Il 1° novembre 1535 moriva, senza figlioli, Francesco
Sforza, Duca di Milano, lasciando il Ducato a Carlo V che già lo considerava
suo, quale feudo imperiale, contro le pretese del re di Francia, Francesco I,
che volendolo per sé come erede legittimo di Valentina Visconti (sposata, nel
1387, al Duca di Orlèans) era subito disceso dalla Savoia nel Piemonte,
occupando Torino, per invadere di là il Milanese.
Carlo V accorse, lo prevenne nell’occupazione del Ducato, e
puntò su Torino, assediandola. Ma, come la guerra si faceva aspra e
dispendiosa, “la Maestà dell’Imperatore ordinò all’Eccellentissimo Signor
Don Antonio Di Leva, Prefetto di Milano e poscia Luogotenente Imperiale, che,
con sodisfattione dello Stato nostro procurasse di riscuotere dodici mila scuti
al mese dalle Cittadi e Province soggette, a cagione di mantenere in piedi la
Guerra e soccorrere la soldatesca stipendiata dalla Camera”. Il che fu
fatto, sebbene, immagino, con poca soddisfazione dello Stato e dei suoi
abitanti ai quali fu indorata la pillola con la promessa che il tutto, essendo
affatto straordinario, verrebbe a cessare con la vittoria o col miglioramento
delle finanze camerali.
Questa fu l’origine del famoso mensuale che Milano
pagò per secoli ai suoi dominatori, Spagnoli prima, Austriaci poi, e che, fin
dal 1546, nell’occasione di nuove guerre, fu portato a 25.000 scudi da 110
soldi e consolidato in questa cifra durò per tutti gli anni avvenire.
Il nuovo balzello doveva essere ripartito fra il Ducato ed
il Contado, ossia fra Milano e le Province, poi, nell’ambito di ognuna, fra le
rispettive Comunità e queste, infine, dovevano suddividerlo fra i singoli
amministrati.
Ma qui cominciarono i grossi guai, perché né lo Stato, né le
Province, né i Comuni erano in possesso di elementi non dico sicuri ma neanche
approssimativi per un razionale riparto di una imposizione universale e grave
come questa.
Fino allora, cioè fino all’anno 1536, lo Stato di Milano non
aveva avuto che due carichi camerali applicati a tutto il territorio: il Censo
del Sale e la Tassa dei Cavalli.
Il Censo del Sale ebbe origine da una distribuzione
forzata di Sale, che fu imposta l’anno 1462 dal Duca Francesco Sforza, il quale
obbligò tutti i luoghi del suo Dominio a levarne dalla Camera una certa
quantità, calcolata sul consumo annuo probabile, in ragione li libbre &
(circa Kg. 4) per ogni persona dai 7 anni in su, e di uno Staro (circa 18
litri) per ogni 10 capi di bestiame, oltre a qualche aggiunta per la salatura
dei formaggi. Fu formato così il Libro dei contingenti comunali, detto Tavola
del Sale, tramutato poi in Censo del Sale (1534) quando i Comuni
furono liberati dall’obbligo di levare il Sale dalla regia Camera, però
addossando loro un contributo annuo fisso di soldi 40 per ogni Staro risultante
dalla Tavola; contributo che andò in varie occasioni fortemente aumentando.
Le città non erano comprese nel censo; però la regia Camera
vendeva loro il Sale, a mano a mano che lo prelevavano, ad un prezzo maggiorato
di 40 soldi lo Staro (e relativi aumenti) in confronto del prezzo fissato per
le Comunità. Se non era zuppa era pan bagnato.
