martedì 22 ottobre 2013

L'aristocrazia lombarda e la casa sforzesca


di Franca Leverotti
L' aristocrazia, o patriziato, nasce e si consolida come ceto politico nel Cinquecento, quando, nel momento della crisi della dinastia sforzesca, trova un punto di coagulo e di forza, oltre che nel Senato, nell'amministrazione cittadina, cioè in quei consigli ristretti di decurioni che amministreranno da allora in poi con ampie e consolidate prerogative le città.
Questa aristocrazia non è ancora, in età sforzesca, un ceto, bensì un gruppo di persone, vicine ai signori di Milano, di disparata provenienza: nobili ancora radicati nel contado, talora ormai privi di poteri feudali, grandi feudatari le cui origini si perdevano nella notte dei tempi, che potevano vantare - cito- antichi privilegi in carta pecorina, come i Pallavicino; mercanti forestieri (i Gallerani, i Borromeo, i Maggiolini), cresciuti al servizio dei Visconti come tesorieri, ovvero prestatori del signore, che, con acquisti e, grazie al consenso e alla disponibilità dei duchi, arrivano a costruirsi anche un "piccolo stato": ovviamente mi riferisco ai Borromeo che attorno ad Angera avevano creato un compatto dominio. Ma, tra questi 'nobili', si trovano anche burocrati già al servizio dei Visconti come i Guidoboni (oggi Guidobono Cavalchini dal nome di un Cavalchino attivo negli anni '60-'90 del Quattrocento) con gli Sforza segretari ducali e ambasciatori, Giorgio Annoni commissario di Alessandria e di Parma, poi consigliere segreto, i Barbavara segretari e consiglieri, Bartolomeo Calco, primo segretario del Moro. Antiche famiglie come i Brivio, i Pecchio, i Pietrasanta e i Melzi di tradizione mercantile diventano maestri delle entrate; nutrito è anche il gruppo dei condottieri di svariata provenienza (Dal Verme, Attendolo Bolognini, i Brandolini) o fabbricanti di armi (Missaglia) che riceveranno feudi in cambio delle loro prestazioni.
Un gruppo alquanto variegato perciò, così come altrettanto variegata appare la nobiltà nelle diverse città del dominio.Infatti, mentre alcune città come Parma e Piacenza erano assediate dalle grandi famiglie feudali che spadroneggiavano in città, organizzate e divise in squadre contrapposte, forti dei loro punti di appoggio nei castelli di famiglia in contado: alcuni nomi: per Piacenza Landi, Anguissola, Fontana, Scotti, per Parma Pallavicino, Rossi, Sanvitale, una simile presenza non ritroviamo invece nel milanese, anche per l'azione livellatrice di un comune forte, ma Lampugnani, Marliani, Crivelli, Trivulzio, Castiglioni erano ancora nel tardo Quattrocento organizzati in consorterie, che riunivano tutti i rami della famiglia, più o meno potenti, più o meno ricchi, differenziati tra loro dalla monotona alternanza dei particolari nomi di battesimo, rami che praticavano un'endogamia fortissima, facevano lasciti nei testamenti alle fanciulle povere della famiglia, avevano proprietà in comune nel contado, magari un beneficio ecclesiastico, spesso una chiesa, talora il castello, che costituiva il punto di coagulo e di riferimento per la famiglia. E, spesso, qui in contado ancora abitavano, mentre in città risiedevano nella stessa parrocchia, ove avevano una cappella in cui si facevano seppellire, abitavano nello stesso quartiere, in case vicine, laddove erigeranno a partire dalla fine del Quattrocento quel palazzo di famiglia che nei testamenti vincoleranno all'inalienabilità.
