lunedì 9 marzo 2015

IL COLLE DI SAN QUIRICO



Veduta del lato settentrionale del Colle di San Quirico. Sulla sua sommità si notano
la torre e il belvedere.
Veduta del lato occidentale del Colle di San Quirico. Sulla sua sommità si notano il
belvedere, la torre e la Villa Bassetti.


Veduta parziale del Colle di San Quirico da Buguggiate.



Antichi percorsi: storia, tradizioni e leggende di paese.

 (Articolo di Anna Bernasconi tratto dal blog de "I Viaggiatori ignoranti" all'indirizzo http://viaggiatoricheignorano.blogspot.it").

Il 1° maggio 2014 ho preso parte ad una piccola ma interessante passeggiata collettiva: "Passo passo fra storia e natura, visita guidata lungo l'antico tragitto tra Vegonno e San Quirico", speciale occasione in cui Anna Carla Bassetti e Alessio Fornasetti ci hanno accolti sulla loro bella collina. Li ringrazio molto per avermi comunicato di gradire la pubblicazione di questo post, trattandosi in alcuni casi di scatti fatti all'interno della loro proprietà privata.

Ringrazio anche Giancarlo Vettore,  fonte delle curiosità storiche.

Inizio il racconto con uno scatto fatto dal punto d'arrivo verso il punto di partenza, la piana di Vegonno. In passato avremmo potuto vedere transitare i carri armati dei soldati della Caserma Garibaldi di Varese che aveva un deposito al Lago di Monate... Immagine poco allegra ma suggestiva!

Primo di maggio, festa dei lavoratori. Saranno di più quelli che preferiscono riposare o quelli che vogliono far festa? Forse una cosa non esclude l'altra, magari rilassandosi in piacevole compagnia all'ombra di una pineta.
Qualche decennio anno fa, i lavoratori azzatesi (Azzate è il mio paese) avevano preso l'abitudine di passare la giornata a loro dedicata presso la torre di San Quirico, sull'omonimo colle. Oggi quell'area non è più pubblicamente accessibile e la torre si può normalmente vedere solo in qualche scorcio, da lontano. Ma un bel gruppo si è incontrato, la mattina del 1° maggio 2014, davanti alla chiesetta di San Giorgio in frazione Vegonno,  per rispolverare le vecchie abitudini e gli antichi percorsi.





Curiosa la piccola deviazione al "fontanino di San Carlo", una polla d'acqua dalla leggendaria origine: la tradizione vuole che San Carlo Borromeo, avendo fatto tappa ad Azzate per una visita pastorale, si trovasse a passare per quei sentieri.  Ad un tratto, assetato, scese da cavallo e dove il suo bastone toccò terra prese a sgorgare una fresca fonte d'acqua che ancora oggi,  lentamente,  scorre.

Siamo poi tornati al sentiero verso il Colle di San Quirico e una volta giunti siamo stati accolti dai signori Fornasetti.  Su una parte dell'area è stata ripristinata la coltivazione della vite,  già esistente in tempi passati e,  salendo attraverso i suoi filari,  siamo infine giunti alla sommità del colle.

La torre è stata fatta costruire nel 1878 dal nobile Claudio Riva,  in un'area che sicuramente veniva utilizzata anticamente:  una lapide (oramai dispersa) ha svelato che già nel quinto secolo sorgeva un monastero,  di cui sono ancora visibili alcuni frammentari resti.

Meno anticamente gli azzatesi salivano alla torre per passare delle ore piacevoli,  godendo del bel panorama e dell'ombra della pineta,  anch'essa voluta dal nobile  Claudio Riva.



Abbiamo così iniziato il mese di maggio ad Azzate, riscoprendo un po' delle vecchie abitudini ed ammirando bellissime rose,  fiore tradizionalmente legato all'uva e simbolo di questo mese.

Quasi dimenticavo: ringrazio anche mio papà, Emilio Bernasconi, per aver recuperato le vecchie immagini che ho accostato ai miei recenti scatti!



ANTICHI SENTIERI



Prima di descrivere il percorso che faremo domani a piedi, occorre dare qualche informazione sulla Via Francigena o Romea poiché si ritiene che la strada che corre sotto la Collina di San Quirico, scende a Vegonno e si dirige verso il fiume Ticino, sia un percorso che effettuavano i pellegrini per raggiungere la più importante e rinomata Via Francigena.



E’ un percorso che gli amanti della natura conoscono molto bene e si innesta nella più famosa e frequentata passeggiata nella Piana di Vegonno che, nel passato, ebbe un ruolo molto importante, oggi sminuito da altre vie di comunicazione più consone alle esigenze della vita moderna.



Questo è il simbolo del pellegrino che è stato adottato per contrassegnare la segnaletica della Via Francigena.



Con la linea tratteggiata vedete il cosiddetto itinerario di Sigerico effettuato nel 990 (decimo secolo) da Canterbury fino a Roma.
Con la linea continua vedete i vari percorsi medioevali che si sono susseguiti.



Un’altra cartina in cui sono evidenziati i nomi dei vari “cammini” e delle varie “vie” con le varianti che si potevano anche percorrere via mare.



Questo invece è il percorso diretto da Canterbury fino a Roma.



Per entrare in Italia c’erano tre alternative:  quella del Gran San Bernardo, quella del Monginevro e quella di Ventimiglia.
Le prime due si congiungevano a Vercelli; la terza si congiungeva a Sarzana.



Questo è l’assetto delle strade romane, le cosiddette vie consolari, parte delle quali furono utilizzate dalla Via Francigena, specialmente la Via Emilia e la Via Cassia.



Nel 2007 è stata aperta la Strada del Sud che da Roma porta in Puglia fino a Santa Maria di Leuca.
Da qui, via mare, il cammino proseguiva per la Terra Santa e per Gerusalemme.



L’abbigliamento tipico del pellegrino era costituito da un grande cappello, il mantello, i pantaloni, i sandali, la bisaccia e il bastone con la borraccia per l’acqua.



Questo invece è un pellegrino del Cammino di San Giacomo di Compostela con la caratteristica conchiglia.



In una stampa antica due pellegrini che si incontrano e si dirigono verso un monastero, luogo di accoglienza per eccellenza dei pellegrini che qui potevano ricevere conforto corporale  e spirituale.



Un pellegrino dei nostri tempi che, all’abbigliamento tradizionale, aggiunge un ombrello, appeso al collo del suo mantello.



Anche le grandi chiese e le grandi abbazie venivano scelte dai pellegrini per pregare sulle reliquie dei santi e, qualche volta, facevano delle deviazioni pur di raggiungerle.



L’attrezzatura dei pellegrini di oggi è più tecnologica. Notate i materassini, le racchette e c’è persino un ombrello.



La Via Francigena, dove era possibile, cercava di sfruttare le antiche strade consolari costruite dai Romani.
Qui vediamo un pellegrino moderno che cammina sul caratteristico “basolato” di una strada romana.


 Altri pellegrini su una strada consolare.



Questi potremmo essere noi domani alla camminata di Vegonno da S. Giorgio alla torre di San Quirico.



Un pellegrino dei nostri tempi con nessun tipo di attrezzatura moderna.



Dei giovani percorrono spensierati un tratto della Via Francigena. Quasi sicuramente non andranno fino a Roma, ma per loro è forse un’occasione per vivere i sentimenti che animavano gli antichi pellegrini.



Qui vediamo un certificato di passaggio che, con l’apposizione dei vari timbri, poteva essere la dimostrazione di aver percorso tutta la Via Francigena o parte di essa.



Questa è la caratteristica segnaletica della Via Francigena con il pellegrino stilizzato.

STRADA DEI PELLEGRINI PER RAGGIUNGERE LA VIA FRANCIGENA:

- Ganna
- Santa Maria del Monte
- Bizzozero
- Schianno
- Erbamolle
- Montonate
- San Pancrazio
- Vinago
- Centenate
- Arsago Seprio
- Santuario della Ghianda
- Somma Lombardo
- Maddalena
e poi lungo il fiume Ticino.

Questo potrebbe essere il percorso di un pellegrino che utilizzava la nostra strada.
Possiamo fare l’ipotesi che giungesse dalla Valganna e quasi sicuramente avrebbe fatto sosta o, comunque, sarebbe passato accanto alle chiese dei predetti paesi.


 Con l’ausilio delle mappe del cosiddetto Catasto di Maria Teresa del 1722 vediamo come era disegnata la strada che a noi interessa.



Come potete vedere dal cartiglio si tratta della mappa di Azzate, in pieve di Varese, che è stata realizzata appositamente per



il conte don Giulio Cesare Bossi che era uno dei più grossi proprietari di terreni di Azzate.



Qui vedete i terreni di Vegonno che confinano con il territorio di Brunello.



Stringendo l’inquadratura possiamo distinguere con maggiore precisione la strada che segna anche il confine tra i due paesi.



Stringiamo ancora un poco e vediamo di seguire sulla mappa luoghi a tutti conosciuti in modo da capire perfettamente dove siamo.
Qui c’è l’attuale cimitero.
Questa è la strada che prosegue per Vegonno.
Qui c’è la Trattoria del Cacciatore.
Qui c’è l’attuale Oratorio di San Rocco.
Questa è la strada che prosegue per la cosiddetta Piana di Vegonno.
Questo è il punto preciso dove faremo partire il nostro “Antico sentiero”.



Questa è la vera mappa del Catasto di Maria Teresa.
Vi faccio vedere lo stesso punto che abbiamo assunto come inizio del nostro “Antico sentiero” che, come potete vedere, una volta si trovava vicino all’Oratorio di San Giorgio.
L’oratorio era in posizione diversa dall’attuale: più verso la collina e si trovava in condizioni assai precarie. Tanto è vero che venne riedificato nella posizione attuale, più vicino alla case coloniche.
La freccia indica il punto preciso del confine del territorio di Caidate e di quello di Brunello.



Rivediamo lo stesso punto, messo in relazione con le case di Vegonno. Notate il mappale . 524 che riprenderemo nella slide successiva.



Mappale n. 524 che abbiamo lasciato nella slide precedente.
Il sentiero continua.
In prossimità del mappale n. 655 il sentiero si biforca: inizia la cosiddetta Strada delle Varossole.
Il nostro “Antico sentiero” abbandona il confine e rientra sia a destra che a sinistra in territorio di Azzate.
Il sentiero inizia a salire.