La Tassa dei Cavalli fu introdotta nel 1442 dal Duca
Filippo Maria Visconti, il quale ripartì sopra le terre del suo Ducato
l’alloggiamento del suo esercito (consistente allora in 125.000 cavalli) in
proporzione della loro capacità a provvedervi. Ma nell’anno 1493 Ludovico il
Moro tramutò tale obbligo in una tassa di soldi 50 per cavallo, che d’allora in
poi costituì entrata regia patrimoniale, più volte aggravata (ad esempio nel
1558 rendeva 30.598 scudi). Il che non impedì che la Spagna addossasse di nuovo
alle Terre dello Stato il mantenimento effettivo dell’esercito e continuasse a
riscuotere la Tassa dei Cavalli, che doveva esserne la surrogazione, sia pure
scontandola talora dalle spese.
La Tassa dei Cavalli fu ritoccata e ripartita più volte,
però senza allontanarsi molto dai contingenti originali. Ne era stato esonerato
fin dal 1469, Il Ducato di Milano per convenzione col Duca Galeazzo Maria
Sforza, indi, per ragione ignota, anche il Contado di Como.
E’ facile arguire che i due carichi, risolvendosi in
tassazioni personali quasi uniformi, ma di più stabili nel tempo, erano ben più
duramente sentiti dalle Comunità e dalle persone povere che non dalle altre. Né
diversamente avveniva pel terzo modo di tassazione universale anch’esso usato,
quello per teste vive o per focolari, cui si aggiunse in seguito
la bella trovata delle teste morte, cioè di quote che erano addossate ai
possessori di terreni abbandonati dai coloni perché non ne ricavano tanto da
vivere, ma che dovevasi pagare ugualmente quasi che le terre fruttassero anche
senza lavorarle.
La ripartizione del mensuale non si poteva fare,
adunque, se non in base al Censo del Sale, od alla Tassa dei Cavalli od alle
Teste; tre modi uno più ingiusto dell’altro. Cosicché, effettuata alla meglio
la prima suddivisione a beneplacito delle Autorità, ne vennero tante doglianze
e tante proteste, che Carlo V, con determinazione del 13 marzo 1543 ordinò al
Marchese del Vasto di formare l’estimo dei beni stabili e delle mercanzie al
fine di ripartire il mensuale sulla base dei valori capitali risultanti.
I lavori non ebbero inizio se non nel 1548, sotto il pungolo
del raddoppiato balzello, che per 50 anni ancora doveva essere applicato col
vecchio riparto, qua e là ritoccato per le liti e per le resistenze delle
Comunità più aggravate.
Si cominciò dalla misura generale dei beni di prima
stazione (cioè dei terreni) che durò dal 1549 a tutto il 1552, ancorché “s’impiegassero
molti Misuratori, Ingegneri, Agrimensori, Assistenti, Contramisuratori, ed
altri Agiutanti, ed ogni giorno si ripigliasse la fatiga dal nascere fino al
tramonto del sole, misurando separatamente ciascun luogo, Villa e Terra, con
bellissima regola ed ordine ritrovato da Ludovico Bergamino Commissario
dell’Estimo e Capo di quest’impresa”.
Questo per conto dello Stato. Ma contemporaneamente la Regia
Camera ordinò ai proprietari la denunzia dei beni stabili “distinguendo gli
beni, luoghi, con le qualità, quantità, e vero numero di pertiche, siti e
confini, dichiarando s’erano lavorate ed erborate, prati con acqua o senza,
vigne, selve, boschi, pascoli, zerbi, inondazioni dei fiumi, isole, giarre,
molini, hosterie, Datij, passi, pedaggi, porti, saline, laghi, fiumi, acque di
pescagione, ed ancora tutti i livelli, Censi, affitti, redditi, torchi, folle,
case, botteghe, o parte di esse, quali si appigionassero, esprimendo il nome
della Parrocchia, ed abitazione loro, con ogni chiara distinzione”.
