mercoledì 22 luglio 2015

GIAMPAOLO E IL LAGO DI VARESE di Luigi Stadera


Lo studioso varesino ha lasciato un’ampia e dotta documentazione sul bacino lacustre traendone il quadro storico dell’epoca, di un avvenimento, di un personaggio. Ma nella descrizione geografica e naturalistica è incappato in alcune sviste che il nostro “laghista” ha voluto precisare. Affettuosamente.

Si può celebrare un maestro andando a spulciare le sue inevitabili sviste? Dico “un maestro” anche perché di Leopoldo Giampaolo fui effettivamente scolaro sui banchi dell’Istituto “Manzoni” a Varese; e poi amico devoto, frequentando la sua casa, com’egli la mia, talvolta con Mario Bertolone (direttore dei Musei varesini), di cui ricordo la giocosa, rumorosa, contagiosa allegria. Bertolone veniva a Cazzago per esplorare la palafitta “Ponti” in Volta de Murr, aveva anzi costruito, ispirandosi al batiscopio dei pescatori di polpi, un originale apparecchio che doveva facilitare la rilevazione dei pali sul fondo del lago per disegnarne la planimetria. Impresa ardua, che difatti non riuscì a che oggi pià facilmente riesce agli archeologi subacquei.
Bertolone era esplosivo. Un giorno, sbarcando all’Isola Virginia, lo ritrovai al centro di una tavolata (doveva essere la conclusione di un meeting scientifico); appena mi vide, gridò: “Signore e signori, vi presento un giovanotto di Cazzago!”. Ripeté tre volte il nome del paese, sottolineando naturalmente le due zeta, che così divennero sei.
Giampaolo era molto più misurato, sempre immerso nelle sue ricerche di storia locale, mandate avanti con una dedizione pari al piacere che ne ricavava. Quando lo vedevo nel suo ufficio di direttore della Biblioteca Civica, diciamo ogni settimana, tutta la storia di Varese, a puntate, secondo l’andamento delle sue indagini, mi scorreva davanti agli occhi, “visualizzata” dall’intensa partecipazione del ricercatore ai fatti che andava ricostruendo.
Ciò nonostante io presi un’altra strada e dunque non tocca a me di esprimere un giudizio sullo studioso; se mai, come del resto fanno, ai continuatori di quella “Rivista della Società storica varesina”, di cui egli pubblicò il primo fascicolo (nuova serie) nel lontano 1953. Ma dell’accattivante “lezione” di Giampaolo mi è rimasto l’interesse per le vicende del territorio, anche se più nel campo della tradizione orale che non della storia e soprattutto sul piano linguistico. Con una particolare predilezione per il lago, che anch’egli amava, tanto che più volte lo dipinse nei suoi delicati acquerelli e più volte ne scrisse, incominciando dalla Preistoria.
Il lago di Varese
A un suo articolo, intitolato per l’appunto “Il lago di Varese” e apparso nel n. 14/1979 della “Rivista”, vorrei riferirmi per fare affettuosamente le pulci al maestro come dicevo all’inizio e come facevo durante le conversazioni in Biblioteca, quando le mie conoscenze di “lagista”  si scontravano o stridevano con i “documenti” e con i vecchi libri che Giampaolo scovava e studiava, traendone il quadro storico di un’epoca. Di un avvenimento, di un personaggio (che poi Piero Chiara era svelto a “rubare” per farne un racconto).
Il saggio sul lago è importante perché, prima delle pubblicazioni di Alba Bernard e di Paolo Cottini, tenta di dare, in estrema sintesi, un’immagine complessiva dell’ambiente lacustre; e questo è anche il suo limite, essendo le pagine dedicate all’archeologia, alla storia e alla “situazione attuale” necessariamente sbrigative.
Ma io vorrei stare alla descrizione geografica e naturalistica, puntualizzando alcune notizie in contrasto con la realtà dei luoghi; notizie che il Giampaolo ha normalmente dedotto da studi precedenti, come altri autori hanno continuato a fare, ripetendo acriticamente quelle affermazioni. Intanto, un dato che non capisco (“Il lago (…) ha la profondità oscillante fra m. 6 e i m. 26,70”), essendo la profondità delle acque nei bacini di Cassinetta e di Capolago inferiore ai sei metri (nel gego piscatorio: tutta la parte esterna alla gronda, che è il secondo scoscendimento del fondo). Sempre sul piano geografico è invece illuminante la lettura di due “carte itinerarie” della seconda metà del Cinquecento e della loro simbologia, anche se sono definite “strane bilancelle a sacco” alcune reti c), qualsiasi rivierasco riconoscerebbe per bertovelli.