Alcune di queste famiglie potevano vantare antiche condizioni di nobiltà, risalendo all'XI secolo i discendenti degli antichi capitanei de plebe, che nel cognome Capitanei de Agliate, Ozeno, Vicomercato, Capitanei di Villanterio, di Landriano..., richiamavano le loro origini: ma nel Quattrocento il termine capitani tende ormai a scomparire. A fianco di questa nobiltà di sangue, si era venuta creando, come si è detto, una nobiltà di servizio, che avrebbe tratto onori, ricchezze e nobilitazione proprio dall'impiego presso il principe.
Non esiste, in questo periodo, un ruolo ufficiale della nobiltà, cioè un registro, una matricola in cui erano inseriti i vecchi nobili e venivano iscritti i nuovi; questo volume che viene oggi presentato è un prezioso registro che ci consente di conoscere lo stemma delle principali famiglie lombarde, ma è un documento privato, redatto da un pittore per proprio uso, e passato poi ad altri pittori che a loro volta lo integrano. Possiamo invece considerare ruoli pubblici di nobiltà l'elenco delle famiglie ammesse a ricoprire i seggi canonicali delle cattedrali cittadine. Noto è quello di Milano del 1377, da integrare però per l'età sforzesca con un elenco ritrovato da Leonida Besozzi tra le carte Casanova, in cui ci sono alcuni nomi nuovi inseriti per volontà dei signori di Milano.
Ricostruire i rapporti tra la nobiltà e i duchi Sforza non è semplice, anche perchè non ci sono fonti specifiche; esiste una fonte narrativa, molto preziosa che è la storia di Milano scritta da Bernardino Corio, uomo di corte, cameriere di Galeazzo Maria e figlio di un diplomatico, Marco, che aveva esercitato al servizio di Francesco Sforza come famiglio cavalcante. Bernardino scrive nel momento di crisi della dinastia; l'opera viene stampata nel 1503, sotto la dominazione francese: a questa storia documentatissima, fondata su materiale di archivio (era andato addirittura in Monferrato per documentarsi), ricca di nomi e di avvenimenti, faranno riferimento molte famiglie nel Cinque-Seicento, adducendola tra le prove di nobiltà nelle richieste di ammissione al patriziato, per dimostrare l'antichità della famiglia.
In sintesi quali sono i rapporti tra Sforza e 'nobiltà'. Per Francesco Sforza (1450-1466), il condottiero che era riuscito a conquistare il ducato, anche con l'appoggio di alcune famiglie nobili, è un rapporto di compromesso. Timoroso di perdere il potere acquisito nel marzo 1450, messo in crisi dalla guerra con Venezia tra il '52 e il '54, oberato dai debiti, finanziariamente aiutato solo da Firenze che lo sosteneva allo scopo pratico di bloccare l'espansione veneziana nel cuore della pianura padana, fa una politica di compromesso con le classi dirigenti cittadine: da un lato evita di aumentare la pressione fiscale sulle città, gravando viceversa il contado; dall'altro cerca di non escluderle dall'amministrazione dello stato, evitando però di inserirle negli uffici politicamente più delicati: la vecchia nobiltà è esclusa dalle cariche di castellano, ad esempio, non ha incarichi diplomatici, è tenuta lontano anche dai Consigli. Nel Consiglio Segreto, ad esempio, quei pochi nomi milanesi che pure ritroviamo, Crotti, Trivulzio, Cotta....., sono presenti non solo per l'aiuto concreto che alcuni di loro avevano dato al condottiero, non solo per garantire una continuità 'amministrativa' col Consiglio di età viscontea, ma perchè hanno un denominatore comune: sono tutti in qualche modo imparentati con la famiglia Visconti. Ed è ai Visconti che si rivolge il condottiero, che aveva sposato la figlia naturale dell'ultimo signore di Milano, Filippo Maria Visconti, in nome di una continuità familiare legittimatrice, in particolare per il servizio a corte. Ed è con una Visconti che farà sposare il suo primo segretario (l'equivalente di un primo ministro di oggi), il calabrese Cicco Simonetta.
