mercoledì 22 luglio 2015

STORIA DELLA VAL BOSSA

Quella valle è un buco, ovvero un "bogio". Per una storia della Val Bossa di Amerigo Giorgetti.

Sei citazioni selezionate da un fondo d’archivio non ancora molto noto
(trascrizione di Angelo Barbieri):

Archivio di Stato di Milano, Acque parte antica.
N. 275 – Lago di Gavirate.
Gride sulla pesca con i rialoni nel Lago di Gavirate.

  1. … per le terre lacuali del Lago della Valle di Bogyo detto di Gavirà.
  2. … concesseni alli nobilli della valle Boggijo…
  3. … jl lago di la valle bogijo ditto di Gavira…
  4. Havendo i nobili della val Bodio supplicato …
  5. … quelli della Val Bodio di poter’ del Podestà di Trebbia et quelli dela
      pieve di Trebbia et luoghi circonvicini verso la Riviera di S.ta Maria al
      Monte in poter’ del Podestà di val Bodio.
Crida sopra il pescare sul Lago di Gavirà ad istanza delli nobili dela Val
Bodio.
  1. … consignadoli nele mani del Podestà di Bodio inimico deli supplicanti.

Per i non archivisti, il gAzzatino della Val Bossa è la prova lampante che esiste veramente una valle con tale nome. Ma un conto è ritenere che la Val Bossa abbia dato il nome al gAzzatino, un altro che il gAzzatino abbia inventato la Val Bossa.
Noto subito la smorfia di disgusto degli addetti ai lavori.
Calma. Le due affermazioni sono entrambe vere sia pure in modo diverso: interrogate le persone del circondario che incontrate e chiedete loro: “Avete mai sentito parlare della Val Bossa?”. Molti risponderanno di sì, ma solo perché a casa loro ricevono da circa vent’anni un giornale con questo nome. Difficile però che sappiano con precisione dove si estende la Val Bossa.
Quanti poi sanno che nei più antichi documenti quella che noi chiamiamo Val Bossa compare come Val Bodio, o Bogio, o Bozo?
Certamente lo sa Giancarlo Vettore e i suoi eletti frequentatori. Non molti di più.
Ecco perché credo che questo giornale sia uni dei più importanti fattori della rinascita del toponimo Val Bossa. E anche della necessità attuale di esaminare tutta la questione con metodo storico critico.
L’approccio storico alla realtà locale è l’esatta contrario di quello delle guide turistiche in commercio (ne esisterà pure qualcuna sulla nostra valle), che vogliono spiegare a tutti in modo indubitabile tutto ciò che si deve conoscere di una certa località. E anche di più.
Lo storico invece parte col suo lavoro dubitando di tutto, persino dell’esistenza dell’oggetto di cui si occupa. O meglio, l’oggetto della ricerca non esiste prima che la ricerca gli abbia conferito i suoi connotati, che non coincidono necessariamente con quelli che il senso comune gli attribuisce. In ogni caso l’oggetto della ricerca non è mai dato una volta per tutte, ma si trasforma nel tempo insieme al progredire della ricerca.
Quando lo storico deve trattare della Val Bossa è costretto a chiedersi preliminarmente a che cosa corrisponde nei documenti ciò che comunemente indichiamo con tale nome. Egli potrebbe scoprire, paradossalmente, che la cosiddetta Val Bossa non è altro che il gadget di un motoraduno nazionale che si è ripetutamente tenuto ad Azzate a partire dal 1969 (non me ne voglia il Vettore), oppure il marchio di una testata giornalistica che ha l’antichità di quattro lustri (come appunto il gAzzatino).
Se poi fosse veramente così, non ci sarebbe proprio niente da stupirsi, perché si tratterebbe del fenomeno assai noto della “invenzione della tradizione”. La ricerca affannosa di una identità locale si esprimerebbe con la consueta creazione di miti, tanto proiettati nel passato quanto vicini al tempo presente.
Niente paura. Per la Val Bossa non è così. Non è affatto un’invenzione fra le altre il cartello con scritto “Strada della Val Bossa”, insieme a quelli che da qualche anno la provincia di Varese ha disseminato in tutte le strade di sua competenza. Basta solo consultare nell’Archivio del Comune di Azzate la delibera del 1791, che approva la costruzione della strada della Val Bossa, che va da Capolago a Bodio. Se non erro, è stato proprio il Vettore a segnalarlo al compianto Giancarlo Peregalli, e ancor prima a pubblicarlo sul numero unico del motoraduno del 1986.


