Parterre all'italiana di Villa Bossi-Zampolli. |
Dipanare le vicende e i
protagonisti di una famiglia dalle origini antichissime e dalle complicate
diramazioni come quella dei Bossi sarebbe impresa titanica e forse vana, se non
ci si potesse riferire agli studi effettuati da due storici: uno del passato,
Donato Bossi, autore di una discussa "Chronica" quattrocentesca ma
soprattutto di una corposa genealogia "bossiana", e uno vivente,
Giancarlo Vettore, da anni cultore di sicura competenza della materia e instancabile
frequentatore di archivi pubblici e privati. Per merito loro siamo in grado di
ripercorrere agevolmente le tappe fondamentali di una stirpe che, annoverando
illustri personaggi (decurioni, senatori, vescovi, letterati, giuristi, ecc.),
ha lasciato di sé un ricordo indelebile anche grazie alla nascita di
aristocratiche residenze e, di conseguenza, di splendidi giardini.
Le origini dei Bossi - ma
qui siamo nel campo della leggenda - risalirebbero addirittura a prima di
Cristo, quando un loro membro pensò di adottare l'insegna vista su una nave
egizia, in cui era raffigurato un bue bianco: animale che poi entrò veramente
nei quarti dello stemma nobiliare. Più sicuro è che un Benigno Bossi fu
arcivescovo di Milano (465-472) e diventò poi santo, come è certo che le
fortune della famiglia ebbero inizio in seguito ai favori ottenuti dal
Barbarossa e al suo inserimento nella "Matricula Nobilium Familiarum"
di Ottone Visconti del 1277, che stabilì in modo netto la distinzione fra i due
rami principali, quello milanese e quello dei Bossi di Azzate, accanto al quale
si andarono poi formando anche quelli di Musso sul lago di Como e di Meleto nel
Lodigiano.
Il centro di Azzate,
secondo un recente studio del Vazzoler (1996), era già da tempo abitato dai
Bossi, la cui presenza è attestata da una pergamena risalente al 1173.
Capostipite del ramo
nobiliare azzatese fu un certo Arnaldo, dal cui figlio Rabalio (o Rabaglio)
discendono i personaggi che maggiormente ci interessano ai fini di una
ricostruzione storica, almeno parziale, della magnifica residenza affacciata
sul lago di Varese. Vale la pena soffermarsi su una coppia di Bossi
cinquecenteschi perché citati da Bartolomeo Taegio nel suo celeberrimo trattato
"La Villa " (1559), in cui vengono elencati i proprietari dei migliori
esempi di residenze e giardini del Ducato di Milano. Si tratta di Marc'Antonio
e Girolamo Bossi, padre e figlio, l'uno cavaliere aurato, l'altro storico e
poeta, oltre che insegnante all'Università di Pavia. Del primo il Taegio dice
che "col corpo sta in Melano, e con la mente va filosofando e poeteggiando
per li riposti lochi del suo monte Parnaso di Azzà, terra così atta à simili
studij", mentre del secondo - "fisico eccellentissimo e poeta
rarissimo" - afferma che "non si sa partire dalla solitudine di
quella", cioè della medesima residenza paterna. Viene in tal modo
confermata, almeno sin dall'epoca rinascimentale, la passione dei Bossi non
solo per la loro terra natia, ma anche per la magnificenza del vivere in villa,
circondati da bellezze e ornamenti degni appunto del monte Parnaso. Va anche
precisato che in Azzate vissero ben quattro rami della famiglia: i Bossi di
Azzate, che abitavano nel castello di cui poi diremo; quelli di Milano, che
espressero soprattutto grandi giureconsulti e vivevano nell'attuale villa
Ghiringhelli; poi i Bossi di Musso, un tempo residenti in un edificio oggi
adibito a ristorante; quindi il ramo di Meleto di Lodi, allora proprietari
dell'odierna villa Benizzi-Castellani.