Al termine del sentiero in salita, un breve pianoro e poi l’incrocio con la strada che dall’Oratorio di San Rocco sale a Brunello.
Il nostro sentiero prosegue e passa sotto i mappali 647 e 646 che sono parte dell’attuale proprietà Bassetti Forsasetti.



Una visione d’insieme della Collina di san Quirico.
Vi faccio notare la strada che dall’incrocio di prima scende all’Oratorio di San Rocco.
La strada provinciale (Via Piave) non era ancora stata costruita.
Vedete il Castello di Azzate, l’Osteria della Colomba.
Per andare a Daverio si doveva passare davanti al Castello e si scendeva dalla strada del Fontanone.



In questo particolare vedete la “Cappella di San Rocco”.
La strada che sale a Brunello si biforca e sotto la fattoria Canale inizia la strada che porta a Vegonno. (Questa strada veniva percorsa per recarsi al cimitero senza dover percorrere la provinciale, trafficata dalle automobili).



I terreni del versante Nord della Collina di San Quirico dove al centro viene rappresentato il cosiddetto "Bosco rotondo" per la sua forma quasi perfettamente circolare.



Qui abbiamo una panoramica del nostro “Antico sentiero”.








Il roccolo è un sistema antichissimo per la cattura degli uccelli. Si tratta di una costruzione vegetale di alberi di carpino opportunamente intrecciati e potati, così da creare una galleria praticabile con al centro uno spiazzo erboso o un boschetto. Dopo che un gran numero di volatili si è posato nello spazio posto al centro della galleria, dal casotto viene agitato lo spauracchio preceduto dal fischio dell’uccellatore. La fuga in senso orizzontale porta gli uccelli dritti verso una rete pressoché invisibile tesa tra le arcate della galleria. Dal 1968 questo strumento di caccia è proibito.
























Percorso ideale della Strada dei pellegrini che si unisce alla Via Francigena, dall’Oratorio di San Giorgio di Vegonno alla Torre di San Quirico.
































Veduta aerea di Vegonno.


Sulla sommità della Collina di San Quirico nel 1962 su progetto dell'architetto Ludovico Magistretti è stata costruita la Villa Bassetti, così denominata dal suo proprietario il dottor Piero Bassetti, imprenditore e primo presidente della Regione Lombardia dal 1970 al 1974.


Dottor Piero Bassetti.

Ci sembra giusto proporre un profilo del noto architetto.

MAGISTRETTI LUDOVICO di Dario Scoller.


Detto Vico,  nacque a Milano il 6 ottobre 1920, primogenito di Pier Giulio e Luisa Tosi.
Il padre, architetto, si affermò negli anni Trenta in Lombardia come un raffinato progettista di opere private e pubbliche di carattere novecentista. In uno di questi edifici dove stabilì lo studio, all’angolo tra via Conservatorio e via Bellini, si trasferì con la famiglia nel 1934.
Dopo aver frequentato il liceo classico Parini, Magistretti si iscrisse, nel 1939, alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano.
Richiamato alle armi durante la guerra, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rifugiò in Svizzera. Esule a Losanna fu internato assieme ad altri architetti italiani, tra i quali Giulio Minoletti, Paolo Chessa, Luigi Frattino, Angelo Mangiarotti. Qui ebbe modo di seguire i corsi di Ernesto Nathan Rogers al Champ universitaire italien (CUI) diretto da Gustavo Colonnetti e di partecipare alle attività del Centre d’étude pour le bâtiment (Centro di studi in Svizzera per la ricostruzione italiana) che, sotto la guida di Rogers, elaborò una serie di proposte per la ricostruzione che spaziavano dall’urbanistica all’arredamento.
Rientrato a Milano alla fine della guerra, nell’agosto del 1945 si laureò in architettura. Iniziò allora la sua attività professionale nello studio lasciatogli dal padre, morto il 15 febbraio di quell’anno, collaborando inizialmente con Chessa. Nel gennaio del 1946 si sposò con Paola Rejna, da cui ebbe Stefano (1947) e Susanna (1951).
Partecipò attivamente, negli anni del dopoguerra, alle riunioni del Movimento studi per l’architettura (MSA) che riuniva architetti già attivi negli anni Trenta, come Rogers, Ignazio Gardella, Franco Albini, e giovani neolaureati come Giancarlo De Carlo e Marco Zanuso, tutti accomunati da istanze antitradizionaliste dell’architettura italiana e, prima che da modalità operative e disciplinari, da un orientamento etico.
Nel 1946, alla prima mostra del RIMA (Riunione Italiana Mostre Arredamento) al Palazzo dell’arte della Triennale di Milano, dedicata all’arredamento popolare per la ricostruzione, Magistretti presentò alcuni mobili essenziali pensati per forme di produzione seriale. Con questi oggetti – assieme ai tavolini sovrapponibili e alla libreria presentati nella mostra Il mobile singolo, organizzata da Fede Cheti nel 1949, e a un tavolo circolare-ovale trasformabile, progettato nel 1951 per l’azienda Tecno – fece il suo esordio nel mondo del design di cui fu, in ambito italiano, uno dei maggiori protagonisti. Nel 1947 Magistretti fu tra i curatori della Mostra dell’industrializzazione edilizia alla VIII Triennale. Alla IX Triennale del 1951, dove vinse la medaglia d’oro per l’architettura, organizzò e allestì, con Gabriele Mucchi, la mostra Architettura del lavoro e nel 1954 (X Triennale) curò, assieme a Gardella, Luigi Caccia Dominioni e altri, la Mostra dello standard. Nel 1956 fu tra i fondatori dell’Associazione per il disegno industriale (ADI), che organizzò le prime iniziative volte a promuovere la formazione e lo statuto professionale dei designer italiani, tra cui il premioCompasso d’oro (nato due anni prima da un’idea di Gio Ponti in collaborazione con La Rinascente), il più prestigioso riconoscimento italiano nell’ambito del design. Magistretti fu membro di giuria del premio per le edizioni del 1959 e del 1960.
Parallelamente a queste iniziative, Magistretti sviluppò la propria attività di architetto nello studio di via Conservatorio con un unico collaboratore, il geometra Franco Montella, che sarebbe rimasto con lui per cinquant’anni. La sua iniziazione all’architettura avvenne con i complessi residenziali per l’INA-Casa, compresi nel piano di sviluppo per l’edilizia pubblica, realizzati in Lombardia negli anni 1949-53 e 1957-59, e con le sedi del Credito varesino in Piemonte. Il carattere minimalista di questi progetti, coerente con la limitatezza delle risorse economiche, fu accompagnato da uno studio accurato della composizione planimetrica e da una ricca elaborazione di dettagli costruttivi. Ma fu a Milano che Magistretti realizzò, negli anni Cinquanta, alcune opere destinate a metterlo in luce nell’ambiente dell’architettura italiana del dopoguerra, accomunandolo a figure di primo piano come Caccia Dominioni e Gardella. Dopo il complesso di case in via Santa Marta (1952), nel quale comparve uno dei suoi motivi ricorrenti nel disegno dell’architettura residenziale urbana – la modulazione dei corpi di fabbrica attraverso volumi aggettanti –, progettò, insieme a Mario Tedeschi, la chiesa di S. Maria, nel nascente QT8 a San Siro. In questo edificio, realizzato nel 1955 come parte del quartiere modello della ricostruzione italiana, Magistretti diede forma a uno spazio aereo a pianta centrale poligonale, nel quale una fessura sul coronamento, disposta lungo tutto il perimetro, permette l’ingresso della luce naturale radente sul soffitto. Nel progetto del 1953 per la Torre del parco in via Revere, ultimata nel 1956, affrontò il tema del grattacielo, oggetto in quegli anni, a Milano, di varie e discusse interpretazioni. Nell’edificio, disegnato con Franco Longoni, i fronti della Torre vengono differenziati attraverso la diversa configurazione e accentuazione degli aggetti delle terrazze panoramiche che ne sottolineano, in contrasto con il carattere 'brutalista' della struttura in calcestruzzo, l’aspetto residenziale. Nel 1956 venne ultimato anche il Centro ricreativo a Rescaldina (Milano), connotato dalla originale soluzione della copertura della sala cinematografica a porzioni di volta degradanti e dal rivestimento in mattoni. Nell’edificio per uffici in corso Europa, completato nel 1957, Magistretti, partendo dall’organizzazione interna degli spazi di lavoro, disegnò una facciata che frammenta la compattezza del fronte costruito, attraverso l’iterazione di moduli nei quali i pieni e i vuoti sono composti in modo asimmetrico.
Una menzione a parte merita Casa Arosio, realizzata sulla pineta di Arenzano (Genova) tra il 1956 e il 1959 e caratterizzata da un'articolata composizione di volumi sovrapposti in intonaco bianco, sagomati dai rivestimenti della copertura in ardesia, che si guadagnò la copertina della rivista Casabella continuità (diretta da Rogers) e che divenne, di lì a poco, uno dei casus belli della querelle tra la cultura razionalista italiana e quella europea. Nel 1959, infatti, all'XI congresso dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna) di Otterlo (Paesi Bassi), l’opera, per la caratterizzazione data dall’uso dei materiali e delle imposte in legno a persiana (assieme ad altre opere come la Torre Velasca, la mensa Olivetti di Ivrea di Gardella, le case a Matera di De Carlo), fu al centro di un'aspra critica che rimproverava all’architettura italiana di tradire, con una sorta di neorealismo vernacolare, le matrici più pure dell’architettura razionalista di matrice centroeuropea.
Negli anni Sessanta l’attività di progettazione in ambito architettonico proseguì con numerosi interventi relativi a residenze, complessi turistici, edifici industriali e uffici.
All’articolazione espressionistica dei volumi, funzionale alla creazione di spazi interni continui ad altezza differenziata di ville extra urbane come quelle del 1962 – casa Bassetti ad Azzate (Varese) o casa Il Roccolo a Ello (Lecco) –, fa da contrappunto, a Milano, la scomposizione asimmetrica della massa attraverso ballatoi aggettanti, come nell’edificio per uffici e abitazioni in via Leopardi (1961), in quello per abitazioni in piazzale Aquileia (1964), o ancora nell’intervento in via Conservatorio (1963-66), attiguo allo studio Magistretti nel quale, nel prospetto su strada, le balconate sono scavate nel volume in intonaco rosso, mentre diventano verande aggettanti nel lato interno che affaccia sul giardino.
Nella sezione trapezioidale dei volumi in mattoni a vista, il progetto per il municipio di Cusano Milanino, realizzato tra il 1966 e il 1969, chiarisce il debito di Magistretti nei confronti delle architetture di Alvar Aalto e Arne Jacobsen: il riferimento è ripreso anche in casa Muggia a Barzana (Bergamo) del 1973. Risale al 1969 la realizzazione del quartiere residenziale San Felice a Segrate (Milano). In un’epoca di grande conflitto sociale e ambientale, il progetto urbanistico ed edilizio, messo a punto assieme a Caccia Dominioni, ripropose l’utopia antiurbana della città giardino, con le abitazioni disposte a schiere basse e sinuose, immerse nel verde, e dieci torri ispirate alla configurazione a terrazze aggettanti del progetto di piazzale Aquileia.
Il complesso per abitazioni, uffici e negozi, in un isolato tra piazza San Marco, via Pontaccio e via Solferino a Milano, rappresentò un punto di crisi nell'attività architettonica di Magistretti. Progettato nel 1966 e realizzato tra il 1970 e il 1973, l’edificio fu il frutto di un accurato lavoro 'a levare', con le bucature irregolari delle finestre rettangolari e la struttura portante che emerge a tratti, come una bianca ossatura, dalla massa compatta in intonaco rosso. La sensibilità ambientale e storica nei confronti del costruito, lascito della lezione di Rogers, sembra qui scontrarsi con le geometrie minimali e scevre di dettagli del Magistretti industrial designer.