Avrete compreso che a questo punto ho trovato un interlocutore nella ricerca, Anzi due, perché del feudo della Valbossa in età moderna si è occupato anche Egidio Gianazza in Profilo storico di Gazzada Schianno (1993). Devo poi segnalare anche un gustoso articolo di Paolo Magni sulle colonne di questo giornale (n. 195 settembre/ottobre 2001) dal titolo eloquente Le necessità del 2000 porteranno alla fusione dei comuni? Val Bossa Città del futuro.
A questo punto non posso più inventare l’acqua calda, ma devo tener conto di quello che è stato scritto prima di me (la storiografia), ed eventualmente aggiungere anch’io qualche altra conoscenza.
Attenzione però: il contributo che uno storico aggiunge agli altri non è un mattoncino di un disegno già completo da qualche parte, quanto piuttosto la proposta di un nuovo disegno in cui ricollocare al loro posto tutti i vari mattoncini.
Partiamo pure dal nome: Val Bodio/Val Bossa.
Il vettore ci rimanda al diploma del 28 settembre 1717, con il quale il Governatore della Lombardia concedeva che la Val Bodia si chiamasse da allora in poi Val Bossa (erano i Bossi di Azzate che glielo chiedevano pro domo loro). In base a ciò, è inoppugnabile affermare che il nome più antico era Bodia o meglio Bodio, mentre Bossa è una novità, voluta dalla famiglia Bossi che nel 1538, ma anche assai prima, deteneva il feudo in questione. Come si vedrà, nel 1538 i Bossi furono costretti a comprare il feudo, sborsando 2000 lire a favore della Camera milanese, assoggettandosi in tal modo alle direttive di bilancio dello stato di Carlo V.
La data del 1538, dunque segna l’inizio non del feudo della Val Bossa, ma l’inizio della sua travagliata storia moderna, tutta intessuta di mediazioni fra il potere statale e quello feudale.
La consuetudine era che i nobili chiamassero con il loro nome la terra su cui erano signori: nel caso nostro si trattava di fare una piccola modifica, da Bodia a Bossia, che quasi poteva passare inosservata. Poi c’era anche il fatto che un paese nel circondario si chiamava Bodio o Bogio, esattamente come la valle.
A proposito di valle non si può certo affermare che la nostra sia simile in tutto e per tutto ad una valle montana, ma ugualmente, come qualsiasi altra, è una bassura, una fossa, un avallamento affiancato da alture da un’altra parte. Per rendersene conto, fermiamoci sedendo e mirando, quando arriviamo in cima alla Maccana: a valle si apre uno spettacolo che non è esagerato definire sublime.