L’intenzione era buona, ma quale fu il risultato? Molto
meschino, se si pensa che la misura generale diede, per i terreni una
estensione totale di pertiche milanesi 16.330.982 tavole 9, piedi 8 once 7,
punti 8, atomi 1, che salì, in seguito a revisione e completamenti, a pertiche
18.421.888, tavole 22, cifra che corrisponde a 1.205.713 ettare, mentre la
superficie vera doveva aggirarsi attorno a 1.700.000 ettare. E vi s’aggiunga
pure l’area occupata dalle città, dalle acque, dalle strade, dai beni di
seconda stazione (case rurali, molini, osterie, ecc.) ma di ben poco essa si
accresce. La verità è che la così detta misura generale fu invece
parzialissima perché furono omesse molte terre tropo vicine alla guerra
guerreggiata, tutta la montagna (Valtravaglia, Valsassina, Riviera di Lecco,
Terre del vergante, ecc) i terreni con diritto all’esenzione laica (per
concessione sovrana, per riscatto, pel privilegio dei XII figli) oppure
all’esenzione ecclesiastica molto più estesa; diritti talvolta reali ma spesso
soltanto asseriti. Infine, molte terre passarono esenti dal carico “per
essere di persone grandi, e guerrieri”, per non dire “di persone
prepotenti”.
Ma anche per i terreni misurati le cose non andavano meglio.
V’erano le denuncie per ordine della Real Camera, che pare le sottoponesse a
controlli; v’era la misura generale per parte del Ducato e dei Contadi; il
tutto annotato semplicemente in un una duplice serie di quadernetti con dati
bene spesso insufficienti all’identificazione dei fondi oppure con risultati
notevolmente discordi. Di qui nuove ire, nuove proteste, nuove liti; tanto che,
dopo avere adoperato invano ogni altro rimedio si recise il nodo con un colpo
di arbitrio, iscrivendo le partite errate, per metà secondo i risultati del
Fisco, per metà secondo quelli dello Stato.
Con uguale disinvoltura si procedette alla stima dei
terreni, che aveva il duplice scopo di determinare il valor capitale per ogni
circoscrizione, da servire poi al reparto del mensuale in confronto dei valori
analoghi dei beni di seconda stazione e della mercanzia, e di stabilire la
tassa che ogni pertica doveva sottostare, cioè il perticato.
Fu presa in considerazione la sola coltura del terreno,
senza riguardo alla sua maggiore o minore fertilità ed alle altre condizioni di
fatto che influiscono sulla rendita.
I prezzi furono determinati sulla base delle compra-vendite
avvenute negli anni 1548 e 1549, periodo troppo breve per fornire dati medi
attendibili, tanto più che in ogni tempo, i valori scritti nei contratti non
sono i veri.
Ad ogni modo le cifre determinate furono le seguenti:
VALORE
Rocchi scudi
8 la pertica = Lire milanesi 733 per ettaro
Orti, siti, risaie, prati irrigui “ 5 “ “ 458 “
Prati senz’acqua e aratorio vitato “ 4 “ “
366,5 “
Aratorio “ 3 “ “ 275 “
Selve (castagno?) “ 1 ½ “ “ 137,5 “
Boschi, pascoli, zerbini “ 1 “ “ 92 “
Terre incolte “ ½ “ “ 46 “
Brughiere “
1/5 “ “ 18,4 “
TASSA
Parto ad acquatorio e risaie soldi
3 la pertica = Lire
milanesi 2,29 per ettara
Aratorio vitato ad acquatorio “ 2 denari 6 “ “ 1,91 “
Boschi, aratorio vitato senz’acqua,
siti di casa
(broli) “ 2 “ “ 1,53 “
Prato senz’acqua, aratorio adacquatorio “ 1 denari 6 “ “ 1,15 “
Aratorio, prato, brughiere, boscate “
1 “ “ 0,76 “
Pascoli, zerbini, brughiere con alcune
piante “ - denari 6 “ “ 0,38 “
Non vi è sempre corrispondenza fra le due tabelle nei nomi
delle colture e meno ancora nei rapporti fra valore e tassa. Inoltre, essendoci
ignote le rendite censuarie, non ne conosciamo l’aliquota di prelevamento.
Tuttavia, facendo alcune ipotesi sulla composizione media dei poderi e
supponendo che i valori capitali suesposti dessero un frutto del 5% la tassa ne
preleva press’a poco il 10%.