IL DESIGN COME ESERCIZIO DI ELEGANZA E RAZIONALITÀ
Nel corso della sua attività architettonica, la necessità di completare l’arredo degli edifici – stante la carente offerta di prodotti di serie da parte della nascente industria – offrì a Magistretti l’occasione per sperimentare le prime forme di produzione a serie limitata. Nel 1959 progettò, con Guido Veneziani, la Club House del circolo del golf di Carimate (Como). Per l’arredo della sala ristorante disegnò una sedia con braccioli e sedile impagliato, ispirata alla tradizione contadina e in sintonia con il filone europeo (William Morris, Adolf Loos, Kaare Klint) che identificava il gusto moderno con la semplicità e autenticità degli oggetti di fattura artigianale.
Presentata alla Triennale di Milano del 1960 la sedia, denominata Carimate, con le parti in legno tornito dal caratteristico colore rosso laccato, rappresentò l’inizio di una intensa attività di collaborazione con il dinamico e illuminato imprenditore brianzolo Cesare Cassina, che la mise in produzione nel 1962. Per Cassina Magistretti progettò, per trent’anni, innumerevoli oggetti di serie tra cui sedie, letti e imbottiti. Nel 1958, dal disegno di alcuni arredi per il grande albergo Roma a Piacenza, nacque il tavolo in ferro e vetro Amaja, prodotto da Gavina nel 1960, azienda per la quale, negli stessi anni, Magistretti disegnò il divano e la poltronaLoden e il tavolino Caori. Contemporaneamente (1961), con la lampada a steloOmicron e la lampada Lambda, iniziò la sua collaborazione con Artemide, l’azienda fondata da Ernesto Gismondi.
Alla base del disegno delle lampade (sia di quelle sviluppate per Artemide, sia di quelle disegnate a partire dagli anni Settanta per l’azienda Oluce) stava la generazione di forme per sezionamento o giustapposizione di solidi geometrici elementari, in particolare sfera, cono e cilindro. Un procedimento che, come egli stesso dichiarò, mirava alla definizione di un archetipo dell’oggetto, nel disegno del quale la geometria, limitando le possibilità d’invenzione, permetteva un controllo razionale degli esiti formali. Le lampade Omega, Erse, Clitunno, e la serie dei Clinio, sono caratterizzate da una parabola diffusore ottenuta dal sezionamento di una sfera; la Cirene (1965) da porzioni di sfera sovrapposte; la lampada da pareteMania (1963) è formata da due quarti di sfera, di dimensioni diverse, sovrapposti e contrapposti. Sulla sfera come generatrice di forme sono basate anche due lampade da tavolo del 1965: l’Eclisse e la Dalù, entrambe prodotte da Artemide. La prima, divenuta presto un’icona del design, è composta da tre semisfere cave in metallo: una funziona da base d’appoggio, mentre le altre due (sovrapposte e concentriche a questa) contengono la sorgente luminosa e regolano l’intensità della luce attraverso l’occultamento progressivo della sorgente. La lampada, che rappresentò uno dei primi prodotti di massa nel campo dell’illuminazione domestica, fu premiata, nel 1967, nella IX edizione del Compasso d’oro, anno nel quale Magistretti fu insignito del titolo di accademico di San Luca.
Il rapporto con Artemide, che in quegli anni intendeva dedicarsi oltre che all’illuminazione, anche alla produzione di mobili in serie, si fece più intenso a partire dal 1964, con il disegno di Demetrio, un tavolino sovrapponibile ideato sezionando i lati di una bacinella per fotografi in polietilene. Questo progetto diede inizio a una sperimentazione sull’oggetto d’arredo in materiale plastico che portò Magistretti ad affiancare le coeve e pionieristiche esperienze di Zanuso e Joe Colombo per Kartell. La lampada da terra Chimera (1966), costituita da un foglio di metacrilato opalino curvato e corrugato, fornì la soluzione per la realizzazione della sedia impilabileSelene (1967). In questa seduta, realizzata in un unico stampaggio di reglar (resina stampata rinforzata), come nella successiva variante a poltroncina Vicario (1970), la conformazione sinusoidale della sezione delle gambe conferì all’oggetto quei caratteri di rigidità e leggerezza che ne permisero l’utilizzo in un’ampia gamma di situazioni.
Con la sedia Golem, disegnata nel 1968 per Poggi, Magistretti dimostrò la sua capacità di reinterpretazione in chiave espressiva del linguaggio protomoderno di Charles RennieMackintosh. Lo schema elementare, già adottato nel 1957 da Tobia Scarpa con la Pigreco, di una seduta imbottita sostenuta da tre appoggi a terra in tavole di legno, è in contrasto con il carattere ieratico che Magistretti conferì alla conformazione dell’appoggio posteriore, che si prolunga oltre la posizione della testa sino a diventare un sinuoso schienale.
Da una rinnovata collaborazione con Cassina nacque, nel 1973, la poltrona e divanoMaralunga, che ripropose uno dei temi costanti della ricerca di Magistretti: la modificabilità dell’oggetto da parte del fruitore. Divenuto rapidamente un best seller nell’ambito del design dell’imbottito (e premiato con il Compasso d’oro nel 1979), era caratterizzato dallo schienale pieghevole, che nella posizione di riposo fa da cuscino, mentre rialzato diventa un ergonomico appoggio per schiena e testa.
Negli anni Settanta disegnò una vasta serie di lampade, la maggior parte delle quali prodotte dall’azienda Oluce. Con sistematica semplicità, sulla scia delle precedenti esperienze, egli spaziò dalla semisfera della lampada a sospensione Sonora (1974), delle dimensioni di una cupola luminosa domestica, all’articolata geometria dellaAtollo (1977), premiata con il Compasso d’oro sempre nel 1979: lampada da tavolo con base cilindrica sormontata da un cono, su cui è sospesa una calotta semisferica contenente le sorgenti luminose. Altri esemplari significativi furono la lampada da tavolo e parete Porsenna (1976), una parabola-diffusore generata da una sagoma tronco-conica tagliata a metà, e la Nemea (1979), che gioca sul rapporto tra un disco circolare e una piccolissima calotta semisferica contenente una sorgente alogena.
Sebbene il disegno di sedie, imbottiti e lampade, conferisse grande visibilità internazionale al lavoro di Magistretti, la sua versatilità progettuale si indirizzò, in questo periodo, anche al disegno di sistemi per cucine componibili e per letti. A partire dal 1970, e nell’arco di tre decenni, interpretò per l'azienda Schiffini l’evoluzione del gusto e sperimentò innovazioni tecnologiche, passando dalle ante semitrasparenti in cristallo serigrafato della cucina Dama (1976), alla laccatura rossa in poliestere della Cina (1986), alle doghe in noce della Solaro (1995), all’uso totale dell’alluminio nella Cinqueterre (1999). Per Flou, l’azienda fondata da Rosario Messina per sfruttare la rivoluzione introdotta dal piumone, Magistretti inventò un letto composto unicamente da parti in tessuto. In analogia con alcune ricerche sviluppate per sistemi di imbottiti, come il divano Tenorio e il sistema Davis, nel 1978 nacque il letto Nathalie, in cui la morbidezza è resa visivamente dalla continuità tra il rivestimento tessile della struttura, la coperta in piume e la testiera concepita come un doppio cuscino rigonfio.

