di Callisto Piazza presente nella stessa chiesa
di Azzate, viene raffigurato il matrimonio mistico di S. Caterina d’Alessandria, S. Gerolamo ed il committente dell’opera, il senatore Egidio
Bossi. Costui, che nel 1538 acquista il feudo della Val Bodia, è autore di un’opera che viene
pubblicata dal figlio, tale Francesco Bossi, vescovo di Novara, proprio a Basilea. Quindi è probabile che
Francesco Bossi sia andato personalmente a Basilea e sia stato suggestionato da
questa raffigurazione del Cristo morto, fino al punto di ordinare una
copia del dipinto.
Queste risposte sono solo ipotesi, ma hanno una forte
probabilità di non discostarsi dal vero. Intanto, per gli appassionati di
Holbein, e per coloro che vogliono visionare un’opera davvero inquietante, una
visita alla chiesa di Azzate è da mettere in calendario.
Giancarlo Vettore ha
chiesto alla direttrice del museo di Basilea di avere una fotoriproduzione
dell’originale, e, presto, le due opere potranno essere paragonate da vicino.
La suggestività del Cristo morto di Holbein è così
forte che lo stesso Fedor Dostoevskij ne propone un’immagine nell’Idiota,
l’opera da lui pubblicata nel 1886 e costruita attorno alla figura del principe
Myskin. L’autore, che aveva sentito parlare del Cristo morto, si sarebbe
recato personalmente a Basilea per visionare l’opera e ne ha riprodotto
l’immagine in una pagina del suo romanzo. Non solo: pare che lo stesso
Lenin, decenni più tardi, durante il suo
soggiorno a Zurigo, si recasse appositamente a Basilea per osservare il
dipinto. Una riflessione sulla figura inquietante del Cristo l‘abbiamo trovata
anche nelle pagine dei primi numeri del Gazzatino della Valbossa, ad opera di
Luciano Tibiletti, allora consigliere della Pro Loco di Azzate.
In questo scritto, il Tibiletti non si pone a discutere
sull’autenticità o meno dell’opera, ma si limita ad una contemplazione del
dipinto, sull’estrema umanità che traspare dalla figura del Cristo, sul suo
realismo agghiacciante. È un Cristo stecchito nella rigidità della morte, e,
nella gamma delle passioni, è certo quella che lascia più sgomenti.
“La linea
perfettamente orizzontale suggerisce un diagramma della vita piatto. La necrosi
della mano e dei piedi dimostra iniziato il processo di putrefazione.”
È, secondo Tibiletti, una raffigurazione dell’uomo di fronte
al mistero della morte: “il naso affilato, la bocca aperta quasi nell’ultimo
grido lanciato dalla croce (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?).
L’occhio rimasto sbarrato richiama la fissità della morte” e la beffa finale
che nega ogni speranza. Ecco il richiamo di Dostoevskij che ritiene come
un’opera come questa può far perdere la fede. “Davanti a questo cadavere è
morta la speranza. Questa è l’ora delle tenebre, l’ora cupa in cui i discepoli
si tengono nascosti sgomenti, in preda allo sconforto e, forse, alla
disperazione.”