Ciò in tempi normali che erano rari anche allora. Quando il
bisogno incalzava si riscuoteva non più un perticato, ma uno e mezzo,
due, tre e più, come quasi sempre avvenne nel Ducato, dopo il 1615. Così
aumentavano le strida e le sofferenze dei tassati, in specie nelle minori
Comunità cui si aggravava in tal modo il peso di una pessima distribuzione dei
tributi camerali migliorata di ben poco anche dopo l’estimo delle terre. In
quale fu determinato nel 1564 e doveva essere eseguito, secondo gli ordini di
Carlo V, dall’estimo delle case, ma non se ne fece nulla se non nel Ducato.
Si procedette invece all’Estimo del Mercimonio con
che si pretendeva valutare i capitali che servivano a tutti i traffichi dello
Stato. Anche qui le difficoltà furono gravissime, sia per le strane ipotesi di
partenza, sia per l’insufficienza dei mezzi di indagine. Tanto che i quattro accreditati
mercanti forestieri chiamati ad attuarlo, se ne andarono dopo qualche anno
di lavoro, dichiarando il progetto ineseguibile. Tuttavia non vi si rinunciò e
nel 1599, dopo più di mezzo secolo dall’ordine di Carlo V, l’esimo del
mercimonio era concluso. Concluso sì, ma non pacifico; non appena conosciuto
insorsero i mercanti, trovandolo enorme; e pare avessero ragione perché
d’ordine regio, fu diminuito di un quinto, e questo quinto, strana giustizia, fu
aggiunto all’estimo complessivo dei terreni e fra i medesimi ripartito.
V’era poi un’altra circostanza che si ripercuoteva
sinistramente sulla ripartizione dei carichi; e questa fu la suddivisione del
perticato in rurale e civile.
Quei molti ricchi cittadini milanesi che possedevano terre
nel Ducato e nel Contado, abituali alle imposte personali, sempre da essi
pagate all’Esattore di Milano, non si acconciarono ad una impsta reale,
qual’era il perticato, che avrebbe dovuta essere soddisfatta nelle Comunità
dove i fondi si trovavano; e, sembra, non solo per orgoglio, ma per non
sottostare ai forti aggi rurale, che erano di soldi 3 per lira (cioè il 15%
dell’imposta). Fatto si è che tanto armeggiarono che ottennero l’iscrizione dei
valori e della tassa relativa ai loro terreni in un estimo cittadino che fu
detto civile. Pari pretesa ebbero, con analogo risultato, altre città dello
Stato: Protestarono le Comunità rurali, che si vedevano diminuiti i mezzi atti
a soddisfare le quote del Mensuale e degli altri carichi camerali assegnate
loro senza tener conto della grave falcidia; mezzi che calavano ad ogni
acquisto di terre per parte di cittadini.
Se ne disinteressarono, in un primo tempo, La Regia Camera e
le Province, cui bastava che il tributo fosse versato, poco importando da chi e
dove. E ciò contro l’ordinanza di Carlo V, istitutiva dell’estimo; contro
l’esplicita sua conferma in data 13 maggio 1548, e perfino contro una sentenza
del Governatore Don ferrante Gonzaga, in data 13 maggio 1540, che riconfermava doversi
censire i beni nei territori nei quali erano situati.
Dal che si vede come in quel tempo non solo le Gride di
manzoniana memoria, ma perfino gli ordini imperiali fossero tenuti in poco
conto.
Qualche lieve temperamento fu preso. Nel 1566 un ordine regio
vietò per l’avvenire il passaggio dei beni dalla classe rurale alla
civile: Ma quel che era fatto restò. Soltanto nel 1599 Filippo III ordinava che
la sentenza di Don Ferrante Gonzaga fosse eseguita e pare lo fosse per le
province di Alessandria e Vigevano. Poi non ci si pensò più.