I Visconti erano allora una potenza economica di rilievo: ancora all'inizio del Cinquecento avevano un'entrata di almeno 80.000 ducati (quando il bilancio ordinario dello stato non arrivava a 400.000 ducati); dispersi nell'alta e nella media pianura, godevano loro e i loro massari di una totale esenzione fiscale. Sono purtroppo una realtà ancora da scoprire. Si conoscono molto poco i diversi rami, che prendevano nome dai castelli o dalle località dove erano concentrate le loro possessioni (Saronno, Crenna, San Vito, Sesto, Fontaneto, Oleggio, Castelletto...), si confondono spesso le loro discendenze, offuscate e rese impraticabili dalle omonimie. A parte qualche nome che compare nel Consiglio Segreto, anche i Visconti non vengono però impiegati in burocrazia, ma, insieme alla vecchia nobiltà di sangue, li troviamo impiegati a corte, come aulici e camerieri. Lo stato sforzesco è il solo caso noto tra gli stati del Quattrocento in cui i circuiti corte-burocrazia sono circuiti indipendenti, senza interferenze tra loro; non solo, è uno stato "moderno" dal punto di vista dell'organizzazione amministrativa, perchè non hanno punti di contatto anche i singoli circuiti delle magistrature centrali, delle magistrature periferiche, delle magistrature militari.
Quali compiti svolgono i cortigiani e, in particolare i Visconti, nei primi anni di dominio sforzesco? Partecipano ai pasti del signore e della sua famiglia, tagliando la carne, servendo da bere, pranzando con loro o in tavoli vicini a seconda della loro posizione a corte. In genere gli aulici accompagnavano il duca nelle cerimonie più importanti, lo assistevano quando arrivavano ambasciatori, erano invitati alla festa natalizia del ciocco di tradizione viscontea; i camerieri invece lo aiutavano a vestirsi, lo accompagnavano a caccia, partecipavano alle giostre: una presenza di rappresentanza, stabile, senza potere, che viveva all'ombra del principe, che sembra accettare e subire la nuova situazione. E a questa politica compromissoria si adegua Francesco Sforza: quando nel 1464 per motivi fiscali scoppia una rivolta nel contado piacentino, sobillata in realtà da un potente nobile locale Onofrio Anguissola, il duca interviene decisamente, ma non duramente: i capipopolo pagano con la vita, ma l'Anguissola è messo in prigione: sarà il figlio Galeazzo Maria, un giorno, di punto in bianco, alcuni anni dopo, a farlo decapitare.
La politica di compromesso con la nobiltà è interrotta da Galeazzo Maria (1466-1476). Il successore di Francesco è un giovane presuntuoso e spregiudicato che vuole governare in maniera assoluta e arbitraria, sentendosi pari solo al re di Francia, di cui sposa la cognata Bona di Savoia. Licenzia i vecchi funzionari del padre, rinnova la cancelleria anche se lascia a capo Cicco Simonetta (è in questa occasione che deve lasciare Milano Cavalchino Guidoboni), e fa una politica di esazioni fiscali che gli permette in pochi anni di mettere da parte tre milioni di ducati: praticamente accantonava tutte le entrate ordinarie e viveva con le entrate straordinarie, entrate che recuperava da un uso molto personalizzato della giustizia, da imposte inusuali (annate e mezz'annate) imposte a feudatari ed ecclesiastici, rincarando la tassa del sale (cioè la quantità di sale che ogni persona maggiore di quattro anni doveva consumare), aumentando del 20% le entrate indirette, cioè i dazi che colpivano gli abitanti