LA MATURITÀ FRA TRADIZIONE E INVENZIONE
Con la libreria Nuvola rossa per Cassina del 1977 e in forma più complessa con il sistema Broomstick per Alias del 1979, Magistretti riprese il filo della sperimentazione sui mobili 'poveri' degli anni Quaranta. Nella libreria Nuvola rossa, sottili profili in legno a sezione rettangolare generano due scale a pioli inclinate e contrapposte su cui poggiano le mensole. In Broomstick impiegò un profilo utilizzato per la produzione di manici di scopa (broomstick) come struttura per la realizzazione di varie tipologie d’arredi a basso costo: una libreria, un tavolo, un tavolino, un letto, una poltrona, un appendiabiti. Questa collezione di oggetti fu originariamente autoprodotta per arredare l’appartamento che il celebre Royal College of art di Londra gli mise a disposizione come visiting professor nei corsi diproduct-design;  incarico che – mantenuto da Magistretti per molti anni – gli valse, nel 1990, il titolo di honorary professor e, nel 1996, quello di senior fellow. Si trattò di un’attività didattica che, oltre a dare riconoscimento internazionale al suo lavoro, come attesta, nel 1986, la medaglia d’oro della Society of industrial artists and designers (SIAD), ne fece il punto di riferimento culturale per la nuova generazione di designer, formata tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta nel College londinese.
La critica non ha mancato di rilevare (Irace - Pasca, 1999) che il contributo di Magistretti nel campo del design è stato principalmente di tipo ideativo: il disegno del concetto o archetipo ha rappresentato il tratto costante della sua ricerca, accompagnato da un interesse specifico (di matrice razionalista) per la produzione in serie. Ne è derivata un’interpretazione del ruolo del designer come figura di relazione, nel quale l’oggetto, delineato solo nei suoi tratti fondamentali, nasce da un dialogo pragmatico e serrato con i committenti, le maestranze e i tecnici. Questo ha permesso una chiara distinzione tra il ruolo ideativo (designer) e tecnico-produttivo (azienda), che – nel clima di rinnovamento del design italiano degli anni Ottanta – si tradusse in una prolifica e variegata attività di collaborazione.
Fatta eccezione per alcune importanti architetture, come il Dipartimento di biologia dell’Università statale di Milano (1981) e la casa Tanimoto a Tokyo (1986), dove riprese, in chiave giapponese, la doppia inclinazione delle falde di copertura di casa Cassina a Carimate del 1965, negli anni Ottanta e Novanta l’attività creativa e professionale di Magistretti si focalizzò sul disegno di prodotti industriali identificabili in due categorie: invenzioni tipologiche e re-design di pezzi classici. Esempi significativi del primo gruppo sono la poltrona Sindbad, progettata per Cassina nel 1981, basata su una coperta da cavallo colorata, di tradizione inglese, gettata sopra un imbottito-struttura; il tavolo regolabile Vidun (1987), vorticoso ed espressivo assemblaggio di segmenti in legno naturale o colorato attorno a una grande vite da torchio in legno; l’appendiabiti Spiros (1987), frutto di un’aggregazione casuale di pioli su un manico appoggiato al muro; il lampadarioMorocco (1998), che come diffusore presenta una serie di calici da vino appesi a stelo in giù e illuminati da piccole sorgenti alogene. Nel re-design Magistretti si pose l’obiettivo di riattualizzare modelli tradizionali e pezzi storici del design europeo. In questo egli riproponeva un atteggiamento già sottolineato dalla critica negli anni Cinquanta, quando rilevava la sua propensione per un oggetto «la cui aspirazione è di sembrare come se già fosse stato» (Gregotti, 1956, p. 33). Nella sedia Marocca(1987), ripresentò il procedimento di recupero delle sedute contadine già adottato con la Carimate; con la sedia Silver (1989) rielaborò, invece, utilizzando una struttura in alluminio con sedile e schienale in plastica, il modello con braccioli n. 811 della Thonet; con la Maui (1996) riattualizzò la storica sedia 'formica', realizzata negli anni Cinquanta in compensato curvato da Arne Jacobsen. Una collezione ricchissima di oggetti nacque dal rapporto con Maddalena De Padova, imprenditrice attenta a cogliere l’evoluzione del gusto internazionale: tra questi alcuni arredi disegnati reinterpretando i mobili Shakers. Con la tradizione utopica del design americano ottocentesco, oggetto in quegli anni di rivisitazione attraverso mostre e pubblicazioni, Magistretti stabilì una spontanea sintonia, basata sul carattereminimal e understatement di oggetti estremamente semplici e funzionali e, per la maggior parte, realizzati in legno di ciliegio. Gli armadi e librerie su ruote Shigeto(1988), il pouff Rocking (1991), la sedia Maine (1992), costruiti da De Padova, come anche la serie di contenitori a cassetti Spigo (1990) e i tavolini Spigolini (1992), prodotti da Flou, sono riconducibili a questa ispirazione.
Un altro rapporto che, nel corso degli ultimi anni di attività, stimolò Magistretti all’invenzione di nuove tipologie di seduta fu quello con l’azienda Campeggi, per la quale disegnò diversi oggetti caratterizzati dalla trasformabilità. Kenia (1995) è una poltrona pieghevole con due impugnature da manubrio che alludono alla trasportabilità; Ospite (1996) è un letto pieghevole; Africa una poltrona pieghevole in tessuto con risvolti poggiatesta e un’esile struttura in tubo d’alluminio;Samarcanda e Distesa, entrambe del 2001, giocano sull’elemento delle ruote e della facile trasportabilità.
Insignito di numerosi premi nazionali e internazionali, la fama di Magistretti venne riconosciuta e celebrata anche a Milano, dove nel 1988 gli fu conferito l’Ambrogino d’oro, nel 1995 il premio Compasso d’oro alla carriera e nel 2002 la laurea ad honorem in disegno industriale al Politecnico.
Nel 1997, in occasione del XXXVI Salone del mobile a Milano, fu allestita da Achille Castiglioni una mostra sul suo lavoro curata da Vanni Pasca. Nel 2003 a Genova, promossa dalla Fondazione Schiffini, fu realizzata a Palazzo Ducale la mostra V. M.. Il design dagli anni ’50 ad oggi. Nel 2005 ricevette il premio speciale Abitare il tempo.
Magistretti morì a Milano il 19 settembre 2006.
Nel 2010 i figli Stefano e Susanna hanno istituito la Fondazione Vico Magistretti allo scopo di preservare e rendere disponibili al pubblico e agli studiosi il ricchissimo archivio e lo studio di via Conservatorio.


Estratto da: Dizionario Biografico degli Italiani (2015)



LA TORRE DI SAN QUIRICO[1]


                                      

La prima domanda che viene spontanea quando si vede da vicino la Torre di San Quirico è perché fu costruita, da chi e quando.
La risposa è nella lapide che il costruttore fece murare sopra la porta d’ingresso della torre rossa, tutta costruita in mattoni che le conferiscono quel colore caratteristico del cotto che si stacca nettamente da tutto il verde che la circonda.
Essa dice: “

HANC TURRIM
IN SUMMO CLIVIO SS. QUIRICI ET JULITTAE
CLAUDUS RIVA
EREXIT
ANNO 1878
UXORI LAECT. DARIAE E COM. PORRO
ET FILIIS
DICAVIT[2]

Donna Daria Parravicini con il marito Giovanni Battista Riva erano solito accompagnare il loro piccolo figlio Claudio in ameno passeggio sul Colle di San Quirico, il punto più alto di Azzate, e gli facevano apprezzare le bellezze naturali di quegli orizzonti che arrivano fino alle Alpi.
Nel 1878 Claudio Riva fece costruire al termine del belvedere che frequentava da bambino con i suoi genitori e con i loro ospiti, la torre che dedicò all’amatissima moglie Daria dei conti Porro ed ai figli carissimi.
Profuse in quest’opera, di cui fu architetto e sorvegliante, tanto amore e tanto tempo fino a distoglierlo dai suoi impegni mondani e di lavoro nella città di Como, dove la famiglia aveva uno splendido palazzo.
Da una lettera che scrive il 12 settembre 1886 all’avvocato Giulio Cesare Bizzozero apprendiamo che prima del secolo XV sul Colle di San Quirico vi era una chiesa il luogo solitario dove non veniva celebrata alcuna funzione religiosa.
Sulla chiesa era imposto un feudo o chiericato rurale, il cui patronato spettava al prete Beltramo Bossi, prevosto di Gallarate.
Venuto egli nella determinazione di erigere  una Cappellania sotto il titolo dei Santi Gerolamo, Pietro, Quirico martire e Giulitta, chiese ed ottenne l’approvazione dall’arcivescovo di Milano.
La Cappellania fu eretta nella chiesa di S. Maria di Azzate, dotandola dal suddetto con beni propri ed unendovi il Chiericato di S. Quirico.
L’istrumento di fondazione a rogito del notaio Decapris, fu celebrato il 2 dicembre 1438.
La chiesa di S. Quirico rimase abbandonata e andò poi in rovina.
L’arcivescovo sotto il quale venne stipulato dal fondatore Bossi l’istrumento di fondazione del Beneficio di S. Qurico e Giulitta era Francesco Pizzolpasso o Piccol Passo bolognese, che governò la diocesi di Milano dal 1435 al 1449. Pio e dotto fu tra i più distinti arcivescovi di Milano nel XV secolo.
Intorno a quella chiesa si ritrovarono molte sepolture, formate con pietre ai lati e coperte pure di pietre. Giacevano in esse degli scheletri piuttosto corrosi dal tempo. Non furono ritrovate lapidi con iscrizioni, né monete presso quelle tombe, solamente due chiavi, poste nella chiesetta, una cesoia, alcuni chiodi, frammenti di cocci graffiti e dipinti.
Su quel colle dicesi esistesse un convento, dicesi anche che ivi si fossero ritirate molte persone al tempo della peste, poiché altrimenti non si saprebbe spiegare il perché di quei numerosi sepolcri sul culmine di quel colle.


LA LAPIDE SUL COLLE DI S. QUIRICO[3]

Un documento purtroppo senza data, ma certo anteriore all’anno 959, cita per la prima volta Casciago. E’ una sorta di pro-memoria di quanto i fattori della zona al di là del lago dovevano consegnare a Santa Maria del Monte e, fra questi, si citano quelli di Bregano, di Gavirate, di Barasso, di Velate, di Masnago, di Biumo di Sopra, di Biumo di Sotto e di Oltrona.
Addirittura l’arciprete Leo di Santa Maria del Monte aveva piantato ad Oltrona diversi olivi da cui si ricavava non poco olio!
Un’altra cosa interessante sono i nomi di persona che risultano essere differenti da quelli attuali. Dallo stesso documento veniamo così a sapere che Laurentius, Scantolo e Prando di Castiago (Casciago) dovevano al capitolo di Santa Maria del Monte determinate somme di denaro e determinati quantitativi di grano e vino.
Si può supporre che anche l’antico monastero annesso alla chiesa di S. Quirico esistente sulla sommità del colle vicino ad Azzate riscuotesse dai contadini dei paesi vicini delle “regalie” che poi si sono consolidate in quel feudo di S. Quirico che ancora nell’anno 1398 dovevano pagare il tributo all’autorità politica.
Questo feudo conviveva forse con altri sette della Pieve di Varese che erano:

-         il feudo di S. Dionigi nella chiesa di S. Giovanni al Battistero di Varese;
-         il feudo di S. Pietro di Bosto;
-         il feudo di S. Maurizio di Masnago;
-         il feudo di S. Pietro di Biumo Inferiore;
-         il feudo di S. Ambrogio di Giubiano;
-         il feudo di S. Vito di Luvinate;
-         il feudo di S. Lorenzo di Masnago;
-         il feudo di S. Quirico di … (forse Azzate).