Cosicché ai numerosi difetti del Catasto di Carlo V si
aggiunse anche quello di aver sdoppiato un’imposta reale, qual è la fondiaria,
in due rami: reale l’uno, personale l’altro, con risultato sempre più vano
rispetto allo scopo per cui l’estimo era stato formato, il giusto riparto di
carichi generali.
Ma i tempi non erano maturi. Da tutto quel lavoro, con le
sue misurazioni parziali e difettose, con le evasioni enormi, con una stima
d’oltre ogni dire grossolana, venne e non poteva venire se non una pallida
ombra di un buon Catasto.
Doveva essere l’Austria, dopo circa 200 anni, a dotare la
Lombardia di quel “Censo Milanese” che fu per l’epoca, un modello del genere;
dal quale discese, perfezionato, dopo un altro secolo, quel “Nuovo Censo
Lombardo-Veneto” che serve tuttora, discretamente, sia pure dopo revisioni di
mappe e di estimi, agli effetti civili e fiscali, nelle province di Milano,
Bergamo, Como e Varese.
(Estratto da: Rivista del Catasto e dei Servizi Tecnici
Erariali, Anno IX N. 3 – Maggio-Giugno 1942 – XX).
RILEAMENTI TOPOGRAFICI E CATASTALI IN LOMBARDIA a
cura del Prof. Giovanni Boaga.
La storia del Catasto è assai bella ed attraente. Come è
noto, essa ha avuto inizio con le istituzioni censuarie dell’antica
Roma, ed ha seguito tutti ipopoli civili in tutte le vicende storiche liete e
tristi. Come ricorda il Morandini nella prefazione della Sua opera “Il
censimento Milanese” il Catasto ha sempre resistito a tutte le calamità, e
sovente è stato fonte di saggi suggerimenti economici e politici agli uomini ai
quali era affidata la conservazione dei patrimoni dei vari paesi.
Fra i vari Catasti che si sono succeduti attraverso i secoli
particolare menzione va fatta a quello milanese decretato nel 1718 che, come
affermò la prima volta Adamo Smith nel 1802, si può ritenere il “modello dei
catasti moderni”. Esso è l’esemplare al quale si sono uniformate molte
istituzioni tributarie nostre e di altri paesi, per quanto riguarda: il
concetto, il disegno generale, i principi direttivi. Fra queste basti
ricordare: il Catasto egiziano decretato dal viceré Mohamed-Aly nel 1815, ed
affidato a ingegneri italiani; il Catasto del Regno di Baviera, quelli del
Ducato di Parma e Piacenza, della Toscana, ecc.
Nel Catasto del 1718 si volle la rappresentazione grafica
ella proprietà obbligando a tale scopo l’uso degli strumenti più perfetti e
conseguentemente la costruzione della mappa e della carta con la rigida
applicazione delle regole della geometria in modo che la misura della superficie
non fosse semplicemente descrittiva e numerica. In tale circostanza vennero
resi obbligatori opportuni controlli e compensazioni specialmente quando
operavasi con al Tavoletta pretoriana introdotta dal matematico Marinoni. L’uso
di questo strumento, è bene qui ricordare, trovò allora grande ostilità da
parte dei possessori e dei comuni.
L’estimo poi fu particellare per classi e tariffe in
quanto i singoli appezzamenti vennero distinti per coltura e bontà,
per classi e squadre ossia per qualità e classe (intrinseca
loro attitudine). In esso si volle la rendita netta ossia “depurata da ogni
spesa di coltivazione, manutenzione del fondo, da ogni perdita eventuale”.
Veniva considerato un periodo ordinario continuativo e
perciò veniva tenuto conto dello stato delle colture e delle esigenze agrarie
locali, tutto questo perché il censo fosse stabile, duraturo e non
continuamente variabile. I prodotti vennero considerati grezzi in
natura, esclusa ogni lavorazione industriale, che non fosse indispensabile per
renderli commerciabili e quindi uva e non vino, foglie di gelso e non bozzoli,
olive e non olio, ecc.