delle città. E con questi soldi rinnova il castello di Milano, quelli di Pavia, Monza, Bereguardo, Galliate ove si reca a caccia, uno dei suoi svaghi preferiti, per il quale utilizza cani e cavalli pregiati che fa comprare in Francia e in Inghilterra; e organizza uno degli eserciti più forti del suo tempo. Per la corte spende migliaia di ducati, portando a 100 aulici e 100 camerieri il piccolo gruppo di aulici e camerieri del padre, tutti vestiti riccamente: un solo esempio per vestire otto camerieri spende 10.000 ducati. Ma non tutti gli aulici e tutti i camerieri sono considerati dello stesso livello, per quanto appartengano tutti a famiglie nobili delle stato o forestiere; come veniamo a sapere dall'ambasciatore mantovano, solo alcuni aulici sono ammessi nelle camere ducali ove si riunisce il Consiglio, pochi altri stanno nell'anticamera, ma la maggior parte non può accedervi, se non è chiamata. Licenziamenti, rotazioni improvvise, sostituzioni di uomini a corte e nell'amministrazione, violenze ed estorsioni sono all'ordine del giorno. I favoriti godono di immenso potere, ma possono cadere rapidamente dalle grazie del duca. La famiglia Marliani (una famiglia già di rilievo al tempo di Francesco Sforza), grazie al fatto che una Lucia era divenuta amante del duca (gli darà alcuni figli e verrà creata contessa di Melzo) acquista tanto potere da essere inserita nella matricola della cattedrale di Milano che ho ricordato prima. Degli zii di Lucia, uno, il confessore personale del duca, diventa vescovo di Tortona e consigliere segreto, un altro arciprete di S. Maria al Monte di Varese, un terzo commendatario dell'ordine gerosolimitano a Piacenza; il fratello è vescovo di Tortona, poi di Piacenza, mentre per favorire una sorella monaca si tenterà di unire al piccolo monastero di S. Orsola quello del Cappuccio, un monastero ricco e potente dove la nobiltà milanese faceva monacare le sue figlie; altri membri della famiglia erano camerieri, maestri delle entrate, consiglieri. I privilegi erano tali che di Melchione Marliani, un parente, consigliere segreto, si diceva per le careze del duca vive in tanta superbia che pare essere un altro Cosimo de' Medici.
Il Corio racconta di Galeazzo episodi tanto violenti e macabri che non mi sento di riportare, ne ricordo solo alcuni, meno drammatici: fece mangiare ad un contadino cacciatore di frodo una lepre viva con la sua pelliccia, e ordinò di seppellire una persona viva; avendo poi sorpreso Pietro da Castello a parlare con una sua favorita, ingelosito, gli fece tagliare le mani, accusandolo di aver falsificato documenti. Dal momento che ho trovato in archivio la supplica di Pietrino da Castello che chiede un officio alla vedova di Galeazzo, essendo stato privato delle mani, è probabile che gli episodi nefandi ricordati dal Corio fossero veri.
Come si ripercuote sulla nobiltà questo governo di Galeazzo? Il duca non si appoggia a questa o a quella famiglia, ma attua una politica trasversale che rompe i classici schieramenti guelfi-ghibellini e sgretola, o meglio tende a sgretolare, la compattezza dei clan familiari, licenziando il padre, mentre favorisce un figlio, esiliando un fratello mentre beneficia un altro. Non solo, ma per evitare pericolose alleanze, ostacola e impedisce alcuni matrimoni, e molti ne combina senza badare al ceto, facendo sposare fanciulle ricche e nobili con i suoi favoriti, nè nobili, nè ricchi.