Anche un valbossiano incallito si trasforma per l’occasione in un turista giapponese a bocca aperta.
Una meraviglia; fateci caso. La campagna degradante si trasforma in una specie di anfiteatro che guarda in lontananza verso un lago incantato, che riflette i colori dei colli e del cielo. Questo lago è il cuore della Val Bodia.
Sui documenti citati all’inizio, alla metà del Cinquecento, i feudatari di Azzate lo hanno chiamato Lago della Valle di Bogyo detto di Guaivà, che mi sembra il toponimo storicamente più corretto per quello che incivilmente ci ostiniamo a chiamare lago di Varese. Niente da fare: per me deve essere rinominato il lago della Valle di Bogio (chissà se qualcuno mi dà retta in alto loco?).
Questa denominazione di forte sapore dialettale veniva fornita ai Magistrati delle Entrate di Milano dai nobili della valle, e cioè dai feudatari di Azzate, che rivendicarono vibratamente i loro tradizionali diritti di pescare e far pescare, libere ac quocumque tempore omne genus piscium (ma loro preferivano tradurlo in vernacolo), con una supplica il cui valore linguistico consiste nella metodica storpiatura e rozzezza lessicale. E’ per noi una garanzia che i signori di Azzate chiamavano le cose con il loro nome, e non con quelli che accarezzavano le orecchie latine dei Magistrati delle Entrate Camerali.
Quello infatti era il lago che i feudatari di Azzate condividevano con quelli di Gavirate dall’altra parte. I Bossi ad Azzate ed i Besozzi a Gavirate, con relative preture: questa e la geografia istituzionale del lago.
I Bossi di Azzate appellavano la loro parte di lago col nome del feudo di cui facevano parte i luoghi che confinavano esso, e non certo perché uno di questi luoghi si chiamasse Bodio o Bodio.
Per chi sa il dialetto, “bogio” suona come una maldestra italianizzazione di “buco”.
Ancora oggi nella valli svizzere i valligiani li chiamano “boggesi”, senza che Bodio centri assolutamente niente. C’è la bogia che è la parte di sotto a valle e la motta che è quella si dopra a monte. Il bello è che, trasferiti nell’ambito socio politico, i due nomi indicano una disuguaglianza cetuale, la parte alta, cioè l’aristocrazia, e la parte basse, cioè il popolo. Nella Valle Bodia c’è il popolo, nella motta del castello c’è la nobiltà.
E anche: a Bodio i contadini, a Lomnago i signori. Solo in quest’ultimo senso Bodio si ricollega alla Val Bodia: cioè per il fatto che si chiamano con lo stesso nome, perché indicano entrambi la parte bassa. Così almeno appare Bodio ad un signore che dimora a Lomnago: un bogio, appunto.
Quando quindi diciamo “Val Bogia”, facciamo una ridondanza, così come se aggiungessimo la parola “valle” a dei toponimi che già la contengono, come Valletta o Vallaccia, dato che “bogia” significa valle. Solo per quelli che non lo sanno, o che se ne sono dimenticati, diciamo che la Bogia è una valle.
Quando poi sul documento compare “il podestà di Bodio”, non siano sicuri se il podestà era a Bodio, oppure era quello della valle, che, come sappiamo risiedeva ad Azzate. Noi propendiamo per quello della valle, a costo di inimicarci alcuni vanagloriosi amici bodiesi.


Ci sembra tutta una ricerca da fare per confermare una tesi, che in verità non è affatto originale, e cioè che la Val Bogia sia stata parte di un sistema di fortificazioni che servì nell’Alto medioevo come postazione di guardia e controllo dei flussi migratori armati. L’origine militare e feudale del toponimo sarebbe in tal caso accertata sui documenti. Ed è questa origine che potrebbe spiegare gran parte degli eventi successivi, i quali, considerati in se stessi, non si riducono ad altro che a pregevoli curiosità antiquarie. E’ una ricerca tutta ancora da fare, non nel senso che nessuno se ne sia ancora occupato, ma per il fatto che si dovrebbe raccogliere in modo sistematico un materiale d’archivio che è stato dissepolto solo in parte, e che deve essere acquisito e pubblicato con una rigorosa metodologia storiografica.
Dovremmo partire dai resti di costruzioni del periodo romano o tardo romano, come pare esistano ad Azzate. La parola in casi simili va data agli archeologi, anche se, a volte, hanno poco di storicamente rilevante da suggerire.
Gli storici devono accontentarsi, per ora, di qualche sporadica citazione, come quella riportata dal Vettore, del 1160, “quando i Milanesi distrussero l’antico castello fortificato sopra il monte Maggiore sopra Lomnago, che era cinto da una doppia cerchia di mura ed aveva otto torri e sembra che fosse la maggiore fortificazione della Val Bodia”. Era praticamente il corridoio di ingresso alla valle, in un’epoca in cui la viabilità seguiva percorsi alti, lontani da paludi e inondazioni (la strada della valle fu ideata molti secoli più tardi).


