martedì 16 gennaio 2018

CROCIFISSO LIGNEO NELL'ORATORIO DI SAN ROCCO DI AZZATE



L’Oratorio di San Rocco di Azzate ospita al suo interno, sopra la mensa dell’altare della cappella del crocifisso, in una nicchia protetta da vetrata, un crocifisso ligneo del XVII secolo (?) che impressiona per la sua grandezza e drammaticità. La diversa sensibilità dei fedeli ha saputo descrivere con i più svariati aggettivi questa scultura lignea tanto che diventa per noi difficile riferirli in questa sede.
Proponiamo pertanto una riflessione sul crocifisso ligneo detto di Nicodemo che calza perfettamente con quello azzatese se si tiene conto, naturalmente, delle tipologie di ognuno di essi.




Ignoto scultore renano, Crocifisso ligneo, detto di Nicodemo, o anche Cristo devoto, datato 1307, Perpignan (F), Cattedrale di San Giovanni Battista

Insieme agli innumerevoli cicli di danze macabre (uno di questi, poco noto, si può ammirare nel Castello di Masnago a Varese), i crocifissi lignei dei decenni a cavallo tra il tardo XIII secolo e gli inizi del XIV testimoniano l'angoscia per la morte che attraversò la vita popolare dell'intera Europa, e che ebbe riflessi profondi tanto nella religiosità - l'ascetismo, il misticismo, il senso di una Apocalisse incombente, l'angoscia per il peccato -, quanto nei sentimenti collettivi - la paura, lo scatenamento irrazionale della violenza, la genesi dell'antisemitismo, il senso di precarietà, la forza esorcizzatrice della festa (e in primo luogo del Carnevale). Uno dei massimi capolavori della storiografia del '900 - "L'autunno del Medioevo" di Johan Huizinga, edito nel 1919 - illustra con grande rigore e dovizia di testimonianze questa inquietudine collettiva, che apre la strada ai percorsi meno pacificati dell'umanesimo e dello stesso Rinascimento, e in particolare in Germania. Percorsi a loro volta ben descritti, pochi decenni dopo Huizinga, dallo storico italo-francese Alberto Tenenti ne "Il senso della morte e l'amore per la vita dal Medioevo al Rinascimento".
Proprio questa sintesi, solo in apparenza contraddittoria e dualistica, tra avvicinamento della morte e gioia di vivere, tra dolore inconsolabile e persistenza del desiderio, tra l'essenzialità pretesa dal mio misticismo laico e un ancora non sazio, benché non più bulimico, vitalismo pagano, vi offre la chiave per cogliere per quali vie mi riconosca autobiograficamente in quest'opera, sia pure nel solo aspetto della meditatio mortis, e la proponga di qui alla vostra libera "esperienza vissuta", in tutte le varianti che la sensibilità e la condizione esistenziale di ciascuno possono apportare.
Tra questi crocifissi, quello qui riprodotto (in una foto che permette di inquadrare bene alcuni particolari, ma che non rende tutta la drammaticità dell'opera) è uno dei più significativi per originalità e radicalità compositiva.
Scolpito in area renana, fu importato nel Rossiglione attorno al primo quarto del XVI secolo. La datazione ci è nota grazie a un'autentica leggibile sulla schiena del crocifisso, accanto a un incavo destinato ad ospitare alcune reliquie. Le ciocche di capelli che cadevano doviziose sulle spalle sono andate perdute, o forse tolte. La colorazione originale si è in parte conservata al di sotto della ridipintura cinquecentesca, realizzata verosimilmente per o direttamente dal committente francese.
Notevolissima è, intanto, la sua altezza (242 cm): collocato in alto, il crocifisso andava osservato da lontano, tutt'uno con l'architettura, e dunque, per il suo risaltare, primo elemento a presentarsi alla vista di chi accedeva alla chiesa.
I legni della croce (tiglio per il palo, ontano per la traversa) sono tronchi che conservano i segni della loro trascorsa vita vegetale (nodi, resti di corteccia, basi dei rami tagliati), per sottolineare come, fin dalla sua materia, la croce sia strumento di redenzione. Fatto è che, anche grazie alla presenza di alcuni chiodi per il fissaggio, quei legni quasi vivi e sofferti fanno da complemento alla drammaticità dell'insieme.
Singolare e di forte impatto scenico, è il forte aggetto delle ginocchia: sporgenza, si lascia intendere, voluta dai torturatori, come altresì fu voluto, per accentuare ulteriormente la sofferenza del condannato, il contrapposto busto ritto e rigido, con l'addome rientrante e la colonna vertebrale aderente al palo della croce.
Il corpo del Cristo crocifisso è sfigurato, prosciugato dall'atrocità della sofferenza fisica che gli è stata inferta: corpo inscheletrito, rinsecchito, di inquietante magrezza, presenta una corazza di costole e di scapole in piena evidenza, a malapena ricoperte di pelle. Le braccia e le gambe, le mani e i piedi rattrappiti nel rigor mortis, il collo fortemente reclinato sono fasci di muscoli contratti, e mostrano ugualmente le loro strutture ossee (si notino ad esempio i gomiti e le rotule sporgenti), tendinee e venose.
Le tracce del colore accentuano i segni della sofferenza: rigagnoli di sangue che colano dalle ferite e si raggrumano densi sulla pelle; le piaghe della flagellazione; le spine che penetrano nella fronte e nella nuca mediante una corona di corda ritorta a treccia.
Ma il culmine drammatico dell'opera è dato dalla testa fortemente reclinata, in totale abbandono, dal collo in piena tensione e dall'espressività del viso, smagrito, incoronato da una barba incolta e arricciata, segnato da pesanti occhiaie, da un naso esile e aguzzo, dal labbro inferiore sporgente dalla bocca semiaperta e contratta dal dolore, quasi avesse emesso un flebile, estremo lamento. Una maschera di sofferenza che qui è anche psichica e non solo somatica.
Dio e uomo si confondono: il farsi uomo di Dio eguaglia nel dolore il farsi dio dell'Uomo. Finché c'è vita, c'è dolore, strazio, pena inconsolabile. Il corpo morto reca in sé i segni di quel dolore estremo (ed ogni dolore autentico, a suo modo, lo è), ma la morte è anche la sola liberazione possibile.
Neppure le credenze religiose rendono consolabile lo strazio del vivere. Spetta a noi riconoscerci umani e divini nel dolore. Solo il dolore può ospitare, e far germinare, questa doppia identità che è in noi.
Quel dolore può essere vinto solo se, una volta sperimentato nelle proprie carni mediante le pratiche ascetiche e la ricerca di una nuda essenzialità, sapremo contemplarlo attraverso la morte che tutto libera e tutto cancella, salvo il monito che la vista della morte dell'altro suscita tacitamente negli ancora viventi.
Per noi, il tragico che sprigiona da questo genere di opere fa dell'arte una forma particolarmente alta di "esercizio spirituale".

Dedico questa nota all'infaticabile Giovanni de Rosa, perché con il suo giovanile entusiasmo si adoperi a "mettere in circolo" anche "lo scultore".


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