La presenza di un antico monastero sul Colle di S. Quirico di Azzate è confermata da una lapide cristiana che, la dire del Sormani, fu trasportata a Casbeno nel palazzo dei marchesi Recalcati (poi sede dell’Hotel Varese ed oggi sede della Provincia di Varese), anche se avanzava qualche riserva sulla sua datazione romana.
L’Allegranza nella sua opera De sepulcris cristianius sotto il n. 31 asserisce di non averla trovata nel detto palazzo, ma sappiamo che la raccolta Recalcati fu purtroppo quasi tutta dispersa.
La lapide, secondo la lettura del Mommsen[4], riportava questo epitaffio:
"HIC REQUIESCIT IN PACE AGNELLUS PRIOR VI CISTATUNI QUI VIXET IN SECULO ISTO ANN PLS MS LXXX DP SVD SS IS APRILIS LIC."[5].
Il Sormani, nella descrizione manoscritta della Diocesi di Milano (cap. 33, Pieve di Varese) legge nel 2° e 3° verso: "VICI STATUNI" che egli crede indichi forse il paese di Schianno. L'Allegranza dice potersi l'ultima abbreviatura LIC. spiegare per Liciniano console nel 311, o per Licinio, console nel 312.



                                                            



HIC REQUIESCIT
IN PACE AGNELLUS
PRIOR VI CISTATUNI
QUI VIXET IN SECULO
ISTO ANN PLS MS
LXXX DP SVD SS IS
APRILIS LIC.[6]

                                           Milano – Basilica di S. Nazzaro – Museo lapidario.





PARAFRASI PROSASTICA SULLA POESIA D'UN CITTADINO, NOBILE AZZATESE, DEL SECOLO  SCORSO.

In questi nostri tempi moderni, prosaici, materialistici e consumistici si pone scarsa o forse nessuna attenzione alle stupefacenti bellezze che circondano i luoghi dove a noi fortunatamente è dato di vivere.
Orizzonti incantevoli: l'ampia e superba catena delle Alpi innevate a ponente, le dolci colline ad oriente, le scure ma piacevoli e benedicenti pendici prealpine a settentrione.
Tutto ciò non sfuggiva all'osservazione, alla commozione, alla fantasia dei nostri antenati.
Luogo sacro, carico di leggenda prima ancora che di storia, di visioni favoleggianti, suscitate da ruderi informi, era il Colle del S. Quirico, sulla cui sommità più frequentemente e più facilmente si recava il nobile nostro poeta commosso, vivente tra la nostra gente nell'età passata.
Vediamo di esporre in facile forma i suoi ispirati sentimenti.
Colle del San Quirico, tanto vago ed ornato di fiorenti vigneti, con la svelta torre in cima, la natura a te d'intorno è lieta, bella e pura. I tramonti dietro la ripida giogaia sono meravigliosi; le aurore sono ridenti dai profili dei colli.
Ma sotto i piedi, alcuni avanzi di rovine antiche vogliono un saluto perché eccitano arcane visioni.
Con le ali mobili e nobili d'una fantasia ardente si possono qui immaginare castelli ormai diroccati dove fischia il vento ed ondeggiano i coloriti cimieri dei prodi guerrieri tra l'armi appese sulle antiche pareti.
A lato si potrebbe osservare un'umile chiesiola ed un chiostro popolato da vergini penitenti: cento fanciulle dal cuore innocente che innalzano devote preghiere a Dio.
Intanto il poeta alza gli occhi al cielo che è buio, senza stelle.
Giù la selva antica con il gemito straziante del vento tra gli oscuri tronchi.
La luna allora squarcia le nubi e misteriosa splende sulla torre.
Chi è quella misteriosa figura?
E' una fanciulla fuggente e danzante con le chiome al vento.
Lancia un grido disperato, come un gemito che suona e risuona nella valle trasportato dall'eco.
Il poeta allora ritorna in sé e si chiede: "Perché fantastichi sull'età passate? Pensa e rimira la bella natura d'intorno, che brilla sì cara e sì pura! Qui il creato ti schiude le sue gioie. Contemplale e leva il tuo animo ed adora il Creatore".
                                          
                                                                                                                Attilio Baratelli


Polimetro sulle rovine del S. Quirico.

Veggio, sull’ali mobili
d’ardente fantasia,
castelli e monasteri,
le penitenti vergini,
gli ondeggianti cimieri;
e l’arme appese alle antiche pareti
mi stan dinanzi, e parmi udire il vento
mugghiar fra le ruine
d’un castel diroccato…
Poi sorger veggo a lato
un’umile chiesuola,
ed un chiostro m’appare,
ed ardon le faci dinnanzi all’altare,
le preci devote s’innalzano a Dio,
di cento donzelle dal vergin cor.




EPIGRAFE CONSERVATA NELL'ORATORIO DELL'IMMACOLATA


A te
Daria Riva Parravicini
moglie e madre
primiera scesa nel sepolcro
che apparecchiasti alla famiglia
di cui diligentissima eri
esempio di religione fortezza affetto
 spenta a 68 anni il 17 gennaio 1846
il marito Giambattista
e i figli
Claudio e Marianna.




DARIA RIVA PORRO

              
                                                                Daria Riva Porro

Questa bella e importante fotografia ritrae donna Daria Riva, morta a Bergamo il 3 gennaio 1890.
Sappiamo che morì senza discendenza, avendo sposato Lucio Fiorentini.
Sul retro della fotografia con calligrafia di donna Angiola Riva, sua sorella, è scritto “Daria Riva Porro”, mettendo in evidenza il cognome della madre, donna Daria Maria Antonia Vincenza Giuseppa Angiola Porro, figlia del conte Gian Pietro e donna Barbara Verri, nata a Milano nella Parrocchia di S. Fedele il 18 marzo 1825 e morta il 22 febbraio 1888, che il 24 agosto 1843 aveva sposato a Como Claudio Riva figlio di Gio. Battista.
I resti mortali di Angiola Porro furono traslati nel cimitero di Azzate il 18 ottobre 1962 e posti nella tomba di famiglia dei Riva di S. Vitale.
Il nome Daria ricorre anche in donna Daria Riva Parravicini che sposò Gio. Battista Riva figlio di Pietro e Bianca Bossi e fu imposta anche alla figlia di donna Angiola.







[1] S. Qurico figlio di S. Giulietta o Giulitta del sangue reale di Iconio in Asia.
Ancor fanciullo, riparò con la madre a Tarso in Cilicia durante una persecuzione, ma il governatore Alessandro li fece arrestare, e con le proprie mani uccise il bambino facendo poi subire il martirio anche alla madre nell’anno 305.
La festa ricorre al 16 giugno.
16 luglio: Santi Quirico e Giulitta.
Involatasi Giulitta alla persecuzione di Diocleziano col suo bambino Quirico, furono poi arrestati a Tarso. Tratti davanti al giudice, protestarono che non avrebbero sacrificato agli dei. Sdegnato il governatore la condannò ai tormenti, e non riuscendovi, il tiranno uccise il fanciullo, ed ordinò che Giulitta fosse decapitata.
[2] "Questa torre, sulla sommità del colle dei Santi Quirico e Giulita, Claudio Riva eresse nell'anno 1878. Alla moglie diletta Daria e al Conte Porro ed ai figli dedicò".

[3] Volonté, Varese antica e le sue epigrafi pagane e cristiane.
[4] Theodor Mommsen (1817-1903) fu filologo, storico, linguista, giurista, epigrafista e numismatico. Fu premio Nobel per la letteratura nel 1902. L’opera più conosciuta è il Corpus inscriptionum latinarum.
[5] Scrive il Brambilla nella sua opera Varese e il suo circondario a pagina 193 che la Cronaca Grossi fissa la costruzione della Basilica Varesina al secolo VII e dice che per erigerla fu distrutto un tempio consacrato a Giove, sul fronte del quale era infissa una lapide interpretata così: “A Giove Ottimo Massimo questo tempio consacrò Varese”.
Il Rota contraddice quest’affermazione e si chiede come mai a Varese non si fosse ancora propagata la religione cristiana se già nel 465 si seppellivano i cristiani nella chiesetta di S. Cassiano di Velate (come ricorda una lapide) e se intorno a questo tempo, e forse prima, si deponevano i fedeli nella cappella di S. Quirico sul colle di Azzate, come ricorda la lapide “Hic requiescit in pace Agnellus …”. (Agnellus è nome proprio).

[6] Scrive il Brambilla nella sua opera Varese e il suo circondario a pagina 193 che la Cronaca Grossi fissa la costruzione della Basilica Varesina al secolo VII e dice che per erigerla fu distrutto un tempio consacrato a Giove, sul fronte del quale era infissa una lapide interpretata così: “A Giove Ottimo Massimo questo tempio consacrò Varese”.
Il Rota contraddice quest’affermazione e si chiede come mai a Varese non si fosse ancora propagata la religione cristiana se già nel 465 si seppellivano i cristiani nella chiesetta di S. Cassiano di Velate (come ricorda una lapide) e se intorno a questo tempo, e forse prima, si deponevano i fedeli nella cappella di S. Quirico sul colle di Azzate, come ricorda la lapide “Hic requiescit in pace Agnellus …”. (Agnellus è nome proprio).






Per descrivere il Colle di S. Quirico di Azzate non esiste migliore narrazione di quella fatta nel 1931 da Giannetto Bongiovanni in Varese e la sua provincia che dice testualmente:

“Il paese signoreggia su un declivio di una breve catena di alture che serra ad oriente il lago di Varese, in zona aprica, seminata di graziosi villaggi che posano le linde case e le civettuole villette su un magico fondo di verde e di acque azzurrine. Lungi, le vette delle Prealpi, a Nord, mentre i profili delle Alpi fermano l’occhio e coronano l’orizzonte.



Suggestiva è la passeggiata che attraverso la collina di S. Quirico porta alla torre omonima”.

SLIDE N. 5

Era usanza della nobile famiglia Riva, che si era imparentata con la nobile famiglia Bossi, portare i loro ospiti in quella pineta sul colle di San Quirico, che loro chiamavano “il Belvedere”.
In questa fotografia del settembre 1929 vediamo alcuni VIP azzatesi che, favoriti forse dal clima cortese, salirono, per una scampagnata alla torre di San Quirico: loro, alta società, sul punto alto dominanate.
Erano: il cavalier professor Angelo Comolli, la signora Acquadro, la signora De Martini, il conte Benigno Bossi, donna Elisa Borroni sua moglie, la signora Matilde Mazzocchi, donna Angiola Riva-Cottalorda (la padrona di casa), la contessa Cattaneo, la signora Mariuccia Comolli, il signor Carlo Olivieri, il generale conte Avogadro di Collobiano, il nobile Luigi Bossi.

