Fin dagli ultimi secoli del medioevo si era venuto formando
l’istituto del fedecommesso familiare, mediante il quale il testatore, con una
disposizione inserita nell’atto di ultima volontà, si assicurava che il suo
patrimonio alla morte dell’erede, anziché essere devoluto secondo la volontà di
costui o della legge, sarebbe stato restituito dall’erede integro ad una terza
persona, e da questa ad un’altra, e via dicendo. Così l’individuo imprimeva al
proprio patrimonio una sorte che lo avrebbe seguito nei passaggi futuri di
generazione in generazione, senza che la volontà dei successivi eredi potesse
modificarla; il patrimonio, divenuto inalienabile, era vincolato nei successivi
trapassi, ipoteticamente all’infinito, secondo la serie delle sostituzioni determinate
in origine.
L’istituto ebbe la più ampia diffusione e il massimo impiego
quando si volle garantire il lustro continuato della famiglia attraverso una
successione prestabilita di membri di essa con esclusione degli altri,
soddisfatti con lasciti quanto più possibile esigui; il criterio prevalente dal
Cinquecento fu appunto quello che il patrimonio domestico dovesse venire
trasmesso nella discendenza maschile di primogenito in primogenito.
Nonostante l’evidente ingiustizia, per cui in ogni
generazione tutti i fratelli e le sorelle erano sacrificati al primogenito tra
essi, il sistema prosperò soprattutto tra i nobili e gli abbienti che
aspiravano alla nobiltà.
In questo anche i Bossi non furono secondi a nessuno.
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