Ugo Marelli
Si
racconta che Dostoevskij contemplando a Basilea il "Cristo nel
sepolcro" di Hans Holbein il giovane cadesse in uno stato di deliquio e di
disperazione. Quell'occhio spalancato e vuoto, i lunghi capelli disordinati e
la barba aguzza e incolta, la bocca aperta congelata nella smorfia dell'agonia
e il corpo macilento e ossuto, la mano violacea e i piedi dalle nere unghie,
non lasciavano nello spettatore margine di dubbio alcuno. Cristo, il più bello
tra gli uomini, era veramente morto e mai sarebbe risorto! "Guardando quel
quadro la natura appare sotto l'aspetto di una belva immane (...) che abbia
assurdamente afferrato, maciullato e inghiottito, sorda e insensibile, un
Essere sublime e inestimabile: un Essere che da solo valeva l'intera natura con
tutte le sue leggi, tutta la terra, la quale forse fu creata unicamente perché
quell'Essere vi facesse la sua apparizione!". La descrizione che, nell'Idiota,
Dostoevskij fa del quadro di Holbein si contrappone indirettamente a quella che
un altro grande russo, il filosofo e teologo Pavel Florenskij, quasi
cinquant'anni dopo, traccerà di una sacra icona della tradizione ortodossa, la
"Trinità" di Andreij Rublev (1415 ca). Come la straordinaria purezza
di quelle composte immagini di angeli è frutto, secondo il martire della chiesa
russa (Florenskij fu fucilato da Stalin nel 1937), di una visione di Dio, e
deve quindi essere annoverata a pieno diritto tra le dimostrazioni della sua
esistenza, così il corpo martoriato e abbandonato del Cristo di Holbein è una
prova altrettanto inconfutabile della sua definitiva morte. Come Rublev, per
potersi sollevare a tanta divina bellezza, doveva "aver visto", anche
il pio Holbein, per raggiungere tanta realistica crudezza, doveva "aver
visto". Ma aveva visto la più orribile delle visioni: Dio stesso che è per
sempre morto! Per questo dinanzi ad essa il devoto Dostoevskij ebbe un accesso
epilettico. "Quel quadro! - esclamò il principe, colpito da un pensiero
improvviso: - quel quadro! Ma quel quadro a più di uno potrebbe far perdere la
fede!" (L'idiota).
Attraversarono quelle stesse
stanze per dove il principe era già passato; Rogòzin andava avanti e il
principe lo seguiva. Entrarono in un salone dove alle pareti erano appesi dei
quadri: tutti ritratti di ecclesiastici o paesaggi in cui non si riusciva a
distinguere chiaramente nulla. Sopra la porta che metteva in un’altra stanza
era appeso un quadro piuttosto strano per la sua forma: era lungo quasi due
metri e alto meno di una trentina di centimetri. Il quadro rappresentava il
Salvatore subito dopo essere stato deposto dalla croce. Il principe gli gettò
un’occhiata di sfuggita, come se gli ricordasse qualcosa, ma non si fermò e si
avviò verso la porta. Si sentiva molto oppresso e voleva uscire al più presto
da quella casa. Ma Rogòzin si arrestò improvvisamente davanti al quadro.
“Tutti i quadri che vedi qui,”
prese a dire, “sono stati comprati all’asta per uno o due rubli; a lui piaceva
comprarne. Un intenditore è stato qui a vederli: ha detto che sono tutte
croste, eccetto questo quadro qui sulla porta, che è stato anch’esso acquistato
per due rubli, ma che non è una crosta. C’era già stato uno che aveva offerto
al babbo di acquistarlo per trecentocinquanta rubli [...]. Ma io ho preferito
tenermelo.”
“Ma
questa.... questa è una copia di un quadro di Hans Holbein,” disse il principe,
che intanto aveva osservato meglio il quadro, “e, sebbene io non sia un grande
intenditore, mi pare che sia un’ottima copia. Questo quadro io l’ho già visto
all’estero e non ho mai potuto dimenticarlo. Ma che ti prende?...” [...]
“Dimmi un pò, Lev Nikolàevic, era
già un pezzo che volevo chiedertelo: tu credi in Dio o no?” riprese a dire
improvvisamente Rogòzin, dopo aver fatto qualche passo.
“Che strano modo di far domande
il tuo... e di guardarmi!” esclamò involontariamente il principe.
“A me piace contemplare questo
quadro,” mormorò Rogòzin dopo una pausa di silenzio, come se di nuovo si fosse
dimenticato della domanda che aveva fatto.
“Questo
quadro!...” gridò il principe, come colpito da un’idea improvvisa, “questo
quadro!...” ripeté.
“Ma
questo quadro può far perdere la fede!”
“Infatti
la si può perdere,” confermò inaspettatamente e all’improvviso Rogòzin.
(F. Dostoevskij – L’idiota)
La
pittura del '500 del '600
D'altronde, Holbein, che aveva adottato la cittadinanza di
Basilea, rappresenta ancora oggi una figura chiave del Kunstmuseum: uno dei
quadri del geniale artista viene considerato un po' come “il dipinto” della
città sul Reno.
