mercoledì 18 dicembre 2013

Villa Bossi-Tettoni-Benizzi-Castellani

Diciamo subito che la denominazione molto spesso usata di Villa Castellani è la semplificazione della più corretta dicitura di Villa Bossi-Tettoni-Benizzi-Castellani che sta a significare la successione cronologica delle famiglie che vi hanno avuto dimora.
Punto di partenza dell’indagine conoscitiva della villa è una lapide murata sulla facciata che dà verso il parco di Via Fiume e che reca la data del 1495.
Essa dice: “QUESTE COSTRUZIONI DEGLI ANTENATI DEI BOSSI, DA GIOVANNI BOSSI PADRE ACCRESCIUTE, FURONO AMPLIATE DA MATTEO BOSSI GIURECONSULTO E SENATORE SU UN LUOGO DISTRUTTO ED ABBANDONATO ED INOLTRE EGLI FORTIFICO’ CON UN MURO ED UN FOSSATO ED ABBELLI’ CON ALBERI, PARCO ED ORTO NEL 1495”.
Scarse sono le notizie che abbiamo sugli antenati di Matteo Bossi ma la lapide ci informa che essi erano già presenti in Azzate da molte generazioni e proprio sul posto dove ora sorge la villa (oggi Palazzo Municipale) vi erano già le case forti dei Bossi. Queste, a causa del tempo o di altri eventi che non conosciamo, erano state abbandonate e si presentavano molto diroccate. (Qui ci starebbe bene un disegno di case diroccate).

Le vecchie case forti dovevano essere pressapoco così.

Fu il padre del predetto Matteo che iniziò il restauro, mentre il figlio ne portò a termine l’ampliamento e l’abbellimento nelle forme che, grosso modo, sono rimaste intatte anche dopo gli interventi eseguiti nel Settecento e che possiamo tuttora vedere.
Il capostipite di questo ramo dei Bossi fu Montolo dal quale discendono tre grandi rami: uno si trapiantò nel Lodigiano; un altro, che chiameremo del conte Giulio Cesare, prese dimora nell’attuale Villa Borsa, sede della rinomata Locanda dei Mai Intees; il terzo che chiameremo ramo di Cristoforo. Da quest’ultimo discendono due femmine che per ragioni di matrimonio portarono in altre famiglie due fra le più belle ville di Azzate: una sposò un Alemagna e si portò in dote l’attuale Villa Berla (più conosciuta come Villa Ferrario in Via Volta ma che sarebbe più esatto chiamare Villa Bossi-Alemagna-Ferrario) e l’altra sposò un Tettoni che spiega così la denominazione richiamata all’inizio.
Ricordiamo che generalmente, in passato, i matrimoni si facevano tra Bossi e Bossi e questo proprio per non intaccare il patrimonio che, diversamente, nel giro di poche generazioni, si sarebbe troppo polverizzato – cosa che invece avvenne – (pensiamo alla Ca’ Mera, alla Villa Piana, alla Villa Riva-Cottalorda-Ghiringhelli, alla Villa Mazzocchi, alla Villa Zampolli, oltre le tre già citate, tutte di proprietà Bossi ma passate poi in altre famiglie).
Di Giovanni Bossi, trisnonno del Matteo di cui stiamo parlando e nonno di altro Giovanni che iniziò la ricostruzione della villa, sappiamo che esercitò la professione di notaio come il padre e, in un suo rogito del 6 maggio 1444, si definì come “figlio di Andrea abitante in Azzate”.
Da Giovanni discende Guido, anch’egli notaio, che il 18 dicembre 1430 intervenne con altre persone ad un “convocato” tenutosi ad Azzate.
Da Guido discende Giovanni, padre di Matteo, che, continuando la tradizione dei suoi avi, fece parte anche lui del Collegio dei Notai di Milano. Il 13 giugno 1483 rilasciò una procura al figlio Matteo, di cui ci stiamo occupando, affinché provvedesse ad una vendita ad un altro suo figlio di nome Cristoforo.
Di Matteo e di sua moglie Polissena, che possiamo considerare i continuatori dell’opera di trasformazione della villa nelle forme in cui oggi la vediamo, cui aveva già messo mano il rispettivo padre e suocero Giovanni Bossi, possiamo dire che il primo morì nel 1492 all’età di 72 anni, ossia tre anni prima dell’ultimazione dei lavori, e fu sepolto nella Chiesa dell’Incoronata di Milano, dove si conserva ancor oggi la sua lapide funebre. (Inserire foto della lapide).
Di un suo medaglione già esistente sul fronte della villa e trasportato al Museo Archeologico del Castello Sforzesco di Milano, riferisce l’Archivio Storico Lombardo e sarà argomento di un nostro articolo a parte.
Giovanni che viene detto “patrizio milanese” nella sua lapide (su di essa è anche scolpito il suo bel ritratto preso di profilo), oltre alla sua fama di letterato e uomo pio sembra non aver goduto di particolari benemerenze e favori materiali nella sua vita. Fu suo figlio Matteo che seppe raccogliere maggiore fortuna e con l’aiuto del suocero Luigi Bossi iniziò la sua scalata sociale. (Ricordiamo che quest’ultimo discendeva dal cosiddetto ramo dei Bossi di Azzate, che in seguito ottenne il titolo di conte, ed era fratello di quel Francesco Bossi che divenne vescovo di Novara e cugino di quel Egidio Bossi che nel 1538 fu il primo feudatario della Val Bodia).
Matteo dunque il 1° ottobre 1450 venne eletto capitano di Casteggio (Pavia) per un anno. La sua importanza nella vita pubblica aumentò nel 1484 quando entrò a far parte del Collegio dei Giureconsulti.
L’11 dicembre 1487 donò al Convento di Crosio i beni che suo nonno Guido aveva avuto dalla Mensa Arcivescovile di Milano e, in questo stesso paese, acquistò dal duca di Milano nel 1495 il dazio dell’imbottato insieme a quello di Torretta.
Due anni prima di morire fu nominato membro del Consiglio di Giustizia di Milano il 7 gennaio 1495.
Facciamo ora qualche passo indietro e vediamo di conoscere la famiglia di Polissena che tanta parte ebbe nella scalata sociale di Matteo, suo futuro marito.
Francesco I Sforza il 1° maggio 1452 aveva concesso ai fratelli Luigi e Teodoro Bossi il feudo di Meleto Lodigiano, ultimo lembo di terra milanese verso Cremona.
Luigi Bossi morì nel 1453, lasciando una sola figlia di nome Polissena, avuta dalla moglie Cecilia Visconti figlia di Lancillotto dei condomini di Castelletto, alla quale venne riconfermato lo stesso feudo l’8 gennaio 1458, unitamente la marito Matteo.
Questo coniugi restaurarono ed ornarono il Castello di Meleto; ne fortificarono le fosse e fecero costruire gli acquedotti per l’irrigazione. Fabbricarono anche la Chiesa di S. Giovanni Battista che diventò poi la Chiesa Parrocchiale di S. Cristoforo di Meleto.