Ma assai prima i milanesi ebbero un Catasto e giunsero a
quello del 1718 diremo così, per gradi, dopo d’aver sperimentato per oltre due
secoli altre forma catastali, che ebbero origine alla fine del secolo XII
quando si pensò a formare un sistema catastale dei beni, ripreso poi nel
1208 dall’Anguissola e terminato dal Gozadini, bolognese, e pubblicato da
Martino della Torre nel 1248 (?).
I terreni erano sottoposti e due esazioni: la prima
consisteva in grano e vino (imbottato) la seconda invece fu varia ed arbitraria
in ragione delle circostanze dei tempi. In seguito agli eventi rovinosi cui
dovette sottostare Milano, dopo la formazione di questo catasto, e di un secondo
effettuato nel 1260 con gli stessi criteri del primo, e di un terzo
(revisionato) del 1288, il ricavato dallo inventario si mostrò
inadeguato agli imperiosi bisogni dello Stato, quantunque, come ricorda G.
Biscaro nella sua opera “Gli estimi del comune di Milano nel secolo XIII”, esso
inventario avesse avuto dei continui aggiornamenti, continue estensioni, ecc.
messe in luce con una ricchezza di particolari ed una quantità veramente
ingente di documenti illustrati dal chiaro Autore ed interessanti esimie personalità, quali ad esempio i
pontefici Innocenzo III, Innocenzo IV, Clemente IV e numerosissimi vescovi e
arcivescovi illustri, nonché capitani, consoli, nobili e cittadini di gran fama
che si trovano anche compreso nelle vicende militari e politiche della città di
Milano, quali il generale Uberto Pelavicino, Gregorio da Montelongo, Aliprando
Visconte, e tanti e tanti altri ancora.
Continuando questo stato anormale del Catasto ed aumentando
le spese, da una parte, e gli esoneri delle “gravezze” dall’altra, si
aggiunsero più tardi altri nuovi aggravi: il censo del sale e la tassa
dei cavalli. Il primo trasse origine da una distribuzione di sale comandata
nel 1462 da Francesco Sforza. Il secondo venne introdotto nel 1442 dal duca
Filippo Visconti in sostituzione degli utensili (legna, fuoco, strame) che si
dovevano alla cavalleria per gli alloggi.
Si arriva così verso la metà del 1500 quando, sotto il
dominio dell’Imperatore Carlo V, si forma un nuovo censimento per ottenere un
carico di 12.000 scudi mensili, imposto dall’Imperatore al Ducato di Milano per
il mantenimento delle truppe.
Questo canone fisso si voleva ripartire secondo giustizia e
secondo la forza retributiva di ciascun abitante, sulla base di un nuovo estimo
generale decretato nel 1543. Con la legge di Worms nel 1545 l’Imperatore proibì
la vendita dei beni, anche a titolo di pagare debiti, di far donazioni, di
pagare salari, ecc. Nel 546, per opera del governatore di Milano, don Ferrante
Gonzaga, venne istituito poi il “tribunale dei prefetti dell’estimo” fornito di
pieni poteri, formato con persone estranee al dominio, per migliore garanzia ed
imparzialità.
Epperò, nello stesso anno 1546, sopraggiunte le guerre di
Germania e le sollevazioni di Napoli e di Genova, anziché abolire il canone di
12.000 scudi mensili, questo venne raddoppiato e così suddiviso
provvisoriamente:
Città e
Ducato di Milano scudi
120.000
Città
contado e separati di Cremona scudi 60.000
Città di
Lodi, suo contado e separati scudi 22.500
Città di
Pavia, suo contado e diversi scudi 37.500
Città di
Como e suo contado scudi 17.400
Città di
Novara e suo contado scudi 22.500
Città di
Alessandria, suo contado e diversi scudi 10.500
Città di
Tortona e suo contado scudi 6.000
Città di
Vigevano e suo contado scudi 3.600
Per un complesso di 300.000 scudi.
I prefetti decisero di formare due estimi separati:
il primo relativo a tutti i fondi stabili situati entro la Stato di
Milano, il secondo, relativo al mercimonio ossia alla industria in genere.