SLIDE N. 6

La festa del 1° maggio alla Torre di San Quirico coincideva con la festa dei lavoratori, un tema molto caro al Partito Comunista, ma non era la festa dell’Unità, anche se vi partecipa il Circolo Famigliare di Azzate che allestiva un banco di mescita del vino ricavato dall’uva del Meridione che lui stesso faceva pigiare e imbottigliare.
Non era quindi una festa politica ma piuttosto una scampagnata che gli azzatesi, liberi dai loro impegni di lavoro, si concedevano all’aria aperta, all’ombra dei pini lassù piantati.
Le sorelle Cottalorda non avrebbero mai acconsentito di concedere la pineta per una festa politica di sinistra e la presenza del maestro Baratelli, sindaco di Azzate, di chiara fede democristiana, ne è la prova più lampante.
Vi partecipa anche il Moto Club Azzate i cui soci si spingevano con le loro motociclette fino sulla sommità della collina.
I ragazzi, a differenza degli anziani, non raggiungevano il San Quirico attraverso la strada che conduceva a Brunello, ma attraversavano i boschi dietro l’Oratorio di San Rocco in linea retta, letteralmente scalando la collina. Ogni percorso era valido e da qualunque direzione si giungesse la meta era sempre la stessa: la pineta, che non aveva alcun tipo di recinzione in torno a sé.
Al di là della festa del 1° maggio, i ragazzi frequentavano i boschi del San Quirico anche in altre occasioni. Per esempio era molto in voga l’abitudine di andare a costruire delle capanne in legno dove si giocava “ai banditi” e si notava anche la presenza di qualche ragazza che andava a raccogliere, nei periodi opportuni, i mughetti e i mirtilli, oggi del tutto scomparsi a causa dell’inquinamento.
In autunno “si andava alla Torre” (questa era l’espressione che veniva usata comunemente per significare la Collina di San Quirico) per raccogliere le castagne e i funghi, e vi era anche l’usanza di andare a prendere la “terra buona” che si formava all’interno dei ceppi di castagni vecchi per piantare i fiori nei vasi di terracotta.
Una pratica che oggi sarebbe stata guardata con molto sospetto fu quella messa in atto dai giovani azzatesi, subito dopo la seconda guerra mondiale, intorno agli anni 1944 che, dopo la funzione dei vesperi in chiesa parrocchiale, si recavano in gruppo sulle pendici della collina a raccogliere sassi da impiegare nella costruzione dei muri dell’erigendo Oratorio San Giuseppe, sottraendoli però, con grave danno, ai muretti a secco che erano stati costruiti con tanta fatica dai contadini per sostenere le pianelle su cui si coltivava la vite.
La fotografia che vediamo è stata scattata il 1° maggio 1960 e possiamo notare: Alberto Ceppi, Rina Crespi, Vito Tibiletti. Luciano Tibiletti, maestro Attilio Baratelli, Amedeo Lomazzi detto Slima, Carlo Colli, Flavio, Bielin, Morganti, Biasela,



SLIDE N. 7

La Collina di San Quirico era nelle sue viscere un bacino naturale di acqua e ben lo sapeva la regina Maria Cristina di Borbone, o i suoi stretti collaboratori, che le suggerirono di far costruire un acquedotto che portasse acqua alla sua dimora, il cosiddetto Castello di Azzate, per avere sempre ampia disponibilità d’acqua per gli usi domestici e per irrigare il parco all’inglese che, proprio lei, aveva fatto allestire intorno alla sontuosa villa che era stata della nobile famiglia Bossi.

SLIDE N. 8

Il progetto fu talmente saggio che, per non disperdere l’acqua che avanzava, venne costruita una condotta “di ritorno”  che portava il prezioso liquido nella piazzetta antistante la villa e alimentava una fontanella cui tutta la popolazione di Castello poteva attingere.



Inoltre volle costruire il “Fontanone”, come ricorda una lastra metallica ora mezza corrosa della ruggine su cui sono incise le seguenti parole:

A MARIA CRISTINA AUGUSTA DI SARDEGNA
CHE A PROPRIE SPESE
E SU TERRE PROPRIE
LE ACQUE DI QUESTA FONTE
VOLLE RACCOLTE IN UN MAGNIFICO ACQUEDOTTO
NELL’ANNO 1838


IL MUNICIPIO DI AZZATE
RICONOSCENTE




Gio. Battista Riva (bisnonno delle “Parniselle”, soprannome che gli azzatesi avevano affibiato alle nobildonne sorelle Daria e Valentina Cottalorda che vedete qui in una fotografia vestite di bianco con il cappello) scrive da Como a Giovanni Galli, suo fattore in Casa Riva ad Azzate, che dimostra come sul Colle di S. Quirico si produceva nel 1843 un vino di ottima qualità.
La lettera gliela fa pervenire “per espresso con carretto” e sicuramente gli è arrivata ancor più sollecitamente della nostra attuale “posta prioritaria”.
L’occasione è quella di inviargli 50 sacchi di iuta che l’indomani mattina dovranno essere riempiti di 50 moggi di frumento misura di Milano per un compratore di Como.
Il compratore avrebbe voluto mandare ad Azzate un suo incaricato per controllare la pesatura ma, data la distanza, si rimette all’onestà del venditore e del suo fattore. Per questo il Riva si raccomanda al fattore Galli di eseguire l’operazione con la massima cura affinché non succedano sbagli di pesatura e lo esorta a chiudere bene la bocca dei sacchi con buona corda per evitare che durante in viaggio possano aprirsi.

SLIDE N. 12

Il trasporto sarà eseguito da carratori della Camerlata (una frazione di Como) ai quali il Riva concede la somministrazione di un boccale di vino per ogni carro, qualora si prestino all’insaccatura, ed inoltre concede loro un “rinfresco” a Como. Sarà a carico dei medesimi carratori il fieno necessario per rifocillare gli animali.
Invita poi il suo fattore a ritornargli col carretto di casa 6 brente di vino alle quali, se dovesse nevicare( la lettera è del 22 gennaio), ne aggiungerà altre 5 per appesantire il carretto. Queste però dovranno essere prelevate nella cantina grande appena scesa la scala, miste con altro vino “generale” in proporzione però maggiore dell’ultima volta. Questo ci fa supporre che in cantina ad Azzate vi fossero due qualità di vino: una di maggior pregio che poteva essere diluita con altro vino di qualità inferiore.

SLIDE N. 13

Invece il “vascelletto” che gli manda espressamente da Como dovrà essere riempito con vino S. Quirico, tolto dalla botte che il fattore ben conosce e che, ci immaginiamo, fosse di qualità superiore.
L’ultima raccomandazione è quella di farsi trovare pronto per le operazioni di pesatura e carico dei sacchi in modo che i carratori non si fermino ad Azzate più del dovuto.
Chiude la lettera dicendogli: ”In qualche modo fate bolli tre” che noi, malignamente, interpretiamo come volergli astutamente suggerire di emettere soltanto tre bollette per il dazio.

SLIDE N. 14

Pro-memoria per la strada al San Quirico.

Differenza livello centimetri 30 sopra il muro della letamaia al piano del fondo primo al berceau metri 27,50
salto lunghezza di metri 100. (Per il fatto che venga nominata una letamaia, si presume che sul colle di San Quirico vi fosse una stalla con degli animali).
Calcolando il tracciato del bosco al di là del berceau, sarebbero di differenza metri 25.
E’ quindi necessario un tratto di strada a tourniquet di metri 300 volendosi dare la pendenza dell’8% circa.
Per la pendenza del 10% occorrono almeno metri 250.
Così al suo digresso sarà necessario occupare metri 60 del fondo Collobiano dal confine nostro
facendosi 3 tourniquet, compreso quello sotto al berceau.

N.B. - Calcolato la pendenza della prima tratta strada già fatta fino al primo tourniquet si trovò in ragguaglio dell’8%.
          La seconda tratta ascendendo dal barbacano in su risultò del 6,50%.

Non crediamo che questo pro-memoria sia stato redatto dal nobile Claudio Riva che, in altre occasioni, come vedremo, viene definito come progettista e direttore dei lavori della costruzione della torre. Sembrano piuttosto appunti di un ingegnere che aveva dimestichezza con le misure e le pendenze.

SLIDE N.  15

Da una lettera del 26 agosto 1878 apprendiamo che il nob. Claudio Riva sta costruendo sul Colle di S. Quirico un belvedere (ovvero “la torre alta” come la definisce la figlia Angiola in un nota posteriore) del quale ne è l’architetto e il sorvegliante.
Ci informa anche che molti villeggianti hanno preso dimora nell’amenissimo paese di Azzate nonostante l’inclemenza del tempo.
La lettera, probabilmente per il suo riferimento alla Torre del S. Quirico, fu conservata in archivio di famiglia ed è pervenuta fino ai nostri giorni. Una nota dice di essere stata letta da Angiola Riva figlia di Claudio nel 1932, quando aveva l’età di 53 anni.


SLIDE N. 16

Angiola Riva-Cottalorda, donna molto precisa, (la vediamo qui con le figlie Daria e Valentina), aveva voluto predisporre un album sul quale conservare le firme di tutti gli ospiti che si sarebbero recati  al belvedere del San Quirico in quanto quella amenissima passeggiata sembrava essere diventata una tradizione ormai consolidata e molto apprezzata dai suoi ospiti. Ci sono rimasti i suoi appunti dove ha abbozzato la scritta da apporre sul primo foglio dell’album. In un primo momento aveva pensato a questo titolo: “Gentil visitatore che qui vi portate, compiacetevi del Vostro illustre nome” che poi aveva cancellato e aveva sostituito con quest’altro titolo: “Ad ammirare la bella natura, favorite il Vostro nome”. Ma anche questo titolo non era di suo gradimento e, alla fine, lo sostituì con quel’ultimo: “Se il Vostro nome scrivete, un favor grande farete”.