Niente di nuovo sotto il sole: le fortificazioni della Bogia, che nell’Alto medioevo servivano come difesa della valle, si trasformarono in seguito nei laudari che ospitavano i nemici del comune di Milano. Non furono i barbari, ma i Milanesi a distruggere la maggior parte dei castelli e delle fortificazioni della nostra zona; e poterono farlo in un’epoca in cui i nemici esterni se ne stavano tranquilli nei loro confini e i nemici interni difendevano le loro autonomie nei confronti della grande città “imperialista” all’interno delle antiche fortificazioni. Sarebbe una storia avvincente quella che ci racconta la difesa strenua dei vecchi feudatari, alla Guido da Velate, tanto per intenderci, nei confronti dei bottegai milanesi e dai fanatici riformatori. Un romanzo più che una storia.



Ma qui il vanaglorioso bodiese potrebbe ritornare alla carica, perché il più importante castello della valle si trovava proprio a casa sua, e quindi Val Bodio, proprio come il medesimo luogo a cui appartiene.
Quando si discute di parole, non è mai detta l’ultima parola. La cosa più corretta in questi casi è sospendere subito il giudizio, a scanso di qualche faida di comune.
La citazione del 1160 è una delle tante dell’Antiquario dell’oblato Francesco Bombognini, il quale,come molti eruditi del suo tempo (fine Settecento), aveva a disposizione varie pergamene oggi scomparse, che saccheggiava allegramente senza preoccuparsi non dico di farne una trascrizione, ma nemmeno di citarne la provenienza. Per questo tutte queste belle notizie, compresa la nostra,sono un po’ campate per aria e quasi per niente utilizzabili.



Per fare una storia non si può ripetere, accettando per buono, ciò che altri hanno detto o scritto; ma è assolutamente necessario ricorrere ad un esame rigoroso di tutte le fonti.
Niente impedirebbe di trovare in futuro altre citazioni in qualche pergamena, ma non c’è da farsi molte illusioni. Se per il XII secolo le citazioni sono due, per i tre secoli precedenti sono 0,5, e ancora prima zero. Se poi l’archeologia non ha niente da dire, allora bisogna tacere: sarebbe una vera ingiustizia, perché le cose che meglio conosciamo della Val Bossa sono assai più recenti, e poco ci dicono del suo passato.
Sarebbe perciò un grave errore credere che la storia della valle coincida con le vicende di cui siano più a conoscenza. Il voluminoso plico di carte dell’Archivio di Stato di Milano sulla vendita del feudo nel 1538, e sulle pratiche successive fino a Settecento inoltrato, ampiamente divulgate dal Gianazza, sono il più cospicuo materiale documentario di cui disponiamo attualmente, ma solamente perché lo Stato di Milano volle archiviare con scrupolo tutti gli atti relativi ai feudi cosiddetti camerali, tra cui anche la nostra Val Bossia, o meglio Bodia, anticamente detenuta dai signori Bossi di Azzate.