Un ramo, infine, viveva nel
vicino paese di Bodio e da taluni viene ritenuto addirittura quello che otto
secoli or sono diede origine all'intera stirpe. Anzi, è importante sottolineare
che la cosiddetta Val Bodia (che, per decreto 28 settembre 1717, prese poi il
nome di Val Bossa) - comprendente le località di Azzate, Daverio, Galliate,
Crosio, Brunello, Buguggiate, Bodio e Gazzada in pieve di Varese - faceva parte
di quel grande feudo che nel 1538 era stato venduto da Agostino d'Adda al
senatore Egidio Bossi, celebrato giureconsulto, avvocato fiscale e autore di
importanti trattati giuridici.
La principale residenza
bossiana di questo vasto 'monte Parnaso' - oggi conosciuta come villa Zampolli,
dal nome del suo attuale proprietario - vanta origini antichissime, tanto che
la località stessa in cui si trova, una sorta di altura dominante il paese e la
sottostante conca del lago di Varese, da tempo immemorabile viene chiamata 'il
Castello'. Che i Bossi possedessero una residenza di tipo feudale con caratteri
soprattutto militari sembra accertato a partire almeno dal 1290, quando il
principale rappresentante della famiglia era il capostipite Rabalio.
All'interno stesso del
castello era presente una chiesa dedicata a San Biagio - censita da Goffredo da
Bussero nel XIII secolo e poi scomparsa - mentre all'esterno un'altra chiesa,
dedicata a San Lorenzo, venne edificata intorno al Mille ed è tuttora presente,
anche se più volte rimaneggiata, accanto all'ingresso dell'attuale villa, tanto
che i Bossi ne mantennero il giuspatronato fino al secolo scorso. Tuttavia,
sotto il profilo politico il periodo di dominio dei Bossi su Azzate incominciò
a declinare intorno alla metà del Seicento, quando il feudo di Azzate con
Dobbiate venne concesso dapprima a Giacomo Maria Alfieri (1657), poi al conte
Nicolò Torriani (1712) e successivamente ai segretari del senato Giulio Antonio
Biancani (1737) e Giampaolo Mollo (1748).
Anche se progressivamente
ritiratisi - o estromessi - dalla vita politica, i Bossi continuarono a
risiedere nel loro avito castello, le cui originarie funzioni feudali e militari
nell'arco di qualche secolo vennero sopraffatte da altre esigenze abitative,
così che giustamente il Langé (Langé-Vitali, 1984) sottolinea la difficoltà di
"riconoscere compiutamente il reciproco rapporto nel tempo tra le vecchie
e le nuove strutture". Lo stesso studioso, comunque, non esita a
individuare anche nell'attuale complesso edilizio settecentesco alcune parti
risalenti alle antiche strutture medievali: "i porticati nel piccolo
cortile, le finestre in cotto, i resti di affreschi", tutti databili intorno
al XIV-XV secolo. Un tentativo di ricostruire, sia pure sommariamente, la
storia dell'edificio e del giardino attuali deve comunque iniziare da una
lettura delle tavole e dei registri del Catasto di Maria Teresa. La mappa di
Azzate - elaborata fra il maggio e ilo luglio del 1722 - raffigura al n. 886
una "Casa di propria abitazione, compreso l'Orto in mappa al n. 356 ed
anche compreso un Torchio da Nus per proprio uso", della superficie
complessiva di 8 pertiche e 9 tavole. La configurazione della casa ricorda
molto da vicino le strutture tipicamente castellane, imperniate su un cortile
centrale racchiuso fra quattro corpi di fabbrica, di cui quello orientale si
prolunga a sud, fin quasi a toccare la "Cappella o sia Oratorio di S,
Lorenzo in Castello d'Azzate". La collocazione e la pianta stessa di
questo edificio farebbero ritenere che la successiva 'ricostruzione'
settecentesca sia avvenuta in un certo senso inglobando, anche se parzialmente
demolendoli o trasformandoli 'prepotentemente' (Langé- Vitali, 1984), gli
ambienti preesistenti. Per ciò che concerne gli spazi ornamentali a verde, va
sottolineata la scarsa affidabilità del Catasto settecentesco in questo
settore, poiché non pare credibile che quello che fino a poco tempo prima era
considerato un 'monte Parnaso' sia ora del tutto privo di un pur modesto
giardino. Probabili esigenze di natura fiscale devono aver fatto passare il
terreno n. 356, con vista sul lago di Varese, per un 'orto' di vaste
dimensioni, quando sul fronte della casa già esisteva un'altra area adibita ad
orto (n. 357).