SLIDE N. 17

Donna Daria Parravicini con il marito Giovanni Battista Riva erano soliti accompagnare il loro piccolo figlio Claudio in ameno passeggio sul Colle di San Quirico, il punto più alto di Azzate, e gli facevano apprezzare le bellezze naturali di quegli orizzonti che arrivano fino alle Alpi.
Nel 1878 Claudio Riva fece costruire al termine del belvedere che frequentava da bambino con i suoi genitori e con i loro ospiti, la torre che dedicò all’amatissima moglie Daria dei conti Porro ed ai figli carissimi.
Profuse in quest’opera, di cui fu architetto e sorvegliante, tanto amore e tanto tempo fino a distoglierlo dai suoi impegni mondani e di lavoro nella città di Como, dove la famiglia aveva uno splendido palazzo.

SLIDE N. 18

Da una lettera che scrive il 12 settembre 1886 all’avvocato Giulio Cesare Bizzozero apprendiamo che prima del secolo XV sul Colle di San Quirico vi era una chiesa il luogo solitario dove non veniva celebrata alcuna funzione religiosa.
Sulla chiesa era imposto un feudo o chiericato rurale, il cui patronato spettava al prete Beltramo Bossi, prevosto di Gallarate.
Venuto egli nella determinazione di erigere  una Cappellania sotto il titolo dei Santi Gerolamo, Pietro, Quirico martire e Giulitta, chiese ed ottenne l’approvazione dall’arcivescovo di Milano.
La Cappellania fu eretta nella chiesa parrocchiale di S. Maria di Azzate, e fu dotata dal suddetto prete Beltramo Bossi con beni propri ed unendovi il Chiericato di S. Quirico.
L’istrumento di fondazione a rogito del notaio Decapris, fu celebrato il 2 dicembre 1438.
La chiesa di S. Quirico rimase abbandonata e andò poi in rovina.
L’arcivescovo sotto il quale venne stipulato dal fondatore Bossi l’istrumento di fondazione del Beneficio di S. Quirico e Giulitta era Francesco Pizzolpasso o Piccol Passo bolognese, che governò la diocesi di Milano dal 1435 al 1449. Pio e dotto fu tra i più distinti arcivescovi di Milano nel XV secolo.

SLIDE N. 19

Intorno a quella chiesa si ritrovarono molte sepolture, formate con pietre ai lati e coperte pure di pietre. Giacevano in esse degli scheletri piuttosto corrosi dal tempo. Non furono ritrovate lapidi con iscrizioni, né monete presso quelle tombe, solamente due chiavi, poste nella chiesetta, una cesoia, alcuni chiodi, frammenti di cocci graffiti e dipinti.
Su quel colle dicesi esistesse un convento, dicesi anche che ivi si fossero ritirate molte persone al tempo della peste, poiché altrimenti non si saprebbe spiegare il perché di quei numerosi sepolcri sul culmine di quel colle.

SLIDE N. 20

Un documento purtroppo senza data, ma certo anteriore all’anno 959, è una sorta di pro-memoria di quanto i fattori della zona al di là del lago dovevano consegnare a Santa Maria del Monte e, fra questi, si citano quelli di Bregano, di Gavirate, di Barasso, di Velate, di Masnago, di Biumo di Sopra, di Biumo di Sotto e di Oltrona che dovevano al capitolo di Santa Maria del Monte determinate somme di denaro e determinati quantitativi di grano e vino.
Si può supporre che anche l’antico monastero annesso alla chiesa di S. Quirico esistente sulla sommità del colle vicino ad Azzate riscuotesse dai contadini dei paesi vicini delle “regalie” che poi si sono consolidate in quel feudo di S. Quirico che ancora nell’anno 1398 dovevano pagare il tributo all’autorità politica.

SLIDE 21

La presenza di un antico monastero sul Colle di S. Quirico di Azzate è confermata da una lapide cristiana che, al dire del Sormani, fu trasportata a Casbeno nel palazzo dei marchesi Recalcati (poi sede dell’Hotel Varese ed oggi sede della Prefettura di Varese), anche se avanzava qualche riserva sulla sua datazione romana.
L’Allegranza nella sua opera De sepulcris cristianius sotto il n. 31 asserisce di non averla trovata nel detto palazzo, ma sappiamo che la raccolta Recalcati fu purtroppo quasi tutta dispersa.
La lapide, secondo la lettura del Mommsen riportava questo epitaffio:
"HIC REQUIESCIT IN PACE AGNELLUS PRIOR VI CISTATUNI QUI VIXET IN SECULO ISTO ANN PLS MS LXXX DP SVD SS IS APRILIS LIC.".
Il Sormani, nella descrizione manoscritta della Diocesi di Milano  legge nel 2° e 3° verso: "VICI STATUNI" che egli crede indichi forse il paese di Schianno. L'Allegranza dice potersi l'ultima abbreviatura LIC. spiegare per Liciniano console nel 311, o per Licinio, console nel 312.


SLIDE N. 22

In questi nostri tempi moderni, prosaici, materialistici e consumistici si pone scarsa o forse nessuna attenzione alle stupefacenti bellezze che circondano i luoghi dove a noi fortunatamente è dato di vivere.
Orizzonti incantevoli: l'ampia e superba catena delle Alpi innevate a ponente, le dolci colline ad oriente, le scure ma piacevoli e benedicenti pendici prealpine a settentrione.
Tutto ciò non sfuggiva all'osservazione, alla commozione, alla fantasia dei nostri antenati.
Luogo sacro, carico di leggenda prima ancora che di storia, di visioni favoleggianti, suscitate da ruderi informi, era il Colle del S. Quirico, sulla cui sommità più frequentemente e più facilmente si recava il nobile nostro poeta commosso, vivente tra la nostra gente nell'età passata.
Vediamo di esporre in facile forma i suoi ispirati sentimenti, secondo una trascrizione del maestro Attilio Baratelli.

SLIDE 23

Colle del San Quirico, tanto vago ed ornato di fiorenti vigneti, con la svelta torre in cima, la natura a te d'intorno è lieta, bella e pura. I tramonti dietro la ripida giogaia sono meravigliosi; le aurore sono ridenti dai profili dei colli.
Ma sotto i piedi, alcuni avanzi di rovine antiche vogliono un saluto perché eccitano arcane visioni.
Con le ali mobili e nobili d'una fantasia ardente si possono qui immaginare castelli ormai diroccati dove fischia il vento ed ondeggiano i coloriti cimieri dei prodi guerrieri tra l'armi appese sulle antiche pareti.

SLIDE N. 24

A lato si potrebbe osservare un'umile chiesiola ed un chiostro popolato da vergini penitenti: cento fanciulle dal cuore innocente che innalzano devote preghiere a Dio.
Intanto il poeta alza gli occhi al cielo che è buio, senza stelle.
Giù la selva antica con il gemito straziante del vento tra gli oscuri tronchi.
La luna allora squarcia le nubi e misteriosa splende sulla torre.
Chi è quella misteriosa figura?

SLIDE N. 25

E' una fanciulla fuggente e danzante con le chiome al vento.
Lancia un grido disperato, come un gemito che suona e risuona nella valle trasportato dall'eco.
Il poeta allora ritorna in sé e si chiede: "Perché fantastichi sull'età passate? Pensa e rimira la bella natura d'intorno, che brilla sì cara e sì pura! Qui il creato ti schiude le sue gioie. Contemplale e leva il tuo animo ed adora il Creatore".
                                          
                                                                                                                Attilio Baratelli

SLIDE N. 26

Rimasta vedova presto, crebbe da sola il suo figlio Quirico di tre anni, allevandolo nella fede cristiana. Durante la persecuzione scatenata dall’imperatore Diocleziano, santa Giulitta partì dalla città di Iconio con il figlio e due serve affidabili, lasciandosi dietro la sua casa, le proprietà e i servi. Celando il suo rango nobile, si nascose dapprima a Seleucia, e poi a Tarso. Ma intorno all’anno 305 fu riconosciuta, arrestata e sottoposta a processo davanti al governatore Alessandro. Rafforzata dal Signore, senza paura rispose alle domande del giudice, e fermamente confessò la sua fede in Cristo. Il governatore diede ordine di battere la santa con le verghe. Durante i suoi tormenti santa Giulitta continuava a ripetere: “Io sono una cristiana, e non sacrifico ai demoni”. Vedendo la madre torturata il piccolo Quirico incominciò a piangere e voleva andare da lei. Il governatore Alessandro cercò di farlo sedere sulle sue ginocchia, ma il bimbo si divincolò e gridò: “Lasciami andare da mia madre, io sono un cristiano”. Il governatore gettò il bambino giù dall’alto tribunale scagliandolo giù per i gradini di pietra. Il bambino colpì la testa sugli spigoli taglienti e morì. Santa Giulitta, vedendo il figlio squarciato, rese grazie a Dio che aveva permesso che il suo bambino fosse stato reso perfetto prima di lei, e avesse ricevuto la corona incorruttibile del martirio.

SLIDE N. 27

Dopo molti crudeli supplizi anche lei rese gloria a Dio col martirio, decapitata con una spada.

SLIDE N. 28
"Hanc turrim in summo clivo SS. Quirici et Julittae Claudius Riva erexit anno 1878 uxor laect. Dariae et com. Porro et filiis dicavit".
Questa è la scritta in latino riportata sulla lapide immutata sopra l’ingresso della torre.
Leggiamo insieme la traduzione in italiano: “Questa torre, sulla sommità del colle dei Santi Quirico e Giulitta, Claudio Riva eresse nell’anno 1878. Alla moglie diletta Daria e al conte Porro ed ai figli dedicò”.
Questa scritta è molto importante perché chiarisce molte cose. Prima di tutto l’anno della sua costruzione, il 1878. Vi sta da lontano la torre sembra molto più antica, invece possiamo considerarla quasi della fine dell’Ottocento.
Veniamo a conoscenza del suo costruttore e il motivo della sua costruzione: un atto di amore del nobile Claudio Riva alla moglie donna Daria Porro, al suocero conte Gian Pietro Porro e ai figli Angiola,……
Notate che si usa l’espressione “eresse” e non “fece erigere” per rimarcare che il nobile Claudio Riva vi partecipò in prima persona come progettista e come direttore dei lavori.

SLIDE N. 29


Una bella fotografia del nobile don Claudio Riva in età avanzata.
Ricordiamo che egli fu sindaco di Azzate dal 1886 al 1897 e gli azzatesi lo considerarono più un loro padre che un loro amministratore.