Lo stato moderno milanese prende possesso, cioè fa l’apprensione di una giurisdizione, fino ad allora esercitata a livello periferico, che comprendeva in primo luogo la riscossione della tassa sul sale, per poi pubblicare un bando che la assegna al migliore acquirente. E’ logico perciò che si facciano avanti i soliti Bossi, che conducono le trattative con un prestanome (Agostino D’Adda), e anche con un profondo risentimento nell’animo nei confronti di un potere in cui non possono più identificarsi. Un po’ come se lo stati ci costringesse a ricomprare dei nostri terreni, per il fatto,  formalmente ineccepibile, che anticamente erano stati assegnati alla nostra famiglia solo a titolo beneficiario (e quindi senza l’ereditarietà).
Quello stesso stato però mescola le carte in tavola, dato che ricorre alla purezza della tradizione, per ottenere vantaggi finanziari completamente ad essa estranei. Un tempo i Bossi guerrieri difendevano la Bogia dalle incursioni di assatanati stranieri, mentre ora dovevano forzatamente contribuire al pareggio di un bilancio che era deciso in Francia o in Spagna.
Inutile che noi desumiamo la geografia della valle sulla base dei luoghi presenti nei successivi atti notarili camerali: Azzate, Daverio, Galliate, Brunello, Crosio, Gazzada e parte di Bodio. Perché poi “parte di Bodio”? Era il caso di farlo a pezzi? Nell’elenco mancano anche alcuni luoghi (vedi Cazzago, Inarzo, Casale Litta), che pure sono comunemente ritenuti parte della valle, così come si nota la vistosa presenza di Gazzada, che invece si ritiene estranea.
I criteri con cui sono stati tracciati i confini non seguono evidentemente alcuna logica fisico-morfologica, e tanto meno si basano su una qualche presenta appartenenza politico culturale.
Mentre in un tempo molto passato il territorio infeudato seguiva una disposizione tipicamente strategico militare, nel 1538, e in seguito, questa necessità viene sostituita da ragioni puramente contrattuali e comunque del tutto arbitrarie.
Il feudo non è un’entità territoriale, ma un complesso di giurisdizioni che gravano sui vari fuochi, cioè nuclei familiari, piuttosto che su un’area geografica definita. L’elenco dei paesi, che abbiamo riportato, non ha dunque alcuna patente di antichità, ma è solo un accordo del tutto provvisorio, con cui compratore e venditore pongono fine alla loro trattativa.
La vendita del 1538 a favore del senatore Egidio Bossi dà inizio alla parabola discendente della Val Bossa. L’ultimo discendente “capace” (di intendere e volere) del senatore Egidio è Francesco Bossi che muore nel 1701. Anche nelle migliori famiglie ad un certo punto si inceppa il meccanismo biogenetico, soprattutto se manca un provvidenziale imbastardimento.
In tutte queste vacanze dinastiche il fisco milanese gioca le sue solite carte: già nel 1652 alla morte di Marco Antonio Bossi, aveva tentato di impugnare la vendita del 1538, dichiarandola pregiudizievole ai superiori interessi dello Stato. In pratica voleva rastrellare ancora più soldi, 4200 lire pere la precisione, versati da Giambattista Bossi, a nome dei consorti. Quando questi avessero pagato la loro parte, il feudo poteva essere ripartito nei vari rami della famiglia.