A ciascuno di essi venne assegnato il corrispettivo contingente sul contributo
totale.
L’estimo dei fondi stabili ebbe fine del 1564 e data
la sentenza (cioè pubblicazione) quattro anni dopo, nel 1568; quello del mercimonio
venne pubblicato assai più tardi, nel 1599 per cui fu necessaria una nuova
ripartizione fra le province.
Ben presto questo Catasto dei fondi stabili si manifestò
incompleto e pieno di errori, di omissioni (cioè di superfici non censite per
varie ragioni), di elementi assai deficienti, con l’assegnazione di una sola
tariffa di stima in ragione di coltura, trattando allo stesso modo i terreni
ottimi, buoni, mediocri e quindi senza riguardo alla bontà intrinseca dei
terreni stessi.
Tutto ciò fomentò liti da una parte e resistenze ostinatissime
dall’altra ed il principio di perequazione, che a noi sembra tanto
facile ed incontrastabile rimase soffocato, fino alla formazione del Catasto
del 1718, che ebbe un saggio interpretatore nella persona del dotto fiorentino
Pompeo Neri, di cui va ricordata la magistrale Relazione del 1750.
Ma anche prima di questo Catasto il Senato di Milano nel
1664, in solenne consulta, proclamava l’assoluta necessità di un nuovo Catasto
considerato allora come fondamento preliminare a qualunque buon progetto senza
di cui tutto sarebbe rimasto nell’antica confusione.
Dopo le vittoir riporate da Carlo VI, nel 1707 il principe
Eugenio di Savoia, governatore di Milano, ridusse ad un sol canone tutti i
carichi universali, militari e mensuali. Nel 1709 fu fatto naufragare poi, dai
contrasti ostinati della comunità, un tentativo del conte Prass. Si arrivò così
al 1714 e le istanze rivolte all’Imperatore Carlo VI finirono coll’ottenere la
sovrana sanzione. Nel ricordato anno 1718 venne istituita la S. M. Cattolica la
prima Giunta di censimento con il compito della riforma dell’estimo
antico e di tutti i disordini da esso prodotti e della formazione di un nuovo
ed universale censimento. Questa giunta durò fino al 1733 indi ne venne
istituita una seconda che ebbe fine nel 1758.
A presiedere la prima Giunta venne chiamato il reggente del
Supremo Consiglio d’Italia e collaterale di Napoli Don Vincenzo de Miro, a
presiedere la seconda venne chiamato l’illustre Pompeo Neri, fatto venire per
tale Ufficio dalla Toscana.
A queste Giunte o Tribunali dell’estimo in qualità di
consiglieri hanno dato la loro opera uomini di alto valore e di larga
reputazione.
Grande soddisfazione si prova leggendo oggi, alla distanza
di oltre un secolo la Memoria del Lupi “Storia del Catasto prediale milanese”,
dove sono riportate, fra loro, le istruzioni del 10 marzo 1725; quella
del Carli su “Il Censimento di Milano” ed infine quella già ricordata del
Morandini. Da questi studi, che in un secolo non hanno perduta la loro
freschezza, veniamo a conoscere che già allora i terreni venivano distinti in terreni
di pianura e di monte e troviamo così il germe, l’idea, del moderno
concetto della suddivisione del territorio dello Stato in zone agrarie.
Le tariffe di stima o tabelle comunali vennero pubblicate
nel 1726, e furono assegnati due mesi per gli eventuali ricorsi o reclami sia
da parte dei comuni, sia da parte dei proprietari e successivamente nel 1727
vennero accordati altri due mesi di proroga per poter meglio accertare la
cosiddetta corrispettività equivalente al nostro concetto di perequazione.
Per redimere i ricorsi venne istituito il “Collegio dei
periti”, formato da dodici persone, sei delle quali avevano preso parte alle
operazioni di censimento e sei estranee e perciò denominate imparziali.