Intestataria di questi beni
era la persona del conte Giulio Cesare Bossi fu Paolo, che era proprietario di
beni azzatesi per una superficie totale di 2287 pertiche, mentre a un suo
parente, Vespasiano Bossi fu Francesco, che risiedeva nella casa n. 883
strettamente annessa all'ala orientale del castello, erano intestate poco più
di 118 pertiche. La morte colse il conte Giulio Cesare Bossi nel novembre del
1774, ma la sua eredità, consistente in 2397 pertiche, venne trasmessa al
figlio Luigi nell'agosto del 1780, quando ormai da tempo questi aveva dato il
via alla riedificazione del castello, sotto forma di villa impostata su uno
schema tardo-barocco, che però non poteva sottrarsi alle coeve influenze
neoclassiche (Langé-Vitali, 1984).
Riguardo ai tempi relativi
a questi lavori si hanno date sicure, poiché alcuni anni or sono, durante opere
di restauro dell'edificio, fu rinvenuta una pergamena fatta murare dallo stesso
conte Luigi, in cui si confermava non solo la sua committenza, ma anche la data
di inizio (1771) dell'erezione della villa "a fundamentis": i lavori
terminarono poi nel 1779, anche se alcuni interventi di minore portata si
protrassero fino agli inizi dell'Ottocento.
Nel frattempo, le vicende
connesse alla proprietà dei beni lasciati da Giulio Cesare si complicarono,
poiché dopo la morte di Luigi (1802), la partita ereditaria passò in un primo
momento ai figli di Francesco e Claudio e poi, dopo la morte di Francesco,
anche al figlio maggiore di quest'ultimo, Luigi, e ai suoi fratelli. La
proprietà del patrimonio azzatese bossiano subì una divisione nel 1812, seguita
però da una parziale riunificazione quando i vari eredi Bossi, nel 1815,
vendettero la villa e altri immobili a un certo Lorenzo Obicini fu Giovanni
Battista. Questi, nel corso di una quindicina d'anni, ampliò ulteriormente la
proprietà sino a toccare le 1521 pertiche, ma il 7 giugno 1833 vendette
l'intera partita a un'acquirente d'eccezione, Maria Cristina di Borbone,
"nata Infante delle Due Sicilie, Regina di Sardegna, Vedova di S.M. Re
Carlo Felice", che era morto da due anni. Quali ragioni potessero aver
indotto una donna ricca, potente e dal casato illustre come Maria Cristina ad
acquistare una villa come quella azzatese è difficile oggi scoprire. Certo è
che la regina non fu estranea alla vita di questa sua nuova proprietà, tanto è
vero che fu per suo volere che dal vicino colle di San Quirico, sulla strada
che porta a Brunello, vennero effettuate le opere per captare l'acqua
necessaria a irrigare il grande giardino. Qualche perplessità potrebbe invece
nascere dal fatto che la proprietà azzatese di Maria Cristina andò per intero,
nel 1849, al conte Filiberto Avogadro di Collobiano fu Ottavio, "gran
Maestro della Casa di Savoia", che era stato primo segretario di gabinetto
di Carlo Felice e poi gentiluomo di camera fino alla morte del re. Si sa invece
che Maria Cristina aveva ottimi motivi per manifestare la propria gratitudine
all'Avogadro se si pensa che questi, dopo la salita al trono di Carlo Alberto,
era stato allontanato bruscamente dalla corte, diventando però sovrintendente
generale della stessa regina, una cui dama di corte egli aveva sposato nel
1829.
Alla sua morte, la villa
che fu dei Bossi andò dapprima al figlio Vittorio (1868), quindi ad altri
proprietari fino a pervenire ai nostri tempi alla famiglia Zampolli, l'impegno
della quale per la conservazione di villa e giardino è davvero eccezionale e
meritorio.