Il castello di Meleto Lodigiano (MI).

In questa chiesa esistevano due medaglioni in marmo rappresentanti l’effigie dei feudatari che, dopo molte vicende, sono stati acquistati dal compianto signor Alessandro Orsi e fino al 2013 facevano bella mostra di sé in Ca’Mera ad Azzate.
Una pergamena miniata del 1490 rende ancora più immediata l’opera di restauro compiuta dai coniugi: il documento reca nel margine superiore lo stemma dei Bossi col bue rampante ed iniziale maiuscola miniata. Al basso dello scritto vi è la veduta del villaggio con peschiera, bosco, giardino, frutteto e palazzetto di stile bramantesco. Ai fianchi di questa grande miniatura, la Polissena incinta, vestita nel ricco elegante costume delle gentildonne della corte di Ludovico il Moro. Il marito Matteo è invece raffigurato con toga lunga e berretto rosso, essendo magistrato.
Queste due belle figure sembrano per alcuni della scuola di Leonardo da Vinci e sono molto singolari e preziosi poiché rappresentano due personaggi storici ed un villaggio lombardo nel medio Evo, che più non esiste.

Tondo di Matteo Bossi recuperato dal signor Alessandro
 Orsi da Villa San Remigio di Pallanza , che fino al 2013
faceva parte dell'arredamento di Villa Orsi di Azzate.
Tondo di Polissena Bossi recuperato dal signor Alessandro
Orsi da Villa San Remigio di Pallanza, che fino al 2013
faceva parte dell'arredamento di Villa Orsi di Azzate.


Come doveva essere in origine la villa? Per rispondere a questa domanda basterà portarsi in prossimità dell’andito che mette in comunicazione il parco Ovest con quello posto a Est e si potrà osservare che i locali ora occupati dalla Biblioteca e dalla Sala Fontana, pur essendo di normali dimensioni, hanno due entrate: una che dà sul portico e l’altra che dà sull’andito. Questo è anomalo e costituirebbe un spreco inutile. Se invece consideriamo le porte che danno sull’andito come la sequenza a cannocchiale, una dopo l’altra, delle porte che mettono in comunicazioni i locali adiacenti allora arriviamo ad affermare che l’attuale andito altro non era, in origine, che un locale chiuso e venne probabilmente aperto per mettere in comunicazioni i due parchi in occasione dei grandi lavori di ristrutturazione per la creazione dello scalone d’onore e del portico.
Se questa ipotesi è esatta anche l’attuale portico venne creato sacrificando almeno tre locali, abbattendo due o tre lati perimetrali di ognuno di essi e inserendo sul fronte delle colonne al posto del muro. Sopravvivono ai due lati del portico le due finestre che possiamo immaginare sorelle delle due scomparse e ipotizzando che al posto della terza vi fosse invece una porta d’ingresso abbastanza capiente.
In questa ottica tutte le aperture del piano terreno, del piano nobile e del mezzanino sarebbero state in simmetria tra di loro e sicuramente avrebbero conferito alla facciata una pesante uniformità ben lontana dalla grazia che invece conferisce l’attuale colonnato che rompe una costante architettonica.
Si può avanzare l’ipotesi che l’ingresso principale della villa non fosse quello attuale verso la Crosa ma fosse bensì quello verso l’attuale Via Fiume e conforta questa ipotesi il fatto che nel 1937 l’atto di morte del conte Gian Antonio Benizzi registra la sua residenza in Via Fiume n. 4.
Da questo ingresso partiva anche la cosiddetta strada dei cavalli che veniva percorsa dalle carrozze
che attraversavano il parco, rasentavano il boschetto di bambù, fino alla rimessa e alle stalle dislocate al piano terreno dell’attuale Villa Lampugnani.




Il salone delle feste.


L'anticamera che dà accesso alla cappella privata e alla torretta.



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