Nel 1706, dopo la morte dell’ultimo erede del senatore Egidio, Fabrizio Benigno Bossi, erede testamentario di Francesco, era quasi arrivato ad un accordo con il Magistrato delle Entrate Straordinarie, ma il suo possesso del feudo fu annullato da un decreto dell’imperatore Carlo VI. Il suo successivo ricorso ebbe felice esito nel 1717, quando divenne signore di un feudo che si chiamò ufficialmente da allora Val Bossia, dietro solenne giuramento di fedeltà vassallatica all’imperatore asburgico e il pagamento di 430 lire.
Dalla metà del Seicento il feudo entra in una fase di disgregazione sia geografica che dinastica.
Nel 1652 i feudatari di Azzate perdono la signoria sulle acque del lago, comprata dal conte vescovo Francesco Biglia, e nel 1657 perdono la signoria sulle terre di Azzate, che non fa più parte della Bodia, ma forma un feudo a sé con Dobbiate. Un tempo i Bossi di Azzate si vantavano di essere signori delle terre e delle acque, ma ormai sfuggono dal loro dominio sia le une che le altre, a favore di certi nuovi e di famiglie del patriziato milanese.
Azzate passò nelle mani di svariati personaggi assolutamente privi di qualunque continuità ereditaria. Come Giacomo Maria Alfieri (1659), Nicola Torrioni (1712), Giulio Antonio Bianconi (1737), Giovanni Paolo Mollo (1751).
Non c’erano più illustri famiglie di mezzo, ma singoli affaristi, se non addirittura avventurieri, come Il Bianconi, che perse il feudo, dopo che fu condannato alla pena capitale. O forse in pieno Settecento non si consentiva ai feudatari di esercitare le violenze e le illegalità, che erano considerate del tutto legittime all’epoca gloriosa dei Bossi. Anche anticamente, del resto, il minimo che poteva accadere ad un feudatario fuori legge era quello di essere bandito, e cioè di poter essere ucciso da chiunque incontrasse per la strada.
I Bossi di Azzate, nel frattempo, sparpagliati in rami sempre più intricati e secchi, conservavano i resti di quello che un tempo era stato il feudo, ormai privo di cervello e di cuore. L Val Bodia senza Azzate è come la Francia senza Parigi (perdonatemi il paragone); senza il lago della valle è come Parigi senza la Senna. Un organismo senza cuore e cervello è solo apparentemente vivo, e anzi, è prossimo alla necrosi.
Il poeta Dante scrisse che “rade volte scende per li rami la virtù dei padri”, ma sarebbe ingiusto attribuire la disgregazione del feudo all’inettitudine di una razza troppo pura. La Val Bossa seguiva il destino di molte altre longeve istituzioni feudali, minate alla radice da una nuova concezione della pubblica amministrazione e soprattutto di una nuova distribuzione della ricchezza mobiliare e fondiaria.
E tuttavia nel catasto di Maria Teresa del 1722 compare sui vari cartigli, come se niente fosse, “territorio di Azzate detto della Val Bossia, pieve di Varese, ducato di Milano”. Questo catasto, in effetti, non è un profetico progetto, ma una bella fotografia retrospettiva, con il grande merito di conservare, almeno sulla carta, una storia antichissima in procinto di voltare pagina. Cosa che avvenne con le riforme napoleoniche (queste sì risolte al futuro), che, per la storiografia liberale, diedero la picconata definitiva ai residui feudali sopravvissuti all’epoca del dispotismo.