Per avere un’idea del lavoro compiuto da questo Collegio
ricorderemo che i reclami esaminati in solo 11 mesi sono stati 720 su 4.553
presentati. Di essi, circa un migliaio, spettanti al giudizio della Giunta
generale, perché non riguardanti la stima, ed i rimanenti respinti, perché la
documentazione
Presentata si mostrò insufficiente.
Per mettere in risalto il grado di ponderatezza e di
moderazione che venne allora usato, e che si può dire, continua tuttora,
ricorderemo che prima di rendere definitivo il censimento effettuato, con un
nuovo dispaccio sovrano in data 19 settembre 1729, si ordinava la revisione
generale di tutta la stima.
Le operazioni di stima vennero così fatte e rivedute per ben
tre volte; questo fatto serva a mettere in chiara luce il metodo seguito con
scrupolosa coscienza, con spirito di temperanza e di giustizia, estraneo ad
ogni fiscalità.
Le mappe in numero di 2.378 poiché tanti allora erano i
comuni con le frazioni ad essi aggregati, rilevate tutte con la tavoletta
pretoriana, in scala 1:2.000, adottando per la misura delle aree la pertica
milanese equivalente a 654 metri quadrati, risultavano già ultimate e
collaudate nel 1723, mentre le stime furono ultimate nel 1726. Nel 1733 era
quasi al compimento, con tutte le operazioni di contenzioso, allorquando
sopraggiunse lo scoppio della guerra e le operazioni catastali vennero
interrotte.
L’arrivo dei francesi in Lombardia obbligò ad incassare
tutti i documenti che vennero posti in salvo nella fortezza d Mantova. Le
operazioni catastali vennero riprese sedici anni più tardi, dopo la pace, nel
1749.
L’antico Stato di Milano usciva dalla guerra alquanto
mutilato, avendo perduto tutti i territori al di là del Po, del Ticino e del
Lago Maggiore.
La nuova Giunta, istituita da Maria Teresa presieduta come si
disse da Pompeo Neri, riprese il lavoro di revisione e di rettificazione del
Catasto e fu allora istituito anche un Catasto edilizio.
Per gli edifici si prese a norma di stima l’affitto reale
o presunto rispetto alle case di città, detraendone due terzi, uno per
riferire la stima all’epoca della stima dei terreni ormai lontani di 25 anni,
ed uno per tenere conto delle spese di manutenzione e per il rischio
dell’incendio. La stessa norma venne seguita per le case di affitto di
campagna. Altre norme vennero poi usate per le case di campagna adibite a
villeggiatura o a scopo colonico.
Il 23 dicembre 1757, fu sciolta la Giunta ed in sua vece
venne istituita una “Delegazione governativa per gli affari ancora pendenti”
denominata Regia provvisoria delegazione per l’esecuzione del censimento nello
Stato di Milano”. Con dispaccio sovrano del 5 novembre 1759 venne ordinata l’attivazione,
sotto Maria Teresa al 1° gennaio 1760, con pubblicazione contemporanea a Milano
dell’intero Codice censuario, ossia con la pubblicazione di tutte le
leggi e disposizioni relative al nuovo censimento.
Sciolta la Delegazione, nel 1761, fu affidata la conservazione
del Catasto ad un Delegato del censo, in ciascuna provincia, e ad un
cancelliere in ciascuna pieve o distretto. La conservazione veniva
mantenuta mediante lustrazioni decennali, le quali tenevano conto delle
erosioni, alterazioni dei fiumi e torrenti, senza però variare l’estimo, fatto
questo che diede luogo a molti lamenti.
L’esimo di tutto lo Stato è stato valutato allora ad un
capitale di 74.619.683 scudi fruttanti il 4%. Attribuendo il doppio per la
parte colonica si vede che il frutto del terreno era appena di 6 milioni di
scudi per anno.
(Estratto da: Rivista del Catasto e dei Servizi Tecnici
Erariali, Nuova Serie, Anno V, N. 2 – 1950).
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