Il 26 dicembre 1476, a Milano, nella chiesa di S. Stefano, Galeazzo Maria viene ucciso da tre congiurati; non si fanno funerali ufficiali, ma il corpo viene seppellito in fretta e senza cerimonie e deposto nel sepolcro del padre, perchè non rimanesse traccia della tomba di un signore che era stato assassinato. Il potere sforzesco è in pericolo, si teme la sollevazione delle comunità stanche delle tasse; si tolgono perciò alcuni balzelli, si invia grano nelle città e si rassicurano i paesi alleati, italiani e stranieri, che temono per la pace d'Italia. La lettera inviata alle potenze italiane e straniere è un capolavoro di diplomazia: si insiste sul fatto che i congiurati erano solo tre, con alcuni servitori; Giovanni Andrea Lampugnani era stato ucciso in chiesa dalle guardie del corpo, Carlo Visconti si consegna, non a caso, a Pietrofrancesco Visconti, un membro della famiglia che ricopriva la carica di consigliere segreto, Gerolamo Olgiati, catturato dopo alcuni giorni, confessa sotto tortura. I tre sono i rappresentanti di tre famiglie nobili: un Visconti di Saronno, già segretario di camera, quindi segretario personale del duca, da poco licenziato, un Lampugnani e un Olgiati, entrambi chiamati a corte due anni prima, ma relegati come aulici nella corte, di minor prestigio, della moglie Bona. Per volontà del duca al Lampugnani non era stato più rinnovato un lucroso fitto, costituito dai beni della ricca abbazia di Morimondo, nella loro totalità, escluso l'edificio sacro; l'altro, figlio di un collaterale generale e nipote del governatore dei figli del duca, confessa di aver ucciso Galeazzo Maria a causa della sua tirannia. La versione diplomatica dell'assassinio è che i tre non hanno complici; in realtà ci sono molte importanti famiglie coinvolte e questo tentativo riuscito, sarà negli anni seguito da altri, scoperti in anticipo, mai realizzati: la nobiltà milanese e lombarda cercava di recuperare con la morte dei suoi signori quell'autonomia e quel prestigio di cui aveva goduto nel triennio della repubblica ambrosiana e di costituire un governo oligarchico sotto l'ombra dell'Imperatore lontano.
Una prima conseguenza dell'assassinio di Galeazzo Maria fu l'aumento del numero dei consiglieri segreti, con l'aggregazione delle più potenti famiglie ghibelline, divise al loro interno nelle fazioni dei bianchi e neri: entrano Pusterla, Borromeo e Marliani, ed anche i guelfi Castiglioni, Rossi e Trivulzio. Ma, pochi mesi dopo, per volontà di Cicco Simonetta, prende vita un consiglio informale e ristretto, il Consiglio del castello, in cui pochi fedelissimi decidono per tutti i consiglieri. La nobiltà reagisce a questa nuova esclusione, alleandosi col fratello del duca ucciso, Ludovico il Moro, che era stato esiliato, riuscendo a farlo rientrare con l'incarico di governatore del nipote minorenne Giovanni Galeazzo Maria e riuscendo anche ad eliminare il potente primo segretario, Cicco Simonetta, da trent'anni a capo della Cancelleria segreta, cui viene tagliata la testa nel castello di Pavia (1480). Si apre un ventennio di dominio del Moro, il quale, però, dopo essersi appoggiato ai ghibellini, inizia a favorire i guelfi, ma divenuto signore di Milano dopo la morte del nipote (1494) cercherà di costruirsi un saldo potere al di fuori della nobiltà, appoggiandosi come scrivono i cronisti dell'epoca a "gente nuova et de minimo essere".
Le tensioni esplodono alla fine degli anni '90 quando il Moro per pareggiare i debiti impone una stretta fiscale di eccezionale gravità. Nel 1493 infatti era riuscito a far sposare all'imperatore la nipote Bianca e ad acquistare il titolo di duca dal medesimo imperatore, quel titolo che era stato vanamente inseguito dal fratello e dal padre. Il tutto gli era costato 470.000 ducati, pari al bilancio annuale dello stato, cui si devono aggiungere 175.000 pagati al signore di Ferrara, come dote della nipote sposata al duca d'Este. Per tamponare l'indebitamento a partire dal 1494 fu costretto a mettere in vendita le entrate del suo stato (dazi di vari genere), obbligando i sudditi con maggiori disponibilità a comprarle (ci sono rimasti 4006 contratti di vendita). Gli artefici dell'operazione furono Bergonzio Botta, un mercante di recente ricchezza, e Antonio Landriani il tesoriere ducale, che verrà ucciso nel 1499 da un nobile, Simone Arrigoni, della famiglia originaria della Valsassina che aveva dato alla burocrazia alcuni collaterali generali. Il Muralto, un giurista di Como, ne parla nella sua cronaca come di "due cani rapaci"; Ambrogio da Paullo, un mercante, scrive che un gruppetto di funzionari (il Botta, il Landriano, Francesco Brivio, Ambrogio e Bernardino da Corte, Ambrogio da Rosate e lo Stanga) si potevano considerare signori perchè regevano lo Stato a modo loro; e con il loro consiglio il Moro aveva messo il prestito a gentiluomini e artigiani delle città e ai contadini mandava in casa i soldati se rifiutavano di pagare...