Si tratta del “Cristo morto”, del 1521, una salma allungata su un telo bianco, davanti ad uno sfondo verde scuro. Una morte palpabile nella sua crudezza.
Un Cristo che Fiodor Dostojevski volle vedere da vicino: al museo salì perfino su una scala per ammirare meglio il dipinto, di cui parlerà nell’”Idiota”. Anche Lenin, decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recò appositamente a Basilea per osservare il quadro.
3. Cristo
morto. Modello straordinario e straordinariamente sconvolgente di teoria
del corpo come oggetto medico-anatomico - teoria non solo nel senso originario
di visione e sguardo pittorico - è l’immagine del Cristo deposto dalla croce,
dipinta nel 1521 da Hans Holbein il Giovane. Il Cristo morto è un corpo
rappresentato e indagato nella miseria della sofferenza e della morte, nella
immobilità più perfetta. È un corpo insieme troppo umano, fragilissimo, ma
anche, nella spietatezza del tratto pittorico, inumano, in-umanizzato. (Il
corpo dipinto da Holbein è, d’altra parte, lo stesso corpo, lo stesso cadavere
che negli stessi anni (1543) Andrea Vesalio dissezionava e trascriveva nel suo
trattato sulla humanis corporis fabrica.)Si tratta del “Cristo morto”, del 1521, una salma allungata su un telo bianco, davanti ad uno sfondo verde scuro. Una morte palpabile nella sua crudezza.
Un Cristo che Fiodor Dostojevski volle vedere da vicino: al museo salì perfino su una scala per ammirare meglio il dipinto, di cui parlerà nell’”Idiota”. Anche Lenin, decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recò appositamente a Basilea per osservare il quadro.
Corpo, quello del Cristo di Holbein, che appare come pietrificato: fascio di muscoli e di ossa e di tendini che una luce fredda e radente illumina, rilevando ogni sporgenza, ogni spigolo, ogni incavo, ogni ferita. Steso su di un panno bianco semplicissimo, un pezzo di tela senza ombra di drappeggio (solo poche pieghe corte e secche), posato su di una pietra orizzontale e inscritto in uno spazio lunghissimo e basso, privo di punti di fuga, implacabile ed essenziale, il Cristo di Holbein non risorgerà né il terzo giorno né mai. La vita sembra non essergli mai appartenuta. La forma perfetta del dipinto, come visione e teoria anatomica, è tutt’uno con la commozione fredda che sembra spirarne; ma l’imperturbabilità dell’esattezza descrittiva non può restituire il corpo di Cristo se non nella forma della degradazione e del disfacimento.
Immagine e simulacro definitivo dell’impossibilità di una comprensione analitica-astraente del corpo vivente e significante, la visione holbeiniana sigilla la (necessaria) inespressività programmatica e metodologica di un sapere che costruisce se stesso a partire dal frammento e solo a partire dal frammento: a partire dal corpo in pezzi. Il coltello e lo stilo del medico-naturalista greco, il coltello e lo stilo del medico del Cinquecento, sono, nel Cristo morto, il pennello di Holbein.
Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie
della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo
morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un
abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo
quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim
(nell’Idiota) mentre osserva una copia di questo quadro, questa
inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può
perdere la fede?».
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica. |
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica. |
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica. |
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica. |
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica. |
Mosca, Galleria statale Tretjakov, Trinità di Andreij Rublev. |
Il prevosto di Azzate don Luigi Cantù introduce la conferenza: "Confronto critico del Cristo morto di Basilea e la copia di Azzate". |
Il prof. Croci relatore della conferenza. |
Chiesa Parrocchiale di Azzate. Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della riproduzione fotografica del'originale di Basilea (in basso). |
Giancarlo Vettore introduce la conferenza. |
Copia a carboncino del pittore azzatese Giuseppe Triacca. |
Chiesa Parrocchiale di Azzate. Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della riproduzione fotografica dell'originale di Basilea (in basso). |
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