Certo, di Val Bossa si parlò ancora nella delibera del 1791 del Comune di Azzate, a proposito dell’omonima strada costiera, che oggi leggiamo sui cartelli stradali, ma l’oblio scese rapidamente sia sulla cosa che sul nome.
La Bossa è un’istituzione essenzialmente feudale, con caratteristiche inconfondibili, che resistettero vari secoli,anche quando i Bossi non ebbero più dalla loro parte l’autorità e il carisma.
Lo stato liberale moderno, visceralmente antifeudale, doveva sospingere il feudo nel solaio degli oggetti storicamente inservibili.
La persistenza di istituzioni storicamente datate e sovrapposte le une alle altre è una delle caratteristiche dell’antico regime. Niente di ciò che ha avuto vigore giuridico viene cancellato in un sistema che vanta una inestricabile giungla di leggi, istituzioni e giurisdizioni: tutte compresenti, anche se molto spesso in contrasto fra loro. Il feudo della Val Bossa resiste ancora per un tempo indefinito, pur avendo perso qualunque importanza strategica e anche, ultimamente, qualunque coerenza territoriale. Quando la riforma amministrativa, a partire dal primo Ottocento, farà piazza pulita di tutti i ferri vecchi delle arretrate aristocrazie, anche la Val Bossa scomparirà senza far rumore e dar fastidio ad alcuno, come se svaporasse nell’aria a mo’ di vescica scoppiata o vescia stravalgata.
E’ del tutto comprensibile quindi il fatto che la rinascita della Val Bossa degli ultimi trentacinque anni coincida con quella che viene definita crisi della modernità, con il suo corollario del superamento del centralismo dello stato-nazione. La creazione del villaggio globale ha spinto molti orfani delle comunità a ricercare le proprie radici in un terreno anteriore al nazionalismo otto novecentesco, dando in tal modo vita ad un inedito municipalismo che recupera il medioevo in chiave postmoderna.
Solo per questo stiamo riutilizzando molti oggetti in disuso finiti nel solaio della storia.
Recuperiamo fatti e personaggi sconosciuti o dimenticati, con la stessa passione di certe donne che riesumano delle bellissime camicie dalle cassapanche delle loro bisnonne, si direbbe con grande intuito, visto che nessuno oggi saprebbe ricamare con tanta finezza. Non è più la nazione a soddisfare il desiderio di identità, e nemmeno l’antichissima comunità di villaggio, irrimediabilmente disintegrata da nuovi assetti territoriali. Oggi si “inventano” comunità intermedie, prive di certi confini e nemmeno segnate sulle carte geografiche; tanto più funzionali al meccanismo dell’identità quanto meno compromesse di un recente passato politico e amministrativo.
Si pensi che cosa è stata in questi ultimi anni la riscoperta dell’Insubria, alla quale sono stati dedicati saggi cartografici e storiografici di notevole mole, inversamente proporzionali al suo peso storico. A mio giudizio, anche la Val Bossa è una di queste comunità intermedie, che, indipendentemente dalle loro credenziali, servono come meccanismi di identificazione collettiva.
C’è chi, addirittura, auspica la formazione di una federazione di comuni della Val Bossa, che possa rispondere alle nuove sfide logistiche e amministrative, alle quali i piccoli comuni sono singolarmente incapaci di rispondere. L’articolo di Paolo Magni ce lo ricorda senza mezzi termini.
Il suo “preambolo storico” mira principalmente a costruire il futuro unitario dei nostri paesi: “viene spontaneo pensare che tutte queste comunità, radicate nella sponda sud del lago di Varese, collegate da strade immerse nel verde dei boschi, costituiscano in realtà una sola, bella cittadina che conta oltre 20.000 abitanti”.
Il bello è che molti di noi hanno sviluppato un senso di appartenenza al territorio, che mancava del tutto, quando nel passato remoto la Val Bossa esisteva veramente come feudo. Più che di appartenenza, allora si trattava di dispotica costrizione alla soggezione, fatta di prelievi forzati e corvée di vario tipo, che gravavano sulle popolazioni, o meglio sui fuochi che erano convenzionalmente compresi nel feudo. Forse gli unici a sentire un senso genuino di appartenenza alla Bogia erano i Bossi di tanti secoli passati, che, a furia di comandare, riscuotere pedaggi e gabelle, amministrare la giustizia, potevano dire con qualche ragione: “La Val Bogia siano noi. Anzi, è giusto che da ora in avanti si chiami Val Bossia, cioè la Valle dei Bossi”.
Nel Medioevo di casa nostra i Bossi guerrieri ci difendevano dai veri o presunti pericoli di popoli transumanti, mentre oggi ci difendono dalla massificazione e dallo sradicamento altrettanto distruttivi dell’ambiente e della storia locale. Anche oggi le nostre comunità sono prese da una psicosi collettiva suscitata dalla migrazione degli stranieri “infedeli”, e cercano un Bossi contemporaneo (qualunque riferimento a persone è del tutto casuale), che le difenda sul loro proprio territorio.
Quando lassù dalla Maccana scorgiamo l’incanto del lago della Bogia, ce ne sentiamo anche eticamente responsabili, come se dovessimo salvare dallo scempio e dall’inquinamento una terra che ci appartiene. Siamo noi oggi a dover difendere le memorie storico artistiche che i Bossi ci hanno consegnato dopo la loro s confitta, e i valori naturalistici e ambientali, aggrediti da nuove schiere di affaristi e speculatori privi di scrupoli.
Memoria storica e cura dell’ambiente possono oggi ricostruire nuovi profondi legami fra popolazioni e territorio della futura Val Bossa.


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