La nobiltà allontanata dalla corte e dagli offici, capeggiata dai Trivulzio e dai Borromeo, ma anche da alcuni Visconti, impossibilitata a pagare le enormi tasse imposte, sceglie allora il partito francese: come si può vedere anche dai nomi sopracitati, l'ostilità alla dinastia sforzesca ricompatta le fazioni, coagulando nell'opposizione al Moro guelfi e ghibellini. Fu così che, non l'imperatore, ma un re, comunque lontano, consegnò alla nobiltà, insieme agli uffici delle città, il Senato, cioè l'antico Consiglio Segreto da cui era stata estromessa, e, con questi uffici, quel potere che il patriziato avrebbe tenuto per secoli.
Vorrei chiudere queste brevi note tornando al volume così pregevolmente edito, che raccoglie gli stemmi della nobiltà lombarda. Ho fatto cenno alle fazioni in cui la nobiltà era divisa: le quattro squadre di Piacenza, le quattro di Parma, i guelfi e i ghibellini in Alessandria, Novara, Como, Lodi, i guelfi, i ghibellini e i maltraversi a Cremona. Ebbene è difficile penetrare in queste fazioni, è difficile conoscere tutti i loro componenti. La sola documentazione completa che si conosce risale al 1470, quando Galeazzo Maria si fa mandare questi elenchi dai podestà delle città con l'intenzione di attingere ai due schieramenti (che si badi, non raccoglievano solo famiglie nobili, ma anche famiglie di mercanti e popolane) per costituire un corpo di ufficiali. Esiste però una bella relazione del 1520 resa dall'ambasciatore veneto che era tornato in patria, in cui descrive le famiglie più importanti delle singole città, distinte in guelfe e ghibelline; parte naturalmente dai Visconti e, per essi e per altre famiglie, sottolinea, tra l'altro, come non risiedessero in città, ma fuori, ('al monte' dice per i Castiglione); ricorda gli 80.000 ducati di rendita dei Visconti, i 60.000 dei Pallavicino e poi conclude parlando , cioè degli stemmi. Spiega che gli stemmi dei ghibellini hanno nella parte alta un'aquila nera, e, quando sono a colori e di metallo, il colore supera sempre per estensione il metallo; precisa che gli animali dipinti al naturale si trovano nelle armi ghibelline, e quando le armi sono a strisce oro e colore, per i ghibellini la striscia dorata parte da sinistra, mentre per i guelfi, come nel caso dei Trivulzio, la striscia dorata parte da destra. Descrive poi alcuni stemmi, tra i quali quello della famiglia Castiglione: un leone bianco in campo rosso con una torre in una zampa.
Ho fatto dei controlli sul volume edito, riscontrando una perfetta corrispondenza tra questa descrizione del Caroldo e gli stemmi raccolti nel volume. A questo volume perciò dovranno ricorrere gli storici ogni volta che vorranno collocare le famiglie nel giusto schieramento politico. Grazie a questa pubblicazione è disponibile oggi una nuova fonte per la storia della società lombarda.
Franca Leverotti
(Università di Torino)
Presentazione dello Stemmario Trivulziano, Castello di Jerago, 20 ottobre 2001.


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