Passando all’iniziativa ottocentesca di abbassamento del lago di Varese, il Giampaolo scrive che si voleva “abbassare il pelo dell’acqua di m. 4,30” (là dove gli innumerevoli progetti avevano previsto tutta una serie di livelli diversi); e citando un libro del Quaglia sull’argomento (“Gli animali in congresso”, lo intitola “Gli asini a congresso”, mentre in una rievocazione del Risorgimento a Cazzago (“Virgola” n. 19/1959) aveva scritto “Gli animali a congresso”. Ma qui cade un’osservazione, che torna a onore dello storico varesino e cioè la sua disponibilità a collaborare al periodico di un piccolo paese, come aveva già fatto nel n. 8/1957 trattando di “Cazzago preistorica” (e incorrendo, per altro, in un infortunio di cui dirò più avanti).
Torniamo al lago e all’elenco dei suoi pesci, fra i quali il Giampaolo include “barbi, pighi, lottatrici e lamprede”, sconosciuti alle acque varesine. Dei pesci che davvero ci sono, egli chiama “alborella” l’alborella, termine che se mai giustifica nel dialetto, dove registra l’oscillazione albrèla-arburèla. Il pescato e ripreso dal Quaglia (“Laghi e torbiere del circondario di Varese”, 1884: “ben quintali 45.000 annui di pesci”; stima inverosimile e anche incomprensibile, perché appena più avanti lo stesso Giampaolo annota: “1500 quintali complessivi di pesce pescato intorno al 1935”, che è una valutazione molto più realistica.
Fra le reti è citato il “riazzo”, ancora un prestito dal Quaglia, che traduce arbitrariamente il dialettale niàsc (peggiorativo di nìj, nido o giaciglio); non si tratta di una rete in senso proprio. Ma della “sacca” delle reti da cinta (réet de zìnta), dimesse nel primo Novecento. E fra gli uccelli troviamo il “caporosso”, evidente abbaglio per “capo rosso”, in dialetto coo ross (in italiano moriglione).
Caro Giampaolo, così innamorato del lago e così varesino nel restare “a pelo d’acqua”, essendo chiaro che gran parte degli “errori” è imputabile alla scarsa famigliarità con la tradizione lacustre. Ma forse siamo matti noi delle rive a pretendere che chi non vi è nato abbia con i luoghi i nostri stessi legami.
Azzate, Buguggiate e Cazzago
Diverso (e meno peregrino, se non fosse una semplice svista) l’infortunio al quale accennavo più sopra. Giampaolo conclude l’articolo su “Cazzago preistorica” con queste parole: “Il Bonaventura Castiglioni, in un suo noto libro, ci dice che esistevano nel villaggio parecchie lapidi romane, ma talmente corrose che, egli scrive, “interpretationem non admittunt”. Il libro è “Gallorum Insubrum antiquate sedes” (Gli antichi insediamenti dei Galli Insubri, 1541) e la citazione è dal paragrafo su Azzate (actiacum oppidum). Il Castiglioni, volendo provare che un tempo Azzate era più grande e più importante, immagina che Buguggiate (Gubugiacus pagus) significhi “Burgum Actiaci” (Borgo di Azzate) e Cazzago (Cactiacum villula) “Castrum Actiaci” (Castro di Azzate): che è un simpatico modo di sostenere le proprie tesi e anche di fare toponomastica.
Dopo di che l’autore passa alla “familia Bossiorum adhuc hac in urbe florens” (i Bossi erano signori di Azzate) e aggiunge: “In castro Actiati plurima antiquitatis monumenta satis insignia visuntur sed (…) interpretationem non admittunt” (cioè sono illeggibili). Mi sembra pacifico che il Castiglioni si riferisca ad Azzate, anche se egli stesso ha ingarbugliato la matassa chiamando Cazzago “Castrum Actiaci”; e forse al Giampaolo è sfuggito che, lasciata la villula di Cazzago, il discorso era ritornato all’oppidum di Azzate e ai suoi molti e insigni “antiquitatis monumenta”.
Mi chiedo, a questo punto, quanti saranno mai gli strafalcioni disseminati nelle cose che vado scrivendo: e mi farebbe senz’altro piacere, per amore della verità, se le pulci qualcuno le facesse a me. Potrei anzi chiederlo a un amico e collega, che ormai ne ha fatto una professione.
Più seriamente e per quanto sia un punto acquisito, direi che la rivisitazione del lago secondo Giampaolo conferma la necessità di confrontare e di integrare le notizie contenute nei documenti e nei libri con quelle che si possono leggere nelle cose o che sono ancora vive nelle pieghe dell’oralità.


(Estratto da Lombardia oggi, 7 settembre 1997).

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