SLIDE N. 30
Conte Claudio Luigi Bossi
sp. Teresa Locatelli.
             |
             |
             |
conte Francesco Bossi
             |
             |
             |
conte Luigi Bossi
+ Milano 8.4.1881
             |
             |
             |
Marianna Bossi
sp. Giacinto Cottalorda
             |
             |
             |
Carlo Felice Cottalorda
sp. Angiola Riva figlia del nob. Claudio Riva
che aveva sposato Daria Porro figlia del conte Gian Pietro


In  questo piccolo alberello genealogico vediamo la discendenza del conte Claudio Luigi Bossi, il costruttore del cosiddetto Castello di Azzate (quello che noi conosciamo come Villa Bossi-Zampolli) e del mutare dei cognomi dai Bossi, ai Cottalorda, ai Riva, tutte famiglie che ebbero la quasi totalità della proprietà della Collina di San Quirico.

SLIDE N. 31

Ma ritorniamo al nostro Colle di San Quirico che già in passato veniva da tutti descritto come luogo panoramico di notevole bellezza e non dimentichiamo che esso si trova nel territorio di Azzate che in latino si dice Aciate e deriva da Acies che vuol dire: luogo con visione acuta, limpida, stupenda, meravigliosa, sito d’incanto per la mente e per il cuore.
Quindi il nostro colle è un sito d’incanto in un territorio d’incanto.

SLIDE N. 32

La torre ha un basamento esagonale di grossi sassi squadrati che termina con un poggiolo (?) e continua nella sua altezza in forma cilindrica, essendo stati impiegati solamente mattoni cotti che le conferiscono quel tipico colore caldo.

SLIDE N. 33

Qui vediamo un solo corpo estraneo che è stato utilizzato come architrave di una finestrella che dà luce alla scala interna a chiocciola, tutta in sasso.
Guardate la maestria usata nel costruire le false caditoie e le ghiere di coronamento, sfruttando semplicemente la volumetria del mattone.

SLIDE N. 34

Da questo punto in avanti vedremo altre fotografie che commenterò a braccio per non rendere troppo pesante la presentazione che, fino a questo punto, mi sembra già corposa!
SLIDE N. 35

Questa fotografia degli anni 40 ci mostra una parata del periodo fascista nel cortile delle Scuole Elementari.
Sullo sfondo la Collina di San Quirico, ancora intatta nel verde dei suoi boschi.
In lontananza sembra di vedere la torre.

SLIDE N. 36

Siamo in territorio di Brunello e in lontananza si vede la Villa Bassetti in costruzione.
Il progetto fu elaborato dall’architetto …….

SLIDE N. 37

Una bella veduta della Villa dei nobili Riva.
Sull’ingresso si sono riuniti molti fanciulli con le loro mamme.
Sullo sfondo altri personaggi stanno in posa: sono probabilmente i proprietari dei negozi.
Sul balconcino fa capolino, quasi timidamente, qualcuno di Casa Riva.

SLIDE N. 38

La nobildonna Valentina Cottalorda appoggiata a dei grossi sassi che delimitano il “Belvedere” si ripara dai raggi del sole con un civettuolo ombrellino.



Le escursioni al Colle del San Quirico erano anche il pretesto per riunire amici ed amiche che si concedevano poi in villa eleganti feste. Vediamo qui il travestimento in una dama di altri tempi.

SLIDE N. 40


Gli azzatesi ci tenevano a copiare i signori e la scampagnata alla Torre di San Quirico era il pretesto per far indossare alle fanciulle i vestiti più belli e poter dire: “C’era anche mia figlia!”.

SLIDE N. 41

Qui vediamo la piccola Anna Maffioli. (Forse è Massimo Maffioli).

SLIDE N. 42

Anche i grandi non si sottraevano all’usanza di mettere il vestito della festa e questo gruppo del Dopolavoro della Tessitura Maino ne è la prova evidente.
Insomma, la festa alla Torre di San Quirico era un grande festa!

SLIDE N. 43

La torre che svetta verso il cielo.
Sotto un pino un personaggio sconosciuto ammira il panorama.
Possiamo notare i grossi sassi dove si era appoggiata la nobildonna Valentina Cottalorda con l’ombrellino. Quel punto doveva rappresentare un pericolo poiché è stata messa una protezione con dei paletti in legno infissi nel terreno e del filo spinato.

SLIDE N. 44

La costruzione della Villa Bassetti è stata terminata e non si vede più la gru che era stata piazzata al suo fianco.

SLIDE DA N. 45 A N. 50 (Progetti per la costruzione della torre)

SLIDE N. 51

Qualcuno di famiglia o forse qualche ospite era bravo in disegno e ha fatto questo schizzo dei danni provocati dal fulmine ad una robinia vicino al boschetto San Quirico.

SLIDE N. 52

Un altro danno provocato dal fulmine. Questo dimostra quanto fosse importante il San Quirico per la famiglia Riva.

SLIDE N. 53

Questo disegno e le annotazioni fatte a matita su un ritaglio di quaderno a righe sono una documentazione molto importante.
Apprendiamo da essi che i pini del San Quirico furono piantati nel 1912 e dieci anni dopo furono regolati.
Donna Angiola Riva, figlia di Claudio Riva – il costruttore della torre – abbiamo già detto che era molto precisa e non ha mancato di annotare che i pini piantati avevano un’altezza variabile da 80 a 90 centimetri e senza vettura – ossia il trasporto – costavano lire 1.30 al quintale, mentre con la vettura costavano lire 1.50

SLIDE N. 54

Questo quadro ad olio del 1870 costituisce per noi un grosso interrogativo in quanto non sappiamo cosa rappresenti e credo che nemmeno Alessio Fornasetti e Annacarla Bassetti saprebbero dire cosa sia qui raffigurato.
Forse si tratta dei rustici dove erano ricoverati gli animali i cui escrementi alimentavano la letamaia che viene nominata nel progetto della costruzione della strada che porta alla torre.

SLIDE N. 55

La Torre in un suggestivo contesto invernale.

SLIDE N. 56

Sicuramente queste sono le nobildonne Valentina e Daria Cottalorda con alcune amiche. Non si sono avventurate fino sulla sommità della torre ma si sono fermate alla prima balconata, come si addice a signorine di buoni costumi.
Forse era prerogativa soltanto degli uomini di raggiungere la sommità della torre, a causa di un abbigliamento più consono alla scala a chiocciola.
Potete notare che sulla sommità vi era una specie di tamburo – oggi sostituito da una lastra di ferro – che proteggeva la scala a chiocciola dalle intemperie.

SLIDE N. 57

Molto spesso le didascalie delle cartoline illustrate erano imprecise. In questo caso la Torre di San Quirico viene definita “antica”, ma di antico aveva ben poco poiché, lo ripetiamo per l’ennesima volta, essa venne costruita nel 1878.

SLIDE N. 58

In questa fotografia è evidente che sul lato sinistro della torre al di sopra della prima balconata, vi è una specie di banderuola.

SLIDE N. 59

L’avevamo già notata in una fotografia precedente.

SLIDE N. 60

Questa è la lapide che si trova al Cimitero di Azzate, assieme a quelle di altri personaggi della nobile famiglia.
La prima parte potete leggerla da soli. Io vi leggo la parte che è stata un poco oscurata dalle rose.
“Al prode soldato gli imperituri omaggi; allo sposo, al padre il pianto della consorte Marianna contessa Bossi e dei figli Carlo, Giacomo, Luisa”.
Ma ecco la parte più importante della lapide: alcune parole del grande Alessandro Manzoni che ha voluto ricordare l’eroe di Austerlitz: “Che belle ferite ho visto sulla fronte del bravo e buon generale Cottalorda! Ma su quante fronti se ne devono vedere perché l’Italia sia Italia?”.
Siamo nel 1860 e Manzoni si rammarica che l’unificazione d’Italia non sia ancora avvenuta.
Il generale Giacomo Cottalorda non fece in tempo a vedere la torre costruita sul Colle d San Quirico (ricordo che fu costruita nel 1878 dal padre di sua nuora) ma, forse, fece in tempo a vederla sua moglie Marianna Bossi che morì nel 1881.

SLIDE N. 61

Questo figlietto propagandisco elettorale del dopoguerra della lista n. 2 con scudo crociato e municipio di Azzate (per intenderci la Democrazia Cristiana) deride la lista n. 1 dei socialcomunisti che non hanno il coraggio di mostrarsi con i loro simboli tradizionali (la falce e il martello e il sole nascente) e si nascondono dietro la torre coi merli, simulando la torre di San Quirico.
Una strofa dice:
“Non sei più la torre vera:
un cilindro con ringhiera.
Ti han ridotta un cono sciatto,
ad inganno solo adatto”.


Questo è l’aspetto della Collina di San Quirico che siamo abituati a vedere ai nostri giorni.
Il suo aspetto nel passato era molto differente e possiamo solo immaginarcelo.

SLIDE N. 63

Ci possono essere di aiuto due fotografie fatte sul versante opposto, in territorio di Brunello.

SLIDE N. 64

Qui si sono conservate le pianelle, ma, purtroppo mancano le viti.

SLIDE N. 65





Una situazione similare potevamo vederla in passato al Sacro Monte di Varese. Tutto intorno alle cappelle, dove ora ci sono soltanto dei boschi, era tutto un vigneto, come appare da questa bella stampa del Seicento.

SLIDE N. 66, 67 e 68



Altri particolari dei vigneti intorno alle cappelle.

SLIDE N. 69

Anche nel cosiddetto Catasto di Maria Teresa del 1722 del territorio di Brunello detto della Valle Bossia

SLIDE N. 70

Possiamo vedere molti appezzamenti di terreno configurati a pianelle, su cui si coltivava la vite.

SLIDE N. 71, 72, 73 e 74

Altri particolari dei vigneti.

SLIDE N. 75

Come mai i vigneti sono spariti dal panorama delle nostre campagne? La responsabile è questa malattia delle vite: la fillossera.
La fillossera della vite, originaria dell’America Settentrionale, giunse intorno al 1863 in Francia, dove produsse danni alle colture; nel 1879 comparve in Italia, e nei 50 anni successivi distrusse o danneggiò gravemente tutti i vigneti.




Nessun commento:

Posta un commento