L'ingresso alla villa,
sulla destra dell'Oratorio di San Lorenzo, è imponente e principesco, con due
alti corpi d'invito su cui campeggiano gli stemmi delle famiglie che hanno qui
dato vita a uno dei migliori esempi di giardini dell'intera provincia di
Varese. Al di là di uno splendido cancello in ferro battuto - dopo un lungo vialetto
a imbuto definito non solo dai muri di fabbricati di servizio, ma anche da
basse siepi di ligustro e da rampicanti (Parthenocissus tricuspidata) - si apre
il solenne cortile d'onore, interamente racchiuso dai corpi di fabbrica
dell'edificio a mo' di corte castellana. Il suo arredo vegetale viene
assicurato da un solo esemplare di magnolia sempreverde (Magnolia grandiflora),
posto al centro e dotato di un bel portamento, attorno al quale prospettano il
porticato settentrionale, le finestre interne e i festoni dipinti in stile
settecentesco con graziosi e delicati trompe-l'oeil. Tutta la composizione si
distribuisce ai lati di un solo e lungo
asse che, partendo esternamente da una piazzetta privata, attraversa l'ingresso
a invito, il cortile con la magnolia, il porticato, l'ala nobile dell'edificio
ed esce a settentrione sul fronte verso il giardino, dove separa anche il
doppio scalone che scende nell'ampio parterre formale.
Per accedere al giardino si
passa usualmente lungo il fianco destro della villa: in pochi passi si presenta
alla vista, in un quadro ambientale di grande suggestività, il vasto parterre
rivolto a settentrione. Sulla destra è radicato un enorme esemplare di
"Cedrus deodara", purtroppo parzialmente troncato da un fulmine, che
funge da elemento di raccordo fra il vastissimo ripiano all'italiana, posto
a nord della villa, e il grande parco
romantico che si sviluppa alla base di quest'ultimo. Il parterre all'italiana,
davvero solenne nella sua rigorosa severità formale, in perfetta consonanza con
le linee architettoniche settecentesche dell'edificio, si presenta come un vero
e proprio balcone di grandi proporzioni, aggettante sul non lontano bacino del
lago di Varese in un arco racchiuso a est dai monti della Valganna e a ovest
dai paesi della vicina Val Bossa. Questa funzione di grande poggiolo è tanto
palesemente voluta e ricercata che per almeno metà della sua superficie (in
particolare il tratto terminale, a forma di esedra) lo spazio pianeggiante si
presenta come un terrazzo sostenuto a valle da muri, arcate, grotte e pilastri,
tutti appoggiati sul sottostante declivio. Il suo disegno e il suo corredo
vegetale appaiono netti e semplicissimi, in accordo con i migliori esempi
lombardi di arte dei giardini nel secolo dei Lumi. Quasi a ridosso della
facciata della villa si stende un comparto centrale erboso, avente ai lati due
enormi esemplari di "Osmanthus fragrans" - unica concessione
'romantica' all'area, trattandosi di una specie presente in Italia a partire
dal 1801 -, cui fanno seguito altri due spazi a prato, ornati con un paio di
bossi potati a palla, che precedono il terrazzino terminale. Tutto il parterre
è delimitato da una bassa balaustra in pietra, sulla quale sono disposte statue
di putti che rappresentano arti e mestieri e fruttiere pure in pietra, mentre
la decorazione vegetale è affidata a un severo ma efficacissimo rivestimento di
edera. La connessione fra il vasto ripiano e l'edificio storico è assicurata da
una doppia scalinata ricurva a forma di conchiglia che - partendo da una
terrazza inserita fra le due ali a U della villa, con putti in tutto simili a
quelli del parterre - scende verso il basso abbracciando a tenaglia una grande
vasca con mascherone. Sul lato ovest dell'imponente balconata, tramite
un'apertura si imbocca una seconda scalinata - assai più piccola, ma
graziosamente decorata con statue e vasi - che consente di scendere a un altro
parterre laterale, la cui 'estraneità' alle simmetrie formali all'italiana, a
dispetto di una balaustra analoga a quelle già descritte, viene sottolineata
dalla presenza di essenze tipicamente romantiche di grandi dimensioni, tra le
quali sono da notare un'alta "Magnolia grandiflora" e un enorme
"Osmanthus x fortunei". Da questo punto si può osservare come tutta
la fascia bassa della villa, e così quella dell'intero corpo di fabbrica
occidentale - che un tempo ospitava le serre e i rustici - sono totalmente
ricoperte di edera, vecchissima e ben regolata. Percorrendo il largo viale che
costeggia l'edificio sul versante occidentale, si ha modo di addentrarsi nella
zona romantica del grande giardino, come testimonia non solo lo sviluppo dei
sentieri - ora non più rettilinei ma ampiamente sinuosi - ma anche la varietà
di essenze vegetali esotiche. Un primo impatto si ha con una macchia di tassi e
di ligustri cino-giapponesi ("Ligustrum lucidum"), seguiti da gruppi
di bossi e di laurocerasi ormai vetusti e di grandi dimensioni. Quindi, là dove
il sentiero piega nuovamente in direzione nord-est dopo aver lasciato alle
spalle conifere e sempreverdi (camelie e nespoli giapponesi), a un bivio si
può scegliere se proseguire a metà costa
ritornando così sotto la grande terrazza all'italiana o scendere alla quota più
bassa del giardino, lungo il confine con vasti campi coltivati. In questo
secondo caso si osserva come qui abbia inizio una lunghissima teoria di alberi
caducifogli, alcuni dei quali di notevole altezza: primo fra tutti un vecchio
tiglio (Tilia platyphyllos), poi aceri, faggi, "Liquidambar", ai
bordi del grande declivio prativo, e invece querce ("Quercus robur")
e noci americani (Junglans nigra) sia pure in alternanza con conifere (Picea
abies) e sempreverdi (Prunus lusitanica) lungo il sottostante confine del
giardino. Seguono altri tigli e agrifogli, cui si contrappongono, nel prato, arbusti
ornamentali da fiore e da foglia (Malus,
Prunus, Weigela, Corylus, Magnolia). Si incontra poi un piccolo spiazzo
adattato a sito di riposo, con una statua e sedili in pietra, dominato da
grossi ippocastani e da giovani aceri giapponesi dalle foglie rosse. Un
sentiero risale, sulla destra, per raggiungere quello che corre trasversalmente
a metà costa, mentre, proseguendo in direzione est lungo il viale basso, la
scena è dominata da grandi macchie boschive costituite prevalentemente da
enormi tigli e aceri che formano una barriera quasi impenetrabile alla vista di
chi si trovi fuori del giardino. Un gigantesco platano è poi accompagnato da
ippocastani altissimi e, in questo punto, il sentiero riprende a salire verso
l'alto lasciando sulla destra altre caducifoglie, come aceri campestri, farnie
e carpini. Il grande prato sottostante alla terrazza all'italiana ospita pochi
alberi, tra i quali, nella parte alta, un acero himalayano (Cedrus deodara) e
un faggio, lungo il sentiero trasversale un alto cedro (Cedrus atlantica
'Glauca?) e una grossa quercia esotica (Quercus palustris), e infine alcune
betulle poste accanto a una quercia americana (Quercus rubra), sul limite
orientale. Rapidamente il sentiero, fra gruppi di conifere (tassi, tuie, pini
silvestri, cipressi, ginepri cinesi, Chamaecyparis) arriva nuovamente al grande
Cedrus deodara posto a lato del terrazzo formale all'italiana.
Anche se l'epoca in cui
avvennero le decisive trasformazioni del sito per volere di Luigi Bossi e
immediati successori potrebbe teoricamente aver consentito un'impostazione del
giardino simile all'attuale, siamo invece portati a ritenere che in quel
momento venisse realizzata esclusivamente l'area formale all'italiana e che
solo in seguito, nella seconda metà dell'Ottocento, si passasse alla
sistemazione del grande parco romantico. Un conforto a tale tesi verrebbe dalla
mappa del sito presente nel cosiddetto Cessato Catasto (1862), che riproduce un
giardino formale (n. 147) corrispondente a quello odierno anche nelle linee che
definiscono la lunga balaustrata, mentre i sottostanti terreni continuano a
essere chiamati con i nomi di 'prato' (nn. 144, 146, 148), 'aratorio' (n., 145)
e 'aratorio vitato' (n. 143). Se ciò corrispondesse a verità, si dovrebbe dare
atto agli Avogadro di Collobiano di non aver tentato di frodare il fisco.
(da "Giardini del
territorio Varesino - La provincia" di Paolo Cottini, Edizioni Lativa,
